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Il Punto del Corriere della Sera a cura dell’Agenzia “Cronache”, direttore Ferdinando Terlizzi

 

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mercoledì 12 marzo 2025
La palla nel campo russo
La palla nel campo russo
editorialista
di   Gianluca Mercuri

 

Quando non ci indigna, ci fa perfino sperare. Di certo, con lui non ci si annoia mai.

Dodici giorni dopo avere raggiunto l’acme dell’ignominia umiliando in mondovisione Zelensky, ieri Donald Trump ha aperto un primo spiraglio di pace tra ucraini e russi: una tregua totale di 30 giorni, subito accettata dalla delegazione di Kiev nei colloqui con il segretario di Stato americano Marco Rubio in Arabia Saudita.

 

 

«Ora la palla sta nel campo russo», ha detto Rubio, e sono parole che riassumono bene tutte le incognite di queste ore, ma anche delle prossime settimane. In sintesi: Putin dira sì? Lo farà subito o aspetterà? Come userà la tregua? Soprattutto: la rispetterà? Vedremo qualche risposta possibile.

Intanto l’Europa continua a muoversi, smentendo di giorno in giorno il cliché che la vuole inerme in ogni senso. Non lo è più, perché lo choc trumpiano ha prodotto in 45 giorni sommovimenti impensabili per decenni. In modo ibrido, in gruppi variabili a seconda di chi ci sta, comunque decisi a spendere molti soldi per riarmarsi e, nell’immediato, a mettere in piedi un contingente da mandare in Ucraina – idea resa ancora più urgente dagli sviluppi di ieri – inglesi francesi e tedeschi hanno preso una direzione decisa. L’interesse comune europeo è così forte da prescindere da sigle – Ue, Nato – e orientamenti politici – i tre Paesi hanno rispettivamente un governo progressista, uno centrista e uno in arrivo a guida conservatrice – con l’effetto di una Triplice che ha naturalmente preso in mano il timone nel momento più grave dalla Seconda guerra mondiale. Non solo: questo fermento intergovernativo è accompagnato da un sussulto energico delle istituzioni Ue, a cominciare dalla Commissione di Ursula von der Leyen.

 

 

In questo quadro iperattivo, l’Italia per ora si distingue per una certa passività, incarnata tanto dalla premier quanto dalla principale leader dell’opposizione. Antonio Polito ha inquadrato il momento con la consueta precisione:

 

«Tempi duri per le nostre due donne leader. Sia Meloni sia Schlein stanno reggendo male alla prova del grande scontro epocale che si è aperto tra Stati Uniti ed Europa. Mentre Meloni era decisamente centrale nello scacchiere internazionale ai tempi di Biden, oggi Merz, Macron e Starmer contano molto più di lei, sia nel rapporto e nella trattativa con Trump, sia nella costruzione di una credibile difesa europea che è il vero punto cruciale della politica europea oggi. Quanto a Schlein, anche Romano Prodi ha mollato il suo “pacifismo imbelle”, schierandosi come tutti quelli che hanno avuto un ruolo in Europa, da Gentiloni a Letta, a favore del piano di Ursula von der Leyen per il riarmo europeo. Piano che certamente si può migliorare ma non si può bocciare come ha fatto il Pd, unico tra i partiti socialisti europei».

E così, oggi il ministro della Difesa italiano, incontrando i colleghi di Francia, Germania e Polonia, resterà un passo indietro rispetto alle molteplici iniziative degli altri; e il Pd, a Strasburgo, sceglierà con ogni probabilità l’astensione sulla risoluzione che ribadisce il sostegno militare all’Ucraina e cita il piano di riarmo lanciato da von der Leyen.

 

 

E poi, in questa newsletter: la (per molti versi clamorosa) riapertura di due casi di cronaca nera vecchi di anni ma mai spenti, Garlasco e Mollicone; lo scontro durissimo tra Usa e Canada; le crisi in Romania e Portogallo; il flop del SalvaCasa; e altre cose che può essere utile sapere e leggere oggi.

Benvenuti alla Prima Ora di mercoledì 12 marzo.

Una svolta dopo tre anni di guerra?

La palla nel campo russoIl segretario di Stato americano Marco Rubio (Ap)

La proposta Usa, il sì ucraino, l’attesa per la risposta russa: punto per punto.

  • Il sì di Zelensky Il presidente ucraino ha accolto senza esitazioni l’idea americana di 30 giorni di tregua nel conflitto scaturito dall’invasione su larga scala lanciata dai russi il 24 febbraio 2022. «L’Ucraina accetta questa proposta, la consideriamo positiva, siamo pronti a fare un passo del genere e gli Stati Uniti devono convincere la Russia a farlo

    ». Intanto, l’Ucraina incassa un primo risultato essenziale: gli Stati Uniti riattiveranno «immediatamente» gli aiuti militari e la condivisione di intelligence con Kiev, interrotti dopo lo scontro del 28 febbraio. E il comunicato seguito ai colloqui parla di «una pace duratura che garantisca la sicurezza di lungo periodo per l’Ucraina»: un primo accenno, insomma, alla richiesta di tutele certe per il futuro su cui insiste Kiev.

  • Zelensky ha fatto bene? Risposta in una parola: sì. Risposta più articolata: il leader di Kiev aveva un bisogno disperato di rientrare in partita dopo essere stato letteralmente cacciato dalla Casa Bianca, e c’è riuscito. Dopo l’umiliazione subita dal duo Trump-Vance, il premier britannico Keir Starmer ha «allenato» Zelensky per giorni sul modo di porsi agli americani e l’operazione pare riuscita. Come osserva la nostra corrispondente dall’America Viviana Mazza, «indipendentemente dalla risposta russa, la giornata di ieri cambia la dinamica tra ucraini e americani. Zelensky può dire di non rappresentare un ostacolo al ripristino della pace». E può rimettere piede a Washington.

  • L’ottimismo di Trump «L’Ucraina ha accettato, adesso si spera che Putin sia d’accordo», ha detto il presidente Usa. «Sarebbe fantastico. Se non ci riusciamo andremo ci saranno moltissimi morti». Alla domanda se Zelensky potrà tornare nello Studio Ovale, Trump ha risposto così: «Certo, assolutamente». Intanto, spera di parlare con Putin «nei prossimi giorni».

  • Ma per gli Usa è una svolta? Per quanto l’esegesi di Trump sia sempre complicata, parrebbe di sì. Decisivo il ruolo di Rubio, che è riuscito a farsi finalmente largo dopo essere stato schiacciato dai falchi dell’amministrazione. La sua frase «la palla ora è nel campo russo» denota per la prima volta un’America che prova almeno a porsi come honest broker, come mediatore imparziale, dopo essere passata in poche settimane da primo alleato di Kiev ad alleato di fatto di Putin, cui ha già regalato due obiettivi vitali prima ancora di negoziare (nessuna restituzione dei territori conquistati e niente ingresso di Kiev nella Nato). Questa altalena, secondo esponenti dell’amministrazione come l’inviato per l’Ucraina Keith Kellogg, è studiata proprio per rendere Trump imprevedibile, e dunque temibile, agli occhi di Putin.

  • Ma qual è la situazione militare? La proposta di tregua è arrivata poche ore dopo che gli ucraini hanno colpito i russi con un impressionante attacco di droni su Mosca, che ha fatto 4 vittime civili. I droni si confermano al momento l’arma migliore per il Paese invaso, perché riesce a produrne tantissimi – dai circa 5.000 del 2021 agli attuali quasi due milioni – e perché sopperisce in parte alla scarsità di truppe. Sul terreno, però, le cose vanno male: gli ucraini stanno perdendo il controllo della regione russa di Kursk, che speravano di scambiare con i propri territori invasi. Le unità ucraine, riporta Lorenzo Cremonesi, «sono ormai disperatamente trincerate in difesa degli ultimi circa 280 chilometri quadrati di un’enclave che ancora a fine agosta era ampia circa 1.100 chilometri quadrati». E questo è uno dei motivi che rende incerta la risposta russa.

