|
tre partiti di governo (Fdi, FI, Lega), tre voti diversi. Tre partiti d’opposizione (Pd, M5S, Avs), tre voti diversi (due all’interno del Pd). Se la situazione richiedeva compattezza, l’Italia non l’ha dimostrata in nessuno schieramento. Ma il risultato finale è comunque il via libera del Parlamento europeo alla risoluzione che contiene ReArm Eu, il piano di riarmo da 800 miliardi lanciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. E il sì alla risoluzione di rinnovato sostegno a Kiev.
Un passo storico per chi crede che l’Europa sia stata silente troppo a lungo, sottovalutando la rivoluzione portata dall’elezione di Donald Trump – che ha ventilato l’ipotesi di disattivare l’ombrello della Nato per i Paesi europei – e dal nuovo imperialismo russo, che minaccia di non fermarsi ai territori conquistati in Ucraina.
Un passo falso, invece, per chi crede che l’Europa debba essere pacifica ma anche pacifista e non debba partecipare a una corsa al riarmo ma puntare tutto sul dialogo e sulla trattativa.
Quello che è certo è che comunque si è trattato di un primo passo timido, che ancora non prefigura alcun meccanismo di coesione politica reale e che non individua una catena di comando militare unificata. Il futuro del continente è ancora tutto da costruire e, volendola vedere in positivo, le molte opinioni divergenti e la vivacità del dibattito esaltano la democrazia della vecchia Europa, differenziandola dai rischi di autoritarismo che sono già realtà in Russia e che minacciano gli Stati Uniti.
Cominciamo da qui: oggi è giovedì 13 marzo e questa è la Prima Ora del Corriere della Sera, il nostro modo per trovare un filo, e un senso, alle notizie della giornata.
Sì al riarmo, ma l’Italia si divide
Le decisioni del Parlamento europeo L’Aula di Strasburgo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro bianco della difesa che la Commissione europea presenterà il 19 marzo, e che conterrà il piano ReArm Europe illustrato dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Il testo è passato con 419 voti a favore, 204 voti contrari e 46 astensioni.
Come si sono schierati i gruppi europei Hanno votato a favore i Popolari (gruppo al quale appartiene Forza Italia), i Socialisti e democratici (dentro c’è il Pd) e i Liberali. Si sono divisi i Conservatori e Riformisti, mentre hanno votato compattamente contro sia il gruppo dei Patrioti (dove siede la Lega) sia le Sinistre (dove ci sono Avs e 5 stelle).
Come hanno votato i partiti italiani I partiti della maggioranza di governo si sono spaccati, con il voto contrario della Lega e a favore di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Diviso il Pd con 11 eurodeputati astenuti e 10 a favore. No da parte del M5S e della delegazione di Alleanza verdi sinistra.
Fratelli d’Italia si astiene sull’Ucraina Due cose da sapere sul partito di Giorgia Meloni. La prima è che ha provato, invano, a modificare il nome del piano: la proposta era di cambiarlo da ReArm a Defend Europe, ma non è passata. La delegazione meloniana si è astenuta sull’altra risoluzione, quella sull’Ucraina, per sottolineare la presa di distanza con un testo che, a loro giudizio, non tiene conto delle novità delle scorse ore e finisce – parole di Nicola Procaccini in Aula – «per scatenare odio verso gli Usa invece di aiutare l’Ucraina». Il tentativo di Fdi era di rinviare il voto. È la prima volta che Fratelli d’Italia non dà il pieno sostegno all’Ucraina: un segnale di sganciamento o semplicemente la traduzione del ruolo di pontiera che si è assunta Giorgia Meloni? Quel che è probabile è che Meloni non parteciperà sabato al summit convocato dal premier inglese Keir Starmer. La coalizione dei «volonterosi» potrebbe parlare dell’ipotesi di mandare in Ucraina truppe e l’Italia è nettamente contraria.
