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mercoledì 12 marzo 2025
Sì al piano di riarmo Ue, ma l’Italia è divisa
Sì al piano di riarmo Ue, ma l'Italia è divisa
editorialista
di   Alessandro Trocino

Buongiorno, 

tre partiti di governo (Fdi, FI, Lega), tre voti diversiTre partiti d’opposizione (Pd, M5S, Avs), tre voti diversi (due all’interno del Pd). Se la situazione richiedeva compattezza, l’Italia non l’ha dimostrata in nessuno schieramento. Ma il risultato finale è comunque il via libera del Parlamento europeo alla risoluzione che contiene ReArm Eu, il piano di riarmo da 800 miliardi lanciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. E il sì alla risoluzione di rinnovato sostegno a Kiev.

Un passo storico per chi crede che l’Europa sia stata silente troppo a lungo, sottovalutando la rivoluzione portata dall’elezione di Donald Trump – che ha ventilato l’ipotesi di disattivare l’ombrello della Nato per i Paesi europei – e dal nuovo imperialismo russo, che minaccia di non fermarsi ai territori conquistati in Ucraina.

Un passo falso, invece, per chi crede che l’Europa debba essere pacifica ma anche pacifista e non debba partecipare a una corsa al riarmo ma puntare tutto sul dialogo e sulla trattativa.

Quello che è certo è che comunque si è trattato di un primo passo timido, che ancora non prefigura alcun meccanismo di coesione politica reale e che non individua una catena di comando militare unificata. Il futuro del continente è ancora tutto da costruire e, volendola vedere in positivo, le molte opinioni divergenti e la vivacità del dibattito esaltano la democrazia della vecchia Europa, differenziandola dai rischi di autoritarismo che sono già realtà in Russia e che minacciano gli Stati Uniti.

 

 

Cominciamo da qui: oggi è giovedì 13 marzo e questa è la Prima Ora del Corriere della Sera, il nostro modo per trovare un filo, e un senso, alle notizie della giornata.

Sì al riarmo, ma l’Italia si divide

Le decisioni del Parlamento europeo  L’Aula di Strasburgo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro bianco della difesa che la Commissione europea presenterà il 19 marzo, e che conterrà il piano ReArm Europe illustrato dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Il testo è passato con 419 voti a favore, 204 voti contrari e 46 astensioni.

Come si sono schierati i gruppi europei Hanno votato a favore i Popolari (gruppo al quale appartiene Forza Italia), i Socialisti e democratici (dentro c’è il Pd) e i Liberali. Si sono divisi i Conservatori e Riformisti, mentre hanno votato compattamente contro sia il gruppo dei Patrioti (dove siede la Lega) sia le Sinistre (dove ci sono Avs e 5 stelle).

Come hanno votato i partiti italiani I partiti della maggioranza di governo si sono spaccati, con il voto contrario della Lega e a favore di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Diviso il Pd con 11 eurodeputati astenuti e 10 a favore. No da parte del M5S e della delegazione di Alleanza verdi sinistra.

Fratelli d’Italia si astiene sull’Ucraina Due cose da sapere sul partito di Giorgia Meloni. La prima è che ha provato, invano, a modificare il nome del piano: la proposta era di cambiarlo da ReArm a Defend Europe, ma non è passata. La delegazione meloniana si è astenuta sull’altra risoluzione, quella sull’Ucraina, per sottolineare la presa di distanza con un testo che, a loro giudizio, non tiene conto delle novità delle scorse ore e finisce – parole di Nicola Procaccini in Aula – «per scatenare odio verso gli Usa invece di aiutare l’Ucraina». Il tentativo di Fdi era di rinviare il voto. È la prima volta che Fratelli d’Italia non dà il pieno sostegno all’Ucraina: un segnale di sganciamento o semplicemente la traduzione del ruolo di pontiera che si è assunta Giorgia Meloni? Quel che è probabile è che Meloni non parteciperà sabato al summit convocato dal premier inglese Keir Starmer. La coalizione dei «volonterosi» potrebbe parlare dell’ipotesi di mandare in Ucraina truppe e l’Italia è nettamente contraria.