  • La reazione di Mosca Fino a ieri sera, nessuna risposta ufficiale alla proposta di tregua. Ma siti e blog nazionalisti esprimono umori oltranzisti, e consigliano a Putin di cessare il fuoco solo dopo essersi ripreso tutto il Kursk: «Non ha alcun senso bloccare la nostra offensiva proprio adesso che stiamo vincendo, serve solo a ridare forza agli ucraini grazie alla ripresa degli aiuti americani», scrivono i falchi russi.

Ma quindi cosa può succedere?

Si possono fare queste ipotesi:

  • Putin dirà sì ma non subito L’autocrate russo ha bisogno di confermare l’idea trumpiana che a Mosca ci sia un partner per la pace e per una futura coesistenza strategica tra superpotenze, e che l’ostacolo per la fine della guerra sia Zelensky. Ma è plausibile che cerchi prima di riprendersi davvero tutto il Kursk.

  • La tregua sarà complicatissima Lo sarà anche dopo l’eventuale sì russo, perché l’idea di un cessate il fuoco totale su tutti i fronti, e per un mese, è oggettivamente difficile da realizzare. Dopo tre anni di scontri feroci con tutti i mezzi – blindati, artiglieri, droni – bisognerà evitare il minimo incidente. Perché anche una sparatoria dettata dal panico, o una provocazione voluta, potranno far riesplodere i combattimenti. Proprio per questo ucraini ed europei avevano proposto un cessate il fuoco parziale, limitato agli attacchi aerei e marittimi e alle infrastrutture energetiche, in modo da monitorare più facilmente le eventuali violazioni.

  • I russi giocheranno sporco L’hanno sempre fatto, perché sono maestri nelle «operazioni sotto falsa bandiera», quelle inscenate per mascherare le vere responsabilità e attribuirle al nemico. È prevedibile che alcuni incidenti non potranno mai essere chiariti con certezza, e che molti saranno vere e proprie invenzioni divulgate con sapienza anche grazie all’intelligenza artificiale. I precedenti non incoraggiano: nel 2015, per esempio, i russi dissero sì al cessate il fuoco ma dopo pochi giorni conquistarono la città ucraina di Debaltseve.

 

 

  • Ma perché Putin farebbe saltare la tregua? Per due motivi: a) perché il congelamento della linea del fronte non può bastargli per giustificare una guerra che ha avuto un costo immane, come ha ricordato Federico Fubini: «

    La Russia ha perso oltre 200 mila dei suoi uomini, ha avuto oltre 600 mila feriti spesso gravi, ha subito la fuga all’estero di almeno 700 mila giovani altamente istruiti, bruciato circa 200 miliardi di dollari nello sforzo di distruzione, è danneggiata dalle sanzioni, è ridotta a un sistema totalitario e ha un’economia scricchiolante». b) perché se convincerà Trump che la tregua salta per colpa degli ucraini, l’America smetterà di nuovo di sostenerli e lui potrà ri-aggredirli con più forza, e dopo essersi riorganizzato.

  • A proposito di palle 

    Per dirla con l’analista della Cnn Nick Paton Walsh, il fatto che ora la palla sia nel loro campo, come ha detto Rubio, «è vero ed è un risultato ammirevole. Ma è vero anche che la Russia eccelle nell’afferrare la palla, mettersela in tasca, discutere le regole del gioco e i punti persi tre set fa, per poi affermare che la palla è stata rubata dall’altra squadra».

Sarebbe la fine delle illusioni. Ma in ogni caso, vale la pena provarci. Anche perché, come Zelensky ha dolorosamente constatato, non ci sono alternative.

Intanto l’Europa e l’Italia
Intanto l’Europa si muove e l’Italia non tanto. Vediamo come e perché.

  • Il discorso di von der Leyen «

    La pace nella nostra Unione non può più essere data per scontata. Stiamo affrontando una crisi di sicurezza europea e il tempo delle illusioni è ormai finito. Putin ha dimostrato di essere un vicino ostile, non ci si può fidare di lui, si può solo dissuaderlo». Così la presidente della Commissione europea ha presentato all’Europarlamento il suo piano di riarmo europeo da 800 miliardi. L’obiettivo è fare arrivare al 3% del Pil la spesa militare dei Paesi membri, anche allentando le regole fiscali nel computo degli investimenti per la difesa.

  • Il Piano Safe Von der Leyen ha spiegato che il piano punta a produrre e comprare armi all’interno dell’Ue, specializzando i Paesi per comparto. Il tutto anche grazie a un nuovo strumento: «Lo abbiamo chiamato Safe. Security Action for Europe. Offriamo agli Stati membri fino a 150 miliardi di euro in prestiti – per investire seguendo alcuni principi di base. Potrebbero concentrarsi su alcuni domini di capacità strategica selezionati, dalla difesa aerea ai droni, dagli strumenti strategici al cyber, per citarne alcuni, in modo da massimizzare l’impatto dei nostri investimenti. Questi prestiti dovrebbero finanziare gli acquisti presso i produttori europei, per contribuire al rilancio della nostra industria della difesa

    ».

 

E veniamo all’Italia

La palla nel campo russoLa segretaria del Pd Elly Schlein (Ansa)

Né dal governo né dall’opposizione c’è entusiasmo per le mosse europee.

 

  • Sospesi tra Bruxelles e Washington Ma in realtà, molto più vicini a Washington. Basta vedere il tono con cui Meloni ha applaudito la proposta di tregua: «L’Italia sostiene pienamente gli sforzi degli Stati Uniti, sotto la guida del presidente Trump, a favore di una pace giusta che garantisca la sicurezza di lungo periodo dell’Ucraina». Sono accenti mai usati per le iniziative prese dai partner europei, vissute anzi con malcelata insofferenza. L’accelerazione di Trump ha spiazzato la premier, che sperava di avere tempo per porsi da «pontiera» ma ha scoperto che in questa fase l’America non cerca ponti. E, come ha spiegato Polito, si è vista superare da Starmer, Macron e Merz. Ma è l’idea che ora il sovranismo europeo si riveli più efficace di quelli nazionali a risultare culturalmente indigesta a Meloni. Quanto al riarmo, i conti italiani e priorità sociali come la sanità rendono oggettivamente difficile per il governo accettare in toto gli impegni richiesti dal piano ReArmEu.

 

 

  • Sospesi tra Bruxelles e Roma Questo è il limbo di Elly Schlein, che anziché approfittare delle difficoltà meloniane e ribadire l’europeismo identitario del Pd, l’ha messo in dubbio dicendo no al piano von der Leyen con una frase – «noi non siamo con Trump e il suo falso pacifismo e non siamo con l’Europa per continuare la guerra» – che le sarà rimproverata a lungo e che ha rinvigorito la fronda interna dei maschi anziani, quelli che vogliono Gentiloni come candidato premier. Il risultato, scrive Maria Teresa Meli, è che oggi, con ogni probabilità, il Pd si asterrà sulla risoluzione di sostegno all’Ucraina proprio perché cita ReArmEu, e sarà l’unica componente del Partito socialista europeo a non votare sì (con qualche eccezione tra gli eurodeputati riformisti). Tutto per non perdere voti pacifisti a favore di Giuseppe Conte, più rivale che alleato, che in effetti sperava che il Pd votasse sì, e che ieri è andato a Strasburgo a sfidare apertamente von der Leyen. Il tutto mentre riarmisti e anti-riarmisti si ritroveranno insieme alla manifestazione pro-Europa convocata per sabato a Roma (ne scrivono Roberto Gressi e, sulla nostra Rassegna, Alessandro Trocino).