I due partiti democratici Dire diviso è dir poco. Perché la linea della segretaria Elly Schlein, per l’astensione, ha rischiato di finire in minoranza: bastava un voto. È finita 11-10, tra astenuti e favorevoli. A favore hanno votato gli esponenti moderati e riformisti: Stefano Bonaccini, Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli, Raffaele Topo. Si sono astenuti, seguendo l’indicazione della segretaria, Lucia Annunziata, Brando Benifei, Annalisa Corrado, Camilla Laureti, Dario Nardella, Matteo Ricci, Sandro Ruotolo, Cecilia Strada, Marco Tarquinio, Alessandro Zan e Nicola Zingaretti.
La linea di Schlein La segretaria ha spiegato così la sua linea: «All’Europa serve la difesa comune, non la corsa al riarmo dei singoli Stati. Oggi al Parlamento si votava una risoluzione sulla difesa comune, con molti punti che condividiamo, ma la risoluzione dava anche appoggio al piano RearmEU proposto da Ursula Von der Leyen cui abbiamo avanzato e confermiamo molte critiche proprio perché agevola il riarmo dei singoli Stati facendo debito nazionale, ma non contribuisce alla difesa comune e anzi rischia di ritardarla. Quel piano va cambiato».
Che succede ora? Lo spiega Maria Teresa Meli, che racconta il malessere della minoranza, ma non solo. Andrea Orlando ipotizza un «congresso tematico», Gianni Cuperlo chiede alla segretaria la convocazione degli organismi dirigenti per «una discussione seria». Piero Fassino: «Non possiamo sottrarci. Il posizionamento internazionale del partito ne definisce identità, profilo e credibilità». Necessario anche per Lia Quartapelle: «Siamo giunti a un momento così decisivo senza alcuna discussione seria». Così Sandra Zampa: «Si apra una discussione».
Il commento di Massimo Franco «Il voto è il segnale di una nazione lacerata e confusa…Il risultato è di marcare l’immagine di un’Italia incapace di assumere una posizione netta in un passaggio fondamentale. Può darsi che creda davvero di accreditarsi come “ponte” tra Ue e Usa. I distinguo, tuttavia, rischiano di essere valutati come ambiguità o, peggio, furbizia di corto respiro».
Ma cosa c’è nel piano? Lo spiega Giuseppe Sarcina. Gli 800 miliardi di cui si parla sono un traguardo possibile. Come primo passo è stato istituito un fondo con una dote di 150 miliardi di euro, il programma «Safe» («Security action for Europe»), che finanzierà progetti utili per la difesa comune, presentati da almeno due governi. L’idea è incentivare i Paesi a lavorare insieme, cominciando a superare la frammentazione delle spese, le duplicazioni e, quindi, gli sprechi. Il secondo elemento è l’allentamento del patto di Stabilità, cioè dei vincoli che dovrebbero tenere sotto controllo il deficit e il debito dei singoli Stati. La Commissione ha accolto la proposta sostenuta a lungo da Italia e Francia per scorporare dal calcolo del deficit una parte delle spese per la difesa. Scrive Sarcina: «Quanto esattamente? Ursula von der Leyen propone uno sconto dell’1,5% del prodotto interno lordo. Per l’Italia significa poter spendere per la difesa 31 miliardi di euro in più. Non è detto, però, che il governo decida di usare tutto questo margine. Motivo? Nel 2024 la manovra di bilancio è stata finanziata anche aumentando il deficit di 15,7 miliardi. I conti pubblici dell’Italia sarebbero in grado di assorbire uno sforamento doppio? Come reagirebbero i mercati finanziari?».
Dazi, Europa al contrattacco
Gli Stati Uniti attaccano, l’Europa risponde. Non siamo ancora, per fortuna, alla guerra vera, ma quella commerciale è ampiamente cominciata. E così L’Unione europea, pur malvolentieri, ha deciso di «reagire» ai dazi del 25% imposti dall’amministrazione Trump su acciaio e alluminio Made in Eu e prodotti da altri partner internazionali, entrati in vigore ieri. Bruxelles reintrodurrà dal primo aprile le contromisure decise negli anni 2018 e 2020 (poi sospese in seguito a un’intesa) e imporrà un nuovo pacchetto di misure a partire dal 13 aprile. Anche il Canada ha reagito con tariffe per 20,7 miliardi di dollari di merci statunitensi, colpendo computer e attrezzature sportive e prodotti in ghisa.