I due partiti democratici Dire diviso è dir poco. Perché la linea della segretaria Elly Schlein, per l’astensione, ha rischiato di finire in minoranza: bastava un voto. È finita 11-10, tra astenuti e favorevoli. A favore hanno votato gli esponenti moderati e riformisti: Stefano Bonaccini, Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli, Raffaele Topo. Si sono astenuti, seguendo l’indicazione della segretaria, Lucia Annunziata, Brando Benifei, Annalisa Corrado, Camilla Laureti, Dario Nardella, Matteo Ricci, Sandro Ruotolo, Cecilia Strada, Marco Tarquinio, Alessandro Zan e Nicola Zingaretti.

La linea di Schlein
 La segretaria ha spiegato così la sua linea: «All’Europa serve la difesa comune, non la corsa al riarmo dei singoli Stati. Oggi al Parlamento si votava una risoluzione sulla difesa comune, con molti punti che condividiamo, ma la risoluzione dava anche appoggio al piano RearmEU proposto da Ursula Von der Leyen cui abbiamo avanzato e confermiamo molte critiche proprio perché agevola il riarmo dei singoli Stati facendo debito nazionale, ma non contribuisce alla difesa comune e anzi rischia di ritardarla. Quel piano va cambiato».

Che succede ora? Lo spiega Maria Teresa Meli, che racconta il malessere della minoranza, ma non solo. Andrea Orlando ipotizza un «congresso tematico», Gianni Cuperlo chiede alla segretaria la convocazione degli organismi dirigenti per «una discussione seria». Piero Fassino: «Non possiamo sottrarci. Il posizionamento internazionale del partito ne definisce identità, profilo e credibilità». Necessario anche per Lia Quartapelle: «Siamo giunti a un momento così decisivo senza alcuna discussione seria». Così Sandra Zampa: «Si apra una discussione».

Il commento di Massimo Franco «Il voto è il segnale di una nazione lacerata e confusa…Il risultato è di marcare l’immagine di un’Italia incapace di assumere una posizione netta in un passaggio fondamentale. Può darsi che creda davvero di accreditarsi come “ponte” tra Ue e Usa. I distinguo, tuttavia, rischiano di essere valutati come ambiguità o, peggio, furbizia di corto respiro».

Ma cosa c’è nel piano? Lo spiega Giuseppe Sarcina. Gli 800 miliardi di cui si parla sono un traguardo possibile. Come primo passo è stato istituito un fondo con una dote di 150 miliardi di euro, il programma «Safe» («Security action for Europe»), che finanzierà progetti utili per la difesa comune, presentati da almeno due governi. L’idea è incentivare i Paesi a lavorare insieme, cominciando a superare la frammentazione delle spese, le duplicazioni e, quindi, gli sprechi. Il secondo elemento è l’allentamento del patto di Stabilità, cioè dei vincoli che dovrebbero tenere sotto controllo il deficit e il debito dei singoli Stati. La Commissione ha accolto la proposta sostenuta a lungo da Italia e Francia per scorporare dal calcolo del deficit una parte delle spese per la difesa. Scrive Sarcina: «Quanto esattamente? Ursula von der Leyen propone uno sconto dell’1,5% del prodotto interno lordo. Per l’Italia significa poter spendere per la difesa 31 miliardi di euro in più. Non è detto, però, che il governo decida di usare tutto questo margine. Motivo? Nel 2024 la manovra di bilancio è stata finanziata anche aumentando il deficit di 15,7 miliardi. I conti pubblici dell’Italia sarebbero in grado di assorbire uno sforamento doppio? Come reagirebbero i mercati finanziari?».

Dazi, Europa al contrattacco 

Gli Stati Uniti attaccano, l’Europa risponde. Non siamo ancora, per fortuna, alla guerra vera, ma quella commerciale è ampiamente cominciata. E così L’Unione europea, pur malvolentieri, ha deciso di «reagire» ai dazi del 25% imposti dall’amministrazione Trump su acciaio e alluminio Made in Eu e prodotti da altri partner internazionali, entrati in vigore ieri. Bruxelles reintrodurrà dal primo aprile le contromisure decise negli anni 2018 e 2020 (poi sospese in seguito a un’intesa) e imporrà un nuovo pacchetto di misure a partire dal 13 aprile. Anche il Canada ha reagito con tariffe per 20,7 miliardi di dollari di merci statunitensi, colpendo computer e attrezzature sportive e prodotti in ghisa.