 

Le altre cose importanti

 

  • La svolta su Garlasco Ovvero, si riapre clamorosamente il caso dell’uccisione di Chiara Poggi, avvenuta il 13 agosto 2007 nel paese in provincia di Pavia, e per la quale nel 2015 è stato condannato in via definitiva il fidanzato Alberto Stasi, in carcere da 10 anni. Ora, 18 anni dopo, gli inquirenti sospettano che il materiale genetico trovato sotto le unghie di Chiara sia di Andrea Sempio, oggi 37enne, e che all’epoca del delitto ne aveva 19 ed era amico del fratello di Chiara. Domani Sempio, su ordine del giudice, dovrà presentarsi nella sede della scientifica dei carabinieri di Milano per essere sottoposto alla prova del Dna che aveva rifiutato la scorsa settimana. La cronaca di Cesare Giuzzi.

  • La svolta sul delitto Mollicone Un’altra giovane donna uccisa molti anni fa, un’altra verità forse da riscrivere. «La corte annulla la sentenza e rinvia a un nuovo processo d’Appello». Così, 24 anni dopo l’uccisione di Serena Mollicone, i giudici della prima corte penale della Cassazione hanno accolto il ricorso della procura generale: resta così in piedi l’ipotesi che ad uccidere la 18enne di Arce, il 1° giugno 2001, siano stati il maresciallo della caserma dei carabinieri, Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco, accusati in concorso di omicidio volontario e occultamento di cadavere. La cronaca di Fulvio Fiano.

 

  • Come sta il Papa? La prognosi è sciolta, ma la strada per riprendersi dalla polmonite resta lunga. Intanto Francesco «è in grado di conversare»: Gian Guido Vecchi.
  • Via test di medicina Con il sì della Camera, ora la riforma è legge: niente più concorsi dopo la maturità, niente più test. Il numero chiuso resta, ma la selezione avverrà dopo il primo semestre all’università, e almeno tre corsi di materie qualificanti. Gianna Fregonara.
  • Lo scontro Usa-Canada Minacce, dietrofront parziali e Borse che continuano ad andare giù: il trattamento corleonesco che Trump sta riservando al Canada – e le altre guerre commerciali che intende avviare – continuano a innervosire i mercati, con una recessione che il presidente nega ma resta sullo sfondo. Ieri ha prima detto che le tariffe su alluminio e acciaio provenienti dal vicino settentrionale sarebbero passate dal 25 al 50%, poi ha fatto marcia indietro. Intanto però, dopo lo scivolone di lunedì, le Borse continuano a non placarsi (-1,38% a Milano, con 12 miliardi e mezzo di capitalizzazione bruciati). Il Canada, da parte sua, mostra di volere rispondere colpo su colpo anche con il premier in pectore Mark Carney. Che, scrive Giuseppe Sarcina, è convinto che Trump voglia saccheggiare le risorse del Paese. Lo stato canadese dell’Ontario ha una carta pesante: tagliare l’elettricità a tre Stati americani. Per ora, anche questa resta una minaccia.
  • Il caos in Romania e Portogallo Più grave quello di Bucarest, dove la Corte Costituzionale ha respinto il ricorso del leader di destra filorusso Calin Georgescu, confermando la sua esclusione dalle presidenziali di maggio, dopo che nel primo turno di dicembre (poi annullato) era arrivato primo (degli interrogativi che pone il caso romeno ha scritto Luca Angelini sulla Rassegna). A Lisbona, invece, è caduto il governo di centrodestra guidato da Luis Montenegro e si andrà a votare per la quarta volta in 5 anni.

 

 

  • Inter ai quarti di Champions I campioni d’Italia hanno battuto 2-0 gli olandesi del Feyenoord, già sconfitti 2-0 all’andata, e ora affrontranno il Bayern Monaco. Fa rumore l’eliminazione del Liverpool da parte del Paris-Saint Germain.

 

Da leggere/ascoltare

 

  • Perché il Salvacasa non decolla, spiegato da Mario Sensini (tra poco sul sito): il decreto che doveva semplificare la sanatoria delle piccole difformità edilizie (e sbloccare il mercato immobiliare) trova più difficoltà del previsto.
  • Il podcast Giorno per giorno, con Lorenzo Cremonesi sugli sviluppi in Ucraina, Stefano Montefiori sul vertice dei capi di Stato maggiore europei a Parigi e Francesca Basso spiega sulla proposta sui rimpatri dei migranti presentata da Ursula von der Leyen: potete ascoltarli qui.

 

Il Caffè di Gramellini

Oltre ogni ragionevole dubbio

In largo anticipo sugli eventi delle ultime settimane, già il filosofo Bertrand Russell attribuiva i problemi del mondo al fatto che «gli stupidi sono sicurissimi e gli intelligenti pieni di dubbi». Vale per i politici e i giornalisti come per i magistrati. I recenti sviluppi del giallo infinito di Garlasco, con il ritorno in scena di un amico del fratello di Chiara Poggi (al quale apparterrebbe il Dna trovato sotto le unghie del cadavere), suggeriscono che la riforma della giustizia più urgente sarebbe il ritorno del dubbio come metodo investigativo. Fu un magistrato, nel 2017, ad archiviare con parole nette («infondatezza assoluta») la richiesta di prendere in esame la perizia del Dna che invece adesso altri suoi colleghi ritengono fondatissima, al punto da avere iscritto Andrea Sempio nel registro degli indagati.

Ci mancherebbe che in un articolo che esalta il potere del dubbio mi permettessi di nutrire certezze sull’archiviazione di ieri o sulla riapertura di oggi. Mi limito a osservare che i magistrati, di ieri e di oggi, dovrebbero sempre farsi guidare dall’indicazione «oltre ogni ragionevole dubbio». A maggior ragione quando lavorano sulla carne viva (c’è un uomo in carcere da anni per quell’omicidio). Lo spirito del tempo pretende provvedimenti rapidi, temendo che l’unica alternativa al decisionismo sbrigativo sia l’inerzia. Ma proprio Bertrand Russell diceva che un uomo deve imparare a coltivare dubbi e al tempo stesso a non lasciarsene paralizzare. Un uomo, figuriamoci un magistrato.

Grazie per aver letto Prima Ora, e buon mercoledì (qui il meteo).

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martedì 11 marzo 2025
Il Covid 5 anni dopo, quale Europa (e quale Pd), la purga dei militari trans, il capitale umano
Quale Europa (e quale Pd), la purga dei militari trans, il capitale umano, 
editorialista
di   Alessandro trocino

 

Bentrovati.

 

Andra tutto bene? L’11 marzo di 5 anni fa venne decretato in Italia il primo lockdown per il Covid. C’è chi dice che, 5 anni dopo, siamo più pronti ad affrontare una pandemia. Chi, invece, non ne è affatto convinto. Intanto, negli Stati Uniti un no vax è a capo della Sanità e, in Italia, si cancellano le multe a chi non si era vaccinato. Luca prova a fare il punto.

La chiamano Europa Che Europa scenderà in piazza il 15 marzo? Quella pacifica, fiera dei suoi valori e della sua democrazia, ma anche pronta a riarmarsi per difendersi, o quella pacifista, che predica il disarmo nonostante Putin (e nonostante Trump)? E che sta succedendo nel Pd su questo tema? Cerchiamo di fare chiarezza.

La purga dei militari trans Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump vuole bandire le persone trans dalle forze armate. Ci aveva già provato nel 2017, ricorda Elena, ma questa volta vuole licenziare anche chi è già in servizio. Come Bree Fram, colonnella della Us Space Force, che giura di rimanere finché non sarà «trascinata via».

Povertà educativa Perché la qualità del capitale umanonon è mai un’emergenza nazionale e non è mai ai primi posti delle agende politiche? Parte da qui il ragionamento di Ferruccio de Bortoli nell’ultimo dei suoi «Frammenti».

La Cinebussola Chi ricorda «La casa delle finestre che ridono»? È uno dei primi lavori di Pupi Avati che, ci racconta Paolo Baldini, torna alle sue origini horror con «L’orto americano», «girato in un inquietante e lattiginoso bianco e nero».

 

Buona lettura!