28 vs 26 (miliardi) I dazi americani valgono 28 miliardi di dollari, quelli europei 26. L’Europa, dice Ursula von der Leyen, resta aperta al negoziato. Anche perché, come è noto, la guerra commerciale ha un effetto sgradito (soprattutto ai cittadini): l’inflazione. Per ora Trump non sembra desistere, anzi ha annunciato nuove ritorsioni contro i dazi europei, in una spirale pericolosa.
Il secondo pacchetto Le altre contromisure europee saranno applicate a 18 miliardi di euro di esportazioni statunitensi verso l’Ue e per questo è stata avviata una consultazione con i portatori di interesse e con gli Stati membri per definire i prodotti da colpire (servirà però il via libera dei ministri dei 27 Paesi). Nel secondo pacchetto rientrano prodotti industriali e agricoli, tra cui acciaio e alluminio, tessuti, pelletteria, elettrodomestici, utensili per la casa, materie plastiche e prodotti in legno. Tra i prodotti agricoli ci sono pollame, carne di manzo, alcuni frutti di mare, noci, uova, latticini, zucchero e verdure. Nel mirino ci sono anche forni, stufe, congelatori, tosaerba, «tutti beni per i quali l’Ue ritiene di avere alternative interne», ha detto una fonte.
Il commento di Ferruccio de Bortoli L’ex direttore del Corriere invita l’Europa a far valere «l’ombrello monetario», oltre a quello della Nato. «Ogni anno 300 miliardi di risparmio europeo affluiscono su fondi, società e mercati finanziari americani che costituiscono il 65 per cento dei valori trattati complessivamente nel mondo. Esiste dunque anche un ombrello monetario del quale godono gli Stati Uniti. Come europei, facciamolo valere».
L’analisi di Federico Fubini «Gli Stati Uniti sono al lavoro per dividere il fronte avversario. Ad alcuni governi, Italia inclusa, la Casa Bianca ha lasciato intendere che sarebbero possibili negoziati separati e dunque — probabilmente — trattamenti individuali di favore. Almeno per ora però il divide et impera della Casa Bianca non sta funzionando. Se alcuni Paesi dovessero scendere a patti separati con Trump, gli altri governi europei reagirebbero tagliandoli fuori dai loro mercati nazionali».
Il negoziato in Ucraina
Il cessate il fuoco La proposta, firmata dagli ucraini martedì a Gedda e concordata con gli americani prevede il cessate il fuoco di 30 giorni. Si attende la risposta della Russia. Donald Trump ha passato giorni a rabbonire Mosca ma ieri ha annunciato conseguenze economiche potenzialmente «devastanti» se non accettasse il cessate il fuoco. In pratica, nuove sanzioni.
I russi Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, prende tempo, affermando che prima di esprimersi i russi aspettano di ricevere «informazioni dettagliate» dagli americani, anche se già martedì il capo dell’intelligence russa Sergei Naryshkin ha parlato con il capo della Cia John Ratcliffe. Ieri dallo Studio Ovale, Trump ha detto che i suoi inviati stavano «andando in Russia mentre parliamo». L’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, che ha già incontrato Putin a febbraio, è atteso in questi giorni a Mosca.
I russi firmeranno? Ci sono diversi ostacoli, spiega Viviana Mazza. Fino a un mese fa Putin diceva che l’obiettivo russo non è una tregua ma una pace duratura. In passato il presidente russo aveva dichiarato che non avrebbe mai accettato una tregua finché gli ucraini erano in territorio russo: forse la ritirata ucraina dal Kursk (ma hanno ancora il 14 per cento della regione) potrebbe risolvere questo punto. Ci sono poi gli estremisti a Mosca che vorrebbero indebolire gli Usa. C’è chi vuole escludere l’Europa da ogni ruolo, anche di peacekeeping. E chi insiste per una zona cuscinetto nel nordest dell’Ucraina.