28 vs 26 (miliardi) I dazi americani valgono 28 miliardi di dollari, quelli europei 26. L’Europa, dice Ursula von der Leyen, resta aperta al negoziato. Anche perché, come è noto, la guerra commerciale ha un effetto sgradito (soprattutto ai cittadini): l’inflazione. Per ora Trump non sembra desistere, anzi ha annunciato nuove ritorsioni contro i dazi europei, in una spirale pericolosa.

Il secondo pacchetto Le altre contromisure europee saranno applicate a 18 miliardi di euro di esportazioni statunitensi verso l’Ue e per questo è stata avviata una consultazione con i portatori di interesse e con gli Stati membri per definire i prodotti da colpire (servirà però il via libera dei ministri dei 27 Paesi). Nel secondo pacchetto rientrano prodotti industriali e agricoli, tra cui acciaio e alluminio, tessuti, pelletteria, elettrodomestici, utensili per la casa, materie plastiche e prodotti in legno. Tra i prodotti agricoli ci sono pollame, carne di manzo, alcuni frutti di mare, noci, uova, latticini, zucchero e verdure. Nel mirino ci sono anche forni, stufe, congelatori, tosaerba, «tutti beni per i quali l’Ue ritiene di avere alternative interne», ha detto una fonte.

Il commento di Ferruccio de Bortoli L’ex direttore del Corriere invita l’Europa a far valere «l’ombrello monetario», oltre a quello della Nato. «Ogni anno 300 miliardi di risparmio europeo affluiscono su fondi, società e mercati finanziari americani che costituiscono il 65 per cento dei valori trattati complessivamente nel mondo. Esiste dunque anche un ombrello monetario del quale godono gli Stati Uniti. Come europei, facciamolo valere». 

L’analisi di Federico Fubini «Gli Stati Uniti sono al lavoro per dividere il fronte avversario. Ad alcuni governi, Italia inclusa, la Casa Bianca ha lasciato intendere che sarebbero possibili negoziati separati e dunque — probabilmente — trattamenti individuali di favore. Almeno per ora però il divide et impera della Casa Bianca non sta funzionando. Se alcuni Paesi dovessero scendere a patti separati con Trump, gli altri governi europei reagirebbero tagliandoli fuori dai loro mercati nazionali».

Il negoziato in Ucraina 

Il cessate il fuoco La proposta, firmata dagli ucraini martedì a Gedda e concordata con gli americani prevede il cessate il fuoco di 30 giorni. Si attende la risposta della Russia. Donald Trump ha passato giorni a rabbonire Mosca ma ieri ha annunciato conseguenze economiche potenzialmente «devastanti» se non accettasse il cessate il fuoco. In pratica, nuove sanzioni.

I russi Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, prende tempo, affermando che prima di esprimersi i russi aspettano di ricevere «informazioni dettagliate» dagli americani, anche se già martedì il capo dell’intelligence russa Sergei Naryshkin ha parlato con il capo della Cia John Ratcliffe. Ieri dallo Studio Ovale, Trump ha detto che i suoi inviati stavano «andando in Russia mentre parliamo». L’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, che ha già incontrato Putin a febbraio, è atteso in questi giorni a Mosca.

I russi firmeranno? Ci sono diversi ostacoli, spiega Viviana Mazza. Fino a un mese fa Putin diceva che l’obiettivo russo non è una tregua ma una pace duratura. In passato il presidente russo aveva dichiarato che non avrebbe mai accettato una tregua finché gli ucraini erano in territorio russo: forse la ritirata ucraina dal Kursk (ma hanno ancora il 14 per cento della regione) potrebbe risolvere questo punto. Ci sono poi gli estremisti a Mosca che vorrebbero indebolire gli Usa. C’è chi vuole escludere l’Europa da ogni ruolo, anche di peacekeeping. E chi insiste per una zona cuscinetto nel nordest dell’Ucraina.