 

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Rassegna sanitaria
A 5 anni dal Covid siamo più pronti contro le pandemie. O forse no
editorialista
Luca Angelini

 

L’11 marzo del 2020, in Italia il governo decretava il primo lockdown. E, negli stessi giorni, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarava il Covid-19 un’emergenza sanitaria globale. Ossia una pandemia. Cinque anni dopo, però, lamenta sul Guardian la giornalista scientifica Laura Spinney (autrice anche di un libro su come l’influenza «spagnola» del 1918 cambiò il mondo), «è il passeggero con la mascherina a risultare sospetto, nessuno si accorge che il distanziamento è ormai logoro e che la fiducia nei vaccini è crollata. Una narrazione diversa ha invaso le discussioni: non è stato il virus a rovinare le nostre vite, ma la risposta ad esso. Questa narrazione è sempre stata presente, ma per molto tempo è rimasta ai margini. Ora sta diventando quella dominante, spinta dai recenti successi dei suoi campioni politici che di solito gravitano nella destra populista».

 

Per conferma, basta leggere quel che scrive Silvana De Mari (no vax, radiata dall’Ordine dei medici di Torino nel giugno 2023) su La Verità: «L’11 marzo va ricordato per il sequestro, avvenuto 5 anni fa, di 60 milioni di cittadini italiani, bambini inclusi. Una solerte magistratura ha già dichiarato che non ci tocca nessun risarcimento». Segue lungo elenco di elogi di rimedi anti-Covid che test e ricerche scientifiche hanno dimostrato inefficaci (dall’idrossiclorochina al plasma autoimmune) e un altrettanto lungo elenco di supposti danni provocati dai vaccini. Nessun accenno, invece, alle multe condonate nel dicembre scorso a chi non si è vaccinato (qui la risposta di Aldo Cazzullo ad alcuni lettori).

Carlo Signorelli, ordinario di Igiene e sanità pubblica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, intervistato da Vito Salinaro di Avvenire, spiega: «I vaccini non sono acqua fresca: con miliardi di dosi effettuate nel mondo, e milioni in Italia, qualche problema lo hanno creato, come tutte le vaccinazioni, a fronte però di un risultato che è di straordinaria positività. Le affermazioni che screditano i vaccini nascono dalla mancata conoscenza o dall’incapacità di capire questi concetti». E anche da un’altra barriera, di tipo psicologico: «Noi, come rappresentanti del mondo della prevenzione, siamo un po’ frustrati rispetto al mondo della clinica. Perché mentre quest’ultimo lavora sul malato, e tendenzialmente il malato parte dall’idea di accettare tutto, in prevenzione lavoriamo sui sani che, stando bene, non accettano di buon grado screening, vaccini, terapie immunitarie. È molto più complicato. E questo è un peccato, perché restano a rischio di malattia persone che potrebbero essere protette».

 

Detto questo, sostenere che non siano stati fatti errori durante la pandemia (anche sulle restrizioni imposte): sarebbe ingenuo. «Secondo gli esperti – ammette Spinney – la risposta è stata tutt’altro che perfetta, ma i sostenitori della nuova narrazione hanno scelto il bersaglio sbagliato: la scienza. I vaccini a mRNA hanno evitato milioni di morti. La tecnologia per ottenere nuovi vaccini efficaci ha fatto passi da gigante. Le mascherine hanno funzionato. E come per tutte le pandemie della storia recente, le revisioni successive hanno dimostrato che il consiglio di agire tempestivamente e duramente con il contenimento era corretto. Gli scienziati hanno commesso degli errori? Certo, ma stavano lavorando in condizioni di grande incertezza. Sono stati anche spesso ignorati o contrastati dai politici a cui fornivano consulenza, così come da altre persone in posizioni di influenza, eppure non sono loro i cattivi di questa storia» (anche se non tutte le loro colpe sono giustificabili con la situazione di emergenza: qui un articolo di Zeynep Tufekci uscito su Internazionale).

 

 

Se si guarda agli Stati Uniti di oggi, dove l’immunologo Anthony Fauci, che aveva guidato la risposta alla pandemia, è diventato il nemico pubblico numero uno (minacciato di morte e protetto con una grazia preventiva da Joe Biden per tenerlo al riparo da possibili «vendette» legali) e un no vax come Robert Kennedy Jr è invece diventato – nonostante gli appelli contrari di schiere di premi Nobel – ministro della Salute, è difficile negare che l’attacco alla scienza va avanti come e peggio di prima. A nostro rischio e pericolo. Come ricorda Spinney, «un adolescente sopravvissuto all’influenza del 1918 poteva aspettarsi di non imbattersi mai più in una pandemia nella sua vita. È improbabile che lo stesso valga per gli adolescenti di oggi. La minaccia più imminente è probabilmente rappresentata dall’“influenza aviaria”, i ceppi di influenza A H5N1 che attualmente circolano nelle mucche e nel pollame. Non sono ancora diventati trasmissibili tra gli esseri umani e forse non lo diventeranno mai, ma si sono diffusi dagli animali all’uomo decine di volte in diversi continenti, causando malattie e almeno un decesso. Se uno di essi dovesse scatenare una pandemia, questa sarebbe almeno altrettanto letale del Covid-19, che si stima abbia causato fino ad oggi circa 27 milioni di morti in eccesso».

 

 

La buona notizia, secondo Signorelli, è che oggi siamo più pronti di cinque anni fa. Anche se, aggiunge subito, «la definizione di “pronto” è complicata. È vero che, in linea di massima, può essere delineato un evento pandemico ma è molto difficile prevederne i “dettagli”: il comportamento del microrganismo scatenante, le modalità di trasmissione, gli impatti. Tutti aspetti che avranno una definizione più adeguata e aggiornata nel nuovo Piano pandemico». Che, però, ancora non c’è. Il motivo? «Dovrebbe chiederlo al governo. Nel 2024 ne arrivò uno in stadio molto avanzato che, a un certo punto, per motivi politici, fu fermato per un anno. Adesso che la discussione è ripresa, la decisione definitiva è solo politica. Anche se una grossa novità già c’è. Rispetto al 2020, oggi tutte le Regioni e tutte le aziende sanitarie d’Italia hanno un piano pandemico. È un grande passo avanti. Ecco perché siamo più pronti di prima». Quanto al riesplodere di egoismi nazionali nel caso di una nuova pandemia, Signorelli dice: «Non temo egoismi nell’Ue. Semmai, con la nuova amministrazione Usa, quelli provenienti dall’altra parte dell’Atlantico. Ma per eventi di grande portata, ritrovarsi nell’Ue è solo un vantaggio».

 

 

Va detto che non tutti condividono l’ottimismo, pur temperato, di Signorelli. Lo pneumologo Sergio Harari ha scritto di recente sul Corriere, sempre a proposito dei cinque anni dallo scoppio della pandemia: «Ne siamo usciti migliori? Non si direbbe proprio e di certo non ne è uscito rafforzato, come tutti invece speravamo, il nostro Servizio sanitario nazionale. Sono in molti a credere che se domani fossimo improvvisamente investiti da una nuova pandemia la risposta sarebbe peggiore di allora, quando almeno si contò sulla forza d’animo dei sanitari uniti in uno sforzo corale». (Silvio Garattini, presidente e fondatore del «Mario Negri» è dello stesso parere)

 

 

Harari aggiungeva qualche suggerimento che tenesse conto degli errori fatti: «Nell’era della globalizzazione è indispensabile avere azioni coordinate tra gli Stati e in questo Oms e Unione Europea dovrebbero sviluppare un ruolo centrale (Trump, come noto, ha promesso di far uscire gli Usa dall’Oms, ndr); nel prossimo futuro sarebbe auspicabile avere un piano europeo di salute su temi comuni e trasversali alle diverse realtà. Non possiamo permetterci frammentazioni del sistema sanitario come quelle a cui abbiamo assistito nel nostro Paese, ogni regione ha la sua autonomia ma non è ragionevole che si attuino politiche di sanità pubblica diverse in regioni magari limitrofe, è indispensabile una unica regia nazionale. L’epidemiologia e il tracciamento sono fondamentali, la rete di sorveglianza epidemiologica e la medicina sul territorio vanno fortemente potenziate, durante la passata pandemia hanno rappresentato una forte debolezza e favorito la diffusione del virus. La gestione a domicilio dei pazienti grazie alle nuove tecnologie è possibile e può essere in alcuni casi molto utile. La trasparenza nell’informazione è fondamentale e può aiutare a orientare i comportamenti dei cittadini resi così partecipi e responsabili (chi avrebbe mai detto che gli italiani sarebbero stati così osservanti delle restrizioni imposte?). La relazione tra media e opinion leader deve essere ripensata, abbiamo assistito a troppi eccessi di gratuito narcisismo televisivo».