E gli ucraini? In grave difficoltà sul terreno, con un’ostilità evidente anche degli antichi alleati americani, potrebbero fare molte concessioni. Con una linea rossa: «Non riconosceremo alcun territorio occupato dai russi».
Voto in Groelandia, vincono gli indipendentisti di destra
Jens-Frederik Nielsen è il vincitore a sorpresa delle elezioni di martedì ed è il probabile futuro premier dell’isola di ghiaccio che Donald Trump vuole «ad ogni costo». Scrive Sara Gandolfi: «I Demokraatit di Nielsen, partito di centrodestra che si autodefinisce “social-liberale”, ha conquistato il 29,9% delle preferenze e 10 dei 31 seggi del Parlamento, predicando in campagna elettorale la pazienza: prima di indire un referendum sull’indipendenza dalla Danimarca, che la colonizzò 300 anni fa, la Groenlandia deve raggiungere la piena autonomia economica. E guardare con sospetto alle sirene di Trump, “una minaccia alla nostra indipendenza politica”». Dopo i democratici, c’è il partito nazional-populista Naleraq, con il 24,5%, che vuole l’«indipendenza subito», senza escludere partnership con Trump.
Romania, l’estrema destra ci riprova
Calin Georgescu, «sovranista putiniano anti Nato che si dichiara fan di Trump», l’altro ieri è stato escluso definitivamente dalla corsa alle presidenziali di maggio in cui era favorito. A nulla – scrive Alessandra Muglia – sono serviti i suoi ricorsi alla Consulta per ribaltare la decisione della Commissione elettorale che domenica scorsa lo ha dichiarato non idoneo a candidarsi, scatenando reazioni anche violente tra i suoi sostenitori accorsi numerosi a manifestare. Entro sabato i suoi sostenitori devono mettere insieme le 200 mila firme necessarie per presentare un’alternativa. Anzi, per sicurezza, i candidati saranno due: George Simion, presidente di Aur (secondo partito in Parlamento) e figura nazionalista più affermata in Romania prima della rapida ascesa di Georgescu; e Anamaria Gavrila, che ha fondato nel 2023 il Partito della Gioventù (Pot), appena entrato in Parlamento con il 6% dei voti.
Le altre notizie
-
Decade deputata M5S, è lite Dopo il voto che ha portato alla decadenza della deputata del M5S Elisa Scutellà (i sì sono stati 183, i no 127, un astenuto), gli stellati guidati da Giuseppe Conte hanno improvvisato un corteo a Montecitorio e sono andati allo scontro al Senato. La vicenda riguardava un ricorso per l’eccesso di schede bianche e nulle: la giunta per le elezioni ha dato ragione ad Andrea Gentile, esponente di Forza Italia.
-
Garlasco, si ricomincia Diciotto anni dopo, mentre il solo condannato Alberto Stasi è ancora in carcere, la procura di Pavia ha riaperto le indagini. Ci sarebbe il profilo di un Dna che corrisponderebbe a quello di Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara Poggi. Oggi il sospettato dovrebbe presentarsi per il prelievo genetico, ma sostiene di stare male. Sul giornale, intervista di Massimiliano Nerozzi a Stefano Vitelli, giudice di primo grado che assolse Stasi e che spiega i suoi dubbi e la mancanza di un movente.
-
La consulenza su Ramy Il 19 enne Ramy Elgaml, caduto dal suo motorino a Milano durante un inseguimento, è morto per «una tragica fatalità». La consulenza tecnica che la procura ha affidato all’ingegner Domenico Romaniello per chiarire la dinamica dell’incidente ha escluso responsabilità dei carabinieri che operarono in «modo conforme» alle procedure. Fu lo scarto a destra del Tmax a tagliare la strada alla pattuglia. E non ci fu l’urto laterale che era stato ipotizzato nella relazione tecnica dalla polizia locale, 21 metri prima. Restano inspiegabili, e non spiegate, le frasi registrate dai carabinieri «No, merda, non è caduto». Restano i dubbi su un inseguimento durato ben otto minuti, a una velocità elevatissima (fino a 115 chilometri all’ora). E il video che sarebbe stato fatto cancellare dai militari a un ragazzo testimone oculare, che sostiene la tesi dell’investimento.