E gli ucraini? In grave difficoltà sul terreno, con un’ostilità evidente anche degli antichi alleati americani, potrebbero fare molte concessioni. Con una linea rossa: «Non riconosceremo alcun territorio occupato dai russi».

Voto in Groelandia, vincono gli indipendentisti di destra

Jens-Frederik Nielsen è il vincitore a sorpresa delle elezioni di martedì ed è il probabile futuro premier dell’isola di ghiaccio che Donald Trump vuole «ad ogni costo». Scrive Sara Gandolfi: «I Demokraatit di Nielsen, partito di centrodestra che si autodefinisce “social-liberale”, ha conquistato il 29,9% delle preferenze e 10 dei 31 seggi del Parlamento, predicando in campagna elettorale la pazienza: prima di indire un referendum sull’indipendenza dalla Danimarca, che la colonizzò 300 anni fa, la Groenlandia deve raggiungere la piena autonomia economica. E guardare con sospetto alle sirene di Trump, “una minaccia alla nostra indipendenza politica”». Dopo i democratici, c’è il partito nazional-populista Naleraq, con il 24,5%, che vuole l’«indipendenza subito», senza escludere partnership con Trump.

Romania, l’estrema destra ci riprova

Calin Georgescu, «sovranista putiniano anti Nato che si dichiara fan di Trump», l’altro ieri è stato escluso definitivamente dalla corsa alle presidenziali di maggio in cui era favorito. A nulla – scrive Alessandra Muglia – sono serviti i suoi ricorsi alla Consulta per ribaltare la decisione della Commissione elettorale che domenica scorsa lo ha dichiarato non idoneo a candidarsi, scatenando reazioni anche violente tra i suoi sostenitori accorsi numerosi a manifestare. Entro sabato i suoi sostenitori devono mettere insieme le 200 mila firme necessarie per presentare un’alternativa. Anzi, per sicurezza, i candidati saranno due: George Simion, presidente di Aur (secondo partito in Parlamento) e figura nazionalista più affermata in Romania prima della rapida ascesa di Georgescu; e Anamaria Gavrila, che ha fondato nel 2023 il Partito della Gioventù (Pot), appena entrato in Parlamento con il 6% dei voti.

Le altre notizie 

  • Decade deputata M5S, è lite Dopo il voto che ha portato alla decadenza della deputata del M5S Elisa Scutellà (i sì sono stati 183, i no 127, un astenuto), gli stellati guidati da Giuseppe Conte hanno improvvisato un corteo a Montecitorio e sono andati allo scontro al Senato. La vicenda riguardava un ricorso per l’eccesso di schede bianche e nulle: la giunta per le elezioni ha dato ragione ad Andrea Gentile, esponente di Forza Italia.

  • Garlasco, si ricomincia Diciotto anni dopo, mentre il solo condannato Alberto Stasi è ancora in carcere, la procura di Pavia ha riaperto le indagini. Ci sarebbe il profilo di un Dna che corrisponderebbe a quello di Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara Poggi. Oggi il sospettato dovrebbe presentarsi per il prelievo genetico, ma sostiene di stare male. Sul giornale, intervista di Massimiliano Nerozzi  a Stefano Vitelli, giudice di primo grado che assolse Stasi e che spiega i suoi dubbi e la mancanza di un movente.

  • La consulenza su Ramy Il 19 enne Ramy Elgaml, caduto dal suo motorino a Milano durante un inseguimento, è morto per «una tragica fatalità». La consulenza tecnica che la procura ha affidato all’ingegner Domenico Romaniello per chiarire la dinamica dell’incidente ha escluso responsabilità dei carabinieri che operarono in «modo conforme» alle procedure. Fu lo scarto a destra del Tmax a tagliare la strada alla pattuglia. E non ci fu l’urto laterale che era stato ipotizzato nella relazione tecnica dalla polizia locale, 21 metri prima. Restano inspiegabili, e non spiegate, le frasi registrate dai carabinieri «No, merda, non è caduto». Restano i dubbi su un inseguimento durato ben otto minuti, a una velocità elevatissima (fino a 115 chilometri all