 

 

A proposito di informazione, Spinney sottolinea che, a volte, sono state sbagliate anche la parole, vedi «la disastrosa insistenza sul distanziamento sociale. È diventato un sinonimo del distanziamento fisico, che era essenziale, ma ha minato gli sforzi verso la coesione sociale, anch’essa vitale in una pandemia».

 

 

Un peccato quasi veniale, rispetto a quel che si è visto e si vede sul fronte opposto. Signorelli dice, un po’ sconsolato: «È un fenomeno del nostro tempo quello di assistere a negazionisti in tutti i settori. Penso a chi rinuncia alle trasfusioni, per esempio, e non per motivi religiosi. Non puoi convincerli. Ricordo due episodi dei decenni scorsi: la cosiddetta terapia “Di Bella” contro il cancro e il “metodo Stamina” per le malattie neurologiche, entrambi con affermazioni negazioniste rispetto ai dati scientifici. I due ministri della Salute dell’epoca, Rosy Bindi e Beatrice Lorenzin, dovettero intervenire al punto da ordinare sperimentazioni che avevano poco senso. Tutto per dirimere questioni in cui si inserirono addirittura dei magistrati che autorizzarono, in alcuni casi, l’accesso alla cura Di Bella. Oggi si parla di autismo legato alla vaccinazione da morbillo. Una cosa che non sta in piedi».

 

 

Ma alla quale continuano a credere fermamente il già citato Robert Kennedy Jr e lo stesso Trump (vedi il recente discorso davanti al Congresso). Secondo l’agenzia Reuters, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) – ora guidati da Dave Weldon, anche lui in odore di anti vaccinismo – starebbero per avviare uno studio in proposito. Per carità, nessun muro contro la ricerca (anche se nella comunità scientifica l’inesistenza di legami fra vaccini e autismo è ormai abbondantemente data per dimostrata ). Ma, da un lato, come spiega Wilbur Chen, docente alla University of Maryland School of Medicine ed ex consulente dei Cdc, la stessa esistenza di uno studio di questo tipo, condotto dal governo federale, è di per sé sufficiente a sollevare dubbi sui vaccini da parte di alcuni cittadini («Manda il segnale che c’è qualcosa che vale la pena di indagare, il che significa che deve esserci qualche legame tra i vaccini e l’autismo»). Dall’altro lato, nota la Reuters, «la mossa arriva nel mezzo di una delle più grandi epidemie di morbillo che gli Stati Uniti hanno visto nell’ultimo decennio, con oltre 200 casi e due decessi in Texas e New Mexico. L’epidemia è stata alimentata dal calo dei tassi di vaccinazione in alcuni paesi dove i genitori sono stati falsamente convinti che tali iniezioni facciano più male che bene. Kennedy, prima di diventare ministro, ha a lungo seminato dubbi sulla sicurezza del vaccino MMR. E in una riunione di gabinetto la scorsa settimana, ha inizialmente minimizzato la notizia del decesso di un bambino texano, definendo tali epidemie come ordinarie e omettendo di menzionare il ruolo della vaccinazione nella prevenzione della malattia».

 

 

Difficile negare che anche in Italia, come ha scritto Ferruccio de Bortoli, «c’è stato un processo di rimozione collettiva che dovrebbe farci riflettere». In proposito, ricordava le parole di Alberto Mantovani, presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca, che a Repubblica ha segnalato il crollo della propensione a vaccinarsi aggiungendo: «Assistere al rifiorire di teorie antiscientifiche, come l’infondata correlazione tra vaccini e autismo, è sconfortante».

 

 

«Lasciare lo spazio della memoria ai no vax, platea corteggiata e blandita da diverse forze politiche – concludeva de Bortoli – non è il modo migliore di far crescere una cultura della vaccinazione». Che è invece utilissima oggi e lo sarà ancora di più domani. «Oggi una trentina di malattie è prevenibile con i vaccini, 20 anni fa erano la metà – ricorda Signorelli -. Sui vaccini ci sono forti investimenti delle aziende farmaceutiche. Essi nascono per proteggere dalla malattia infettiva, poi ci sono malattie infettive che causano malattie croniche. E allora ecco che il vaccino per il Papilloma virus protegge da 7 tumori, quello contro l’epatite protegge dal tumore del fegato, gli ultimissimi vaccini proteggono dal virus respiratorio sinciziale. Molti altri studi sono in corso su vaccini diretti a malattie non infettive, come quelle oncologiche».

 

Rassegna politica
L’Europa pacifica e quella pacifista, il Pd di trincea e di fiori nei cannoni
editorialista
Alessandro Trocino

«Svuotare gli arsenali, riempire i granai» Sandro Pertini

«Qui o si fa l’Europa o si muore» Michele Serra

«Il 15 qualcuno porterà la bandiera della pace? Noi portiamo quella dell’Ucraina» Benedetto Della Vedova

 

Da una parte c’è la manifestazione «per l’Europa» lanciata da Michele Serra per il 15 marzo, che si sta sfarinando in una ridda di obiezioni e distinguo, che rischiano di svuotarne il significato originario, di orgoglio europeista sui valori e di rilancio della necessità di un’unione politica e militare. Dall’altra c’è il voto di domani all’Europarlamento sul sostegno militare all’Ucraina e sul piano di riarmo lanciato dalla presidente della commissione europea Ursula von der Leyen.

 

 

In mezzo ci siamo noi, che proviamo a capire. A cosa serve la manifestazione indetta il 15 marzo? È una manifestazione europeista, ma è anche pacifista? Il Pd aderisce? E quale Pd, quello della segretaria Elly Schlein o quello dei big dissenzienti Gentiloni, Letta e Prodi? E cosa sta facendo il Partito democratico? Ha virato verso il pacifismo radicale dei 5 Stelle? Proviamo a fare ordine, che poi è quello che proviamo a fare sempre in questa Rassegna, aggiungendo qualche spunto e qualche opinione, per orientarsi meglio.

Quale piazza sarà?

 

 

La defezione dell’Arci e i contrasti interni a Cgil e Anpi – è stato organizzato per lo stesso giorno una sorta di contro corteo  pacifista – mutila l’ala sinistra della manifestazione. Dopo l’appello originale di Serra, è arrivato il piano ReArm Europe, che ha diviso ulteriormente la sinistra. A questo punto, si manifesta per l’Europa, d’accordo, ma per l’Europa che vuole il riarmo? Serra, in un articolo di ieri su Repubblica, ha provato a correggere il tiro. Rivendicando la possibilità che in piazza ci siano opinioni anche diverse su come debba svilupparsi il futuro europeo. Ma nel contempo non è sfuggita a nessuno la frase che dice: «La risposta armigera formulata da von der Leyen cozza tristemente contro i valori fondativi dell’Unione Europea».

 

Per un’Europa pacifica o pacifista?