-
Sapienza prima negli studi classici Le università italiane, scrive Gianna Fregonara, «non appaiono mai nelle posizioni di testa e vanno cercate ben oltre la centesima posizione, ma se si mettono sotto la lente di ingrandimento i singoli dipartimenti, come fa la classifica Qs World University Rankings by Subject, arrivata ieri alla sua quindicesima edizione, si conferma la buona riuscita del nostro sistema universitario: secondo in Europa dietro la Germania per numero di dipartimenti e università classificate, secondo per piazzamenti nella top 10 (sette, uno in meno dello scorso anno) dietro i Paesi Bassi». Quanto ai risultati, la Sapienza di Roma mantiene la leadership mondiale negli Studi classici, il Politecnico di Milano fa incetta di posizioni nella parte alta della classifica per Architettura, Design e poi per Ingegneria civile, Meccanica, Tecnologia. La Bocconi tiene le sue posizioni in Marketing ed Economia e la Normale, pur perdendo tre posizioni, resta nella top 10 per gli studi classici, passando dal quinto posto all’ottavo. E c’è anche una nuova entrata tra gli atenei che si piazzano tra i primi dieci al mondo: l’ Università IUAV di Venezia che sale di sei posizioni fino a diventare la nona al mondo per Storia dell’arte.
Le opinioni
«All’Europa serve un presidente che sia eletto dal popolo», di Aldo Cazzullo.
Da ascoltare
Nel podcast «Giorno per giorno», Valentina Iorio parla della guerra tra Usa e Ue sui dazi. Sara Gandolfi analizza i risultati delle elezioni in Groenlandia. Cesare Giuzzi spiega perché sono state riaperte le indagini sul delitto di Garlasco.
Il Caffè di Massimo Gramellini
«Testa o croce»
«Quando Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, e sua moglie, la deputata Piccolotti, annunciano con orgoglio di voler vendere la loro Tesla per prendere le distanze da Elon Musk, pensano in buona fede che sia quella la notizia. E in effetti lo sarebbe, se si chiamassero Meloni, Salvini, forse anche Calenda o Gentiloni. Ma se chi guida la Tesla guida anche il più importante partito anticapitalista del Paese, la notizia non è che ha deciso di vendere un’auto da «borghesi», ma che in precedenza aveva deciso di comprarla. Piccolotti non migliora le cose quando dice «l’abbiamo pagata anche poco, 47 mila euro», perché le parole «poco» e «47 mila euro» possono stare insieme in una frase della Santanchè, non in quella di chi chiede i voti a persone che certe cifre non le vedono in anni di lavoro. Si tratta di un passaggio che sfugge agli esponenti della sinistra più ideologica, i quali si scagliano contro i beni di lusso, a meno che siano ecosostenibili e che chi li produce sostenga, oltre all’ecologia, pure la sinistra. Ma un Berlinguer (che era abbastanza ricco di famiglia da potersene permettere cento, di Tesla) non avrebbe mai commesso l’ingenuità di acquistare l’auto «fighetta» del momento. Non ne avrebbe proprio sentito il bisogno. È il «fighettismo» la vera croce di una certa sinistra italiana. Ho sempre pensato che i suoi rappresentanti non fossero mai stati a casa dei loro potenziali elettori. Ma adesso ho il sospetto che non siano mai entrati neanche in garage».
(in sottofondo «Bla Bla Bla», di Davide Shorty e Daniele Silvestri. La trovate nella nostra Playlist, aggiornata ogni venerdì con le nuove uscite di musica pop, rock e indie).
Grazie per aver letto Prima Ora.
Se volete scriverci questi sono i nostri indirizzi:
|
|