 

E qui si pone la questione. Si manifesta dunque per un’idea astratta di Europa, che non coincide con i suoi attuali decisori? Tra i valori fondativi della Ue c’è, naturalmente, la pace. Non il pacifismo, però, che è una cosa diversa. Perché la pace è stata garantita per 70 anni grazie a un atteggiamento europeo non bellicoso, non imperialista, di risoluzione delle controverse internazionali, come recita anche la nostra Costituzione, attraverso la politica e non la guerra. Ma la pace è stata garantita anche dall’ombrello della Nato, con il deterrente nucleare americano. Ora che non c’è più, occorre munirsi di un proprio ombrello. Il che vuol dire armarsi e creare una difesa comune. E dunque, per quale Europa si manifesta? Per un’Europa pacifica (che non aggredisce, che considera la pace, la democrazia e i diritti civili una valore supremo ma vuole anche difendersi) o per un’Europa pacifista? Nel dubbio, per tutte e due: in piazza, infatti, ci saranno Carlo Calenda e Nicola Fratoianni, che la pensano in maniera opposta.

 

«Pensieri prepolitici» e «pensieri limpidissimi»

Gustavo Zagrebelsky ha parlato di un incontro «prepolitico». Alla piazza, in sostanza, si attribuisce solo un ruolo generico di mobilitazione per esprimere l’amore per i valori europei, tutt’al più di stimolo per i governanti. Poi toccherà ai politici trovare le soluzioni. Un bel modo per buttare la palla in tribuna, e non sciogliere il nodo. Roberta De Monticelli, sul manifesto, contesta al grande costituzionalista l’uso di quel termine: «Trovo indigeribile questo uso della parola “prepolitico”. Come se, prima che le rappresentanze politiche traducano i sentimenti in programmi, ci fossero solo sentimenti vaghi, vitalità inarticolate, insoddisfazioni o sdegni muti». La filosofa vorrebbe che in piazza ci andassero non sentimenti prepolitici ma «pensieri articolati e limpidissimi». Addirittura «un pensiero razionale e morale, ideale e appassionato, limpido e universale, come i lumi e le luci d’Europa di cui è l’erede». Vasto programma, vista la situazione.

Luigi Ferrajoli dice che bisogna andare in piazza con le bandiere della pace «per impedire all’Europa delle armi di von der Leyen e Macron di proporsi come la sola Europa esistente». Il grande giurista scrive sul manifesto che bisogna far rientrare la Russia in Europa e che la garanzia della sicurezza non viene dal riarmo ma, al contrario, dal disarmo, «che attesta la volontà di pace e sollecita l’analoga volontà e l’identico interesse della controparte». Pacifismo classico, che postula la buona volontà di tutti e fa a pugni con l’imperialismo bellicista non dell’Europa, come sostiene qualcuno, ma della Russia (e ora, purtroppo, anche degli Stati Uniti). Non ha torto, invece, quando spiega che manifestare per l’Europa significa anche manifestare per «quello stato sociale che solo in Europa si è realizzato in nome dell’uguaglianza e che ora Trump e le destre vogliono distruggere».

Conte concavo e convesso

 

Giuseppe Conte continua nel suo miglior travestimento, non tanto quello di avvocato del popolo, ma quello di Masaniello in marsina, di Che Guevara in pochette. Pronto a combattere non in trincea ma nelle piazze, per intestarsi la bandiera bianca del pacifismo, e della resa. Il leader del Movimento sfugge come un’anguilla a ogni conato unitario del centrosinistra, si barcamena tra Trump e Xi Jinping, si scaglia contro «la furia bellicista dell’Europa», è sovranista e progressista, si fa concavo e convesso. Apprezza lo slittamento di Schlein verso di lui ma non è mai abbastanza, anche perché a ogni spostamento lui la scavalcherà sempre, un po’ più a sinistra o un po’ più a destra. E chi meglio di lui può sottrarsi alla piazza con un beffardo: «La piattaforma non è chiara»? La sua è chiarissima, come scrive Stefano Folli: «Sfruttare a suo vantaggio le contraddizioni del Pd». Si colloca così in una linea immaginaria e frastagliata, dal sapore jovanottiano, che unisce su uno stesso asse la «grande Chiesa pacifista», che va da Salvini a Putin, da Vannacci a Rizzo. Fino al Papa, con rispetto parlando.

 

Schlein, «siamo uguali ma diversi» 

 

La citazione è del collega del Corriere Goffredo Buccini: Elly Schlein, in questo momento, sembra un po’ come quella psicopatologia della sinistra interpretata da Nanni Moretti, che rivendicava una sua alterità rispetto agli altri partiti, una superiorità morale, una sinistra che si trova sempre più a suo agio nella minoranza ma poi alla fine vuole essere maggioranza, che vuole essere contro, ma non troppo. Fuor di metafora, il tentativo di Schlein è di tirarsi fuori dal coro del riarmo, senza finire nel calderone del pacifismo a mani alzate. Essere uguale agli altri europei, ma diversa. Volendo, si potrebbe interpretare la sua anche linea in positivo, come una prova di riformismo, quello serio, che non si accontenta di riverniciare la realtà (magari cambiando il nome al ReArm Europe) ma di cambiarla davvero.

 

Ma perché Schlein è contraria al ReArm Project?

Proviamo a elencare alcune ragioni possibili.

 

  • Ragioni ideali Perché non si riconosce in un progetto tutto ed esclusivamente basato sul riarmo. Le sue battaglie di sinistra per aumentare i fondi alla sanità e ai lavoratori contrastano con l’inevitabile salasso per le casse dello Stato che sarà rappresentato da un aumento delle spese militari.
  • Ragioni politiche Perché crede che il progetto di von der Leyen sia sbagliato. Nel senso che dà il via libera ai singoli Paesi per rafforzare le loro dotazioni militari e i loro eserciti, ma non crea le condizioni politiche e militari vere per una difesa comune. Molti pensano che sia un primo passo e quindi dicono: sì, poi cambieremo il piano e lo miglioreremo. Lei dice: no, lo cambiamo subito il piano. Qualcuno pensa che questo sia un modo per far naufragare il tutto: com’è noto, il meglio è nemico del bene. Persino il governo spagnolo, sinistra pura, dice sì, perché intanto si parte così, con i prestiti modello Sure (il piano per il Covid) e l’indebitamento nazionale, poi arriverà il debito comune modello Next generation Eu. E poi arriverà, agli europei piacendo, il resto, ovvero politica estera comune e comando militare unificato. Ma l’obiezione di Schlein non è peregrina né solo pretestuosa.
  • Ragioni politiciste Perché in questo modo rafforza il suo progetto di unità del centrosinistra, venendo incontro, anche se non sposando del tutto, le istanze di pacifismo radicale imbracciate dal Movimento di Giuseppe Conte. Un passo verso M5S per un partito che è a favore dell’invio di armi all’Ucraina (al contrario di Avs e M5S) e un passo più lontano dagli altri partiti socialisti europei.
  • Ragioni tattiche Perché sa, o crede, che buona parte dell’opinione pubblica sia contraria ad aumentare le spese militari e questo potrebbe premiarla, nei sondaggi e nelle urne. Non è certo, naturalmente, che una posizione simile – sostenuta con più forza da Avs e M5S – non finisca per far perdere più consensi tra i moderati rispetto a quelli guadagnati tra i radicali.

 

E cosa voterà all’Europarlamento? Domani a Bruxelles si vota. Non è un vero e proprio voto sul piano von der Leyen, perché avendo chiesto la procedura d’urgenza, non ha bisogno del voto dell’Europarlamento. Ma la mozione che parla di sostegno militare all’Ucraina cita anche il piano ReArm, e dunque si vota di fatto anche su quello. Schlein sarebbe tentata dal no, differenziandosi da tutti gli altri partiti socialisti, che sono per il sì. C’è una trattativa in corso per indurla almeno a un’astensione. C’è chi già ha fatto sapere che voterà sì: tra loro, Pina Picierno, Giorgio Gori, Pierfrancesco Maran.

Rassegna americana
Bree Fram, la colonnella delle Forze spaziali Usa che Trump vuole epurare
editorialista
Elena Tebano

 

 

«Mi sono laureata nel 2001 e stavo cercando lavoro alla Nasa o in un’azienda privata del settore della difesa come ingegnere aerospaziale, perché lo spazio è sempre stato la mia passione, quando siamo stati attaccati nel settembre 2001. È stato uno dei momenti in cui la mia vita è cambiata in un attimo.
Volevo dare qualcosa in cambio. Volevo far parte di qualcosa di più grande di me. Volevo difendere le opportunità e le libertà per cui hanno combattuto uomini come i miei nonni e tante generazioni di americani prima di loro». Bree Fram, colonnella della US Space Force, ha raccontato così, in un podcast del New York Times, il motivo per cui ha deciso di entrare nelle forze armate statunitensi. Ne fa parte da 22 anni, con l’orgoglio e il patriottismo che ci si aspetta dai militari. Ma tra due settimane sarà costretta a lasciarle, visto che l’amministrazione Trump ha dato tempo fino al 26 marzo per identificare il personale transgender da rimuovere dalle forze armate. Fram, 45 anni, è una dei militari transgender più alti in grado dell’esercito americano.

 

 

«Abbiamo servito il nostro Paese per un decennio come persone transgender, senza tabù, in modo onorevole e competente, in ogni campo militare, negli Stati Uniti e in tutto il mondo» ha detto la colonnella transgender nei giorni scorsi all’agenzia Afp. «Quando è la tua stessa amministrazione a costringerti a toglierti l’uniforme perché non ti considera idonea a servire il Paese, ti si spezza il cuore».

 

 

Per la prima parte della sua carriera militare Fram non ha potuto vivere apertamente come una persona trans, perché l’esercito bandiva le persone dichiaratamente transgender, e ha dovuto mantenere un’apparenza maschile che corrispondesse al suo sesso biologico (anche se la sua identità di genere è femminile). Quando, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, Barack Obama nel 2016 ha permesso alle persone trans di prestare servizio nell’esercito, Fram si è sentita libera. E ha fatto immediatamente coming out come donna transgender.

 

 

«Avevo un’e-mail pronta da inviare ai miei colleghi e un post su Facebook pronto per essere diffuso nel mondo. Ma quando ha fatto l’annuncio, ho esitato perché non sapevo come sarebbe cambiato il mondo per me. Ci ho messo un attimo, ma alla fine ho trovato il coraggio di premere “posta”, di premere “invia”. E poi sono scappata» racconta al Nyt. «Ho raggiunto la palestra interrata sotto il Pentagono. Sono salita sull’ellittica e sono andata da nessuna parte più velocemente di quanto non sia mai andata da nessuna parte in vita mia, con tutta l’energia nervosa che avevo, chiedendomi ancora una volta: “Come sarà diversa la mia vita adesso?”. Ma sono tornata alla mia scrivania. Mi sono seduta ed è accaduta una cosa incredibile. Uno dopo l’altro, i miei colleghi si sono avvicinati a me, mi hanno stretto la mano e mi hanno detto: “È un onore lavorare con te”. E io sono rimasta a bocca aperta perché l’onore di servire con loro era tutto mio».

 

 

Fram non ne fa una questione di identità: per lei l’appartenenza alle forze armate americane è così importante che è stata pronta a sacrificare per anni la sua identità pur di poter prestare servizio nella Us Space Force. «Quando entro in una stanza, la prima cosa che la gente nota non è che sono transgender. Vedono l’aquila sul mio petto, l’uniforme che indosso e la responsabilità che trasmette. La conversazione non riguarda la mia identità, ma il compimento della missione. La mia identità, pur essendo parte integrante di ciò che sono, non è il vessillo sotto il quale servo: quella è la bandiera degli Stati Uniti che poggia sulle mie spalle. La mia identità migliora la mia capacità di leadership e di entrare in contatto con gli altri, portando forza all’esercito e alla nazione che sono orgogliosa di servire» ha scritto all’inizio di febbraio in un commento, sempre sul New York Times.

 

 

Per lei è una questione di efficacia: «Se non sei te stessa, non puoi dare il meglio di te. E il fatto di poter servire apertamente come persona trans è stato magico, perché all’improvviso migliaia di persone sono diventate migliori di quanto non fossero prima» afferma. «Se nascondiamo chi siamo, significa che stiamo spendendo una parte della nostra energia mentale per proteggere la nostra identità, quando invece potremmo dedicarla alla missione o alle relazioni con le persone che ci circondano».

 

Trump aveva già provato a bandire le persone trans dall’esercito durante il suo primo mandato, nel 2017. Allora, spiega Fram, «la politica prevedeva una clausola che consentiva a circa 1.600 di noi che avevano fatto coming out, ricevuto una diagnosi militare e iniziato un processo di transizione di continuare a prestare servizio. All’epoca eravamo diventati una specie in via di estinzione: nessuno poteva uscire e nessuno poteva entrare. Ciò che è diverso questa volta è che si tratta nuovamente di un divieto, ma anche di un’epurazione. Ci sono migliaia di membri del servizio transgender in più rispetto a dieci anni fa».

 

Durante i primi giorni del suo secondo mandato Trump ha firmato un ordine esecutivo che vieta alle persone transgender di prestare servizio nelle forze armate. La direttiva è stata impugnata in tribunale ma il Dipartimento della Difesa ha dato a tutte le forze armate fino al 26 marzo per compilare una lista di proscrizione dei militari transgender e altri 30 giorni di tempo per iniziare a rimuoverli dal servizio. Secondo l’agenzia Ap, ci sono almeno 600 transgender già noti («facilmente identificabili») nella Marina, tra 300 e 500 nell’Esercito e meno di 50 nel Corpo dei Marines. Altri militari transgender possono essere identificati grazie a trattamenti medici a cui ricorrono (soprattutto le terapie ormonali).

 

 

La Difesa stima ci siano circa 4.200 soldati con diagnosi di disforia di genere attualmente in servizio attivo, nella Guardia Nazionale e nelle Riserve. Uno studio indipendente del 2018 del Palm Center, che si occupa di questioni Lgbtq+, stima invece che ci siano circa 14 mila transgender tra gli oltre 2,1 milioni di militari in servizio.

 

 

Trump e il Segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno dichiarato di voler licenziare i militari trans perché li considerano al di sotto degli standard militari, «inadatti» alla guerra e non abbastanza «letali» per le forze armate americane. «Le restrizioni mediche, chirurgiche e di salute mentale imposte agli individui che hanno una diagnosi attuale o una storia di disforia di genere, o che mostrano sintomi coerenti con essa, sono incompatibili con gli elevati standard mentali e fisici necessari per il servizio militare», ha dichiarato il sottosegretario alla Difesa per il personale Darin Selnick in una nota ufficiale, in cui – parafrasando le parole di Trump – afferma anche che il genere è «immutabile, e non cambia durante la vita di una persona». L’amministrazione Trump rifiuta di distinguere tra sesso (che è un caratteristica biofisica) e genere (un’identità socio-culturale, che cambia a seconda dei contesti storici e geografici).

 

 

Gli avvocati di sei militari transgender che hanno fatto ricorso contro l’ordine esecutivo di Trump sostengono nei documenti depositati in tribunale che la sua direttiva esprime apertamente «ostilità» nei confronti delle persone transgender, considerandole «diseguali e non utilizzabili, svilendole agli occhi dei loro compagni di servizio e del pubblico». «All’improvviso, ti verrà richiesto di dichiararti. Altre persone dovranno dichiararsi», ha detto Sarah Warbelow, vicepresidente per gli affari legali della Human Rights Campaign a proposito dell’ordine esecutivo. «Se hai un migliore amico nell’esercito che sa che sei transgender, in base a queste nuove direttive, se sei una donna transgender, dovrà iniziare a chiamarti “lui” e “signore”».

 

Per la colonnella Bree Fram, quella di Trump è una vera e propria «epurazione». «Questa politica non solo dice che nessuno può entrare, nessuno può dichiararsi trans, ma che tutti coloro che sono attualmente in servizio non sono più compatibili con il servizio militare e saranno congedati amministrativamente. La posizione del governo è che non riusciamo a soddisfare i rigorosi standard mentali o fisici richiesti dal servizio militare, ma non fornisce alcuna prova. Abbiamo migliaia di membri del servizio che non solo soddisfano gli standard, ma nella maggior parte dei casi li superano» dice Fram.

 

Il paradosso è che negli ultimi anni, come ha raccontato il New Yorkerle forze armate americane hanno abbastanza reclute e il numero di militari diminuisce sempre più: «Nel 2022 e nel 2023, l’Esercito ha mancato il suo obiettivo di reclutamento di quasi il 25%, circa 15 mila soldati all’anno. L’anno scorso ha raggiunto l’obiettivo, ma solo riducendolo di oltre 10 mila unità. Anche la Marina è andata male: non ha raggiunto i suoi obiettivi nel 2023, poi li ha raggiunti nel 2024 riempiendo i ranghi con reclute di livello inferiore; quasi la metà ha ottenuto risultati inferiori alla media in un esame attitudinale. La Riserva dell’Esercito non raggiunge il suo obiettivo dal 2016 e i suoi ranghi sono così ridotti che gli ufficiali in servizio attivo sono stati messi a capo delle unità della riserva. Alcuni esperti temono che, se il Paese entrasse in guerra, molte unità della riserva potrebbero non essere in grado di schierarsi».

 

 

I militari transgender che Trump vuole sbattere fuori invece non solo hanno già superato i test attitudinali, ma sono fortemente motivati a prestare servizio. «Finché non sarò trascinata via farò il mio lavoro al meglio delle mie capacità» ha detto la colonnella Bree Fram al Nyt. Ora Trump, in nome della sua ideologia anti trans, vuole eliminare migliaia di quei militari di cui le forze armate hanno disperatamente bisogno.

 

Frammenti
La povertà educativa (anche al Nord) e l’emergenza dimenticata
editorialista
Ferruccio de Bortoli

 

Dovremmo chiederci perché la qualità del capitale umano non è mai un’emergenza nazionale. Non è mai ai primi posti delle agende politiche. Certo, direte, ci sono altre priorità in questo momento. Si parla di investimenti nella Difesa, di riarmo. Non è il momento. Non è mai il momento. Alcuni interessanti dati sul nostro sistema educativo emergono da una ricerca Teha, a cura di Paolo Borzatta e Jonathan Donadonibus. L’Italia spende più per pagare gli interessi sul proprio debito che per gli investimenti nell’istruzione. Già questo dice tutto.

 

 

Per fortuna il Pnrr, il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, destina circa 30 miliardi all’Istruzione e alla Ricerca. Speriamo vengano impiegati bene. La spesa privata delle famiglie è pari alla media europea, circa 30 miliardi. Ma largamente inferiore a quella tedesca o francese. La Finlandia, che ha un invidiabile sistema pubblico (investe quasi il doppio, rispetto al Pil, dell’Italia) ed è in vetta alla classifiche sui rendimenti degli studenti, quasi zero. Le statistiche che riguardano i tassi di iscrizione della scuola primaria e secondaria ci vedono in buona posizione. Il numero degli studenti universitari cresce, ma grazie alle università telematiche (tutto bene?). La percentuale di laureati resta tra le più basse d’Europa. E ogni anno lo Stato subisce un danno economico stimato in 4,2 miliardi per la fuga di diplomati e laureati. 

 

La povertà educativa è un problema serio e sottovalutato anche in ricche aree del Nord. E in Europa il rischio è stimato toccare il 25 per cento dei minori. In Italia il 70,5 per cento dei bambini e dei ragazzi tra 3 e 19 anni non è mai entrato in una biblioteca. E se andiamo a vedere la percentuale di italiani che, negli ultimi dodici mesi, hanno letto almeno un libro (fonte Eurostat 2022) ci troviamo al penultimo posto. La Finlandia legge il doppio. La Grecia ci ha superato da tempo.

Rassegna cinematografica
«L’orto americano», Pupi Avati torna all’horror
editorialista
Paolo Baldini

Nell’arco di una lunga e palpitante carriera, Pupi Avati non ha mai dimenticato l’horror padano. Ogni suo ritorno alle «amate sponde» è una festa per chi ha perso il sonno con Balsamus, l’uomo di satana (1968), ma soprattutto La casa delle finestre che ridono (1976) e Zeder (1983), fino al più recente Il signor Diavolo (2019), solo per citare i film più duri, puri e pop di un cineasta versatile, al traguardo del cinquantacinquesimo titolo di un percorso professionale che, tra stelle nel fosso e arcani incantatori, ha avuto il suo momento di massimo splendore con Storia di ragazzi e di ragazze (1989).

La partenza, stavolta, è l’omonimo romanzo di Avati edito da Solferino. Le atmosfere sono ad alta densità gore, annegate in un inquietante, lattiginoso bianco & nero. Il racconto procede per evocazioni e rivelazioni successive, come le scosse di un terremoto. Passa dal sogno / incubo alla rappresentazione esoterica, misticheggiante, talvolta pulp. Esplorazione di un’anima turbata di fronte al mistero, forse sulla porta dell’inferno. Bologna, 1945: l’avventura comincia sotto i portici che portano a San Petronio. Nel negozio di un barbiere. Tra i clamori della Liberazione.

Un giovane scrittore senza nome incontra un’ausiliaria dell’esercito Usa. Lei chiede informazioni per raggiungere Ferrara. Lui se ne innamora in maniera definitiva. «È lei, la donna che aspettavo. La donna per me». Il giovanotto è instabile e ha un difficile passato: parla con i defunti ed è dominato da strane percezioni sovrannaturali. Un anno dopo, nel 1946, si trasferisce a Davenport, nell’Iowa, per trovare ispirazione e crede di ritrovare le tracce della donna nella casa della vicina. Dall’orto partono voci oltretombali che guidano a un bum bum di macabre scoperte, sulle quali il giovane senza nome indaga insieme a padre Jesus, esperto in enigmi che ricordano Il nome della rosa di Umberto Eco. Che cosa c’è in quei vasi di vetro? Quale segreto si nasconde dietro le storie di una giovane svanita nel nulla in Italia e di un serial killer feticista?

Avati segue la ricerca interiore del suo protagonista, appeso a un mondo distonico in cui ci sono da un lato gli affetti sepolti e il desiderio di comunicare con l’Aldilà, e, dall’altro, la ferocia dei delitti e il senso di colpa. Il film è stato girato a Davenport nella casa dove Avati ambientò il suo primo film americano, Bix (1991), biografia del trombettista americano Bix Beiderbecke, comprata all’epoca, e poi a Comacchio e a Cinecittà. Ha un andamento liquido, procede per sbalzi, agnizioni, sguardi truci, cita i poeti greci. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Avati con il figlio Tommaso. «Mentre scrivevo, e poi mentre giravo, pensavo al neorealismo di Rossellini e De Sica», dice Pupi.

Il cast comprende tra gli altri, Rita Tushingham, Chiara Caselli, Massimo Bonetti, Nicola Nocella, Claudio Botosso. Nel volto del protagonista riconoscerete (a stento) quel Filippo Scotti che fu l’alter ego adolescente di Paolo Sorrentino nel memoir È stata la mano di DioLà era un ragazzo in motorino precipitato in un racconto di formazione, qui un aspirante letterato in cerca di sé stesso. Notevole la trasformazione, notevole la resa all’economia del film che raccorda in un dolce stil novo onirico- naturalistico l’analisi psicologica e il tric trac degli orrori.

L’ORTO AMERICANO di Pupi Avati
(Italia, 2024, durata 107’, 01 Distribution)

con Filippo Scotti, Rita Tushingham, Chiara Caselli, Roberto De Francesco, Massimo Bonetti
Giudizio: 3+ su 5
Nelle sale

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La Rassegna: Il Covid 5 anni dopo, quale Europa (e quale Pd), la purga dei militari trans, il capitale umano

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mar 11 mar, 20:43 (9 ore fa)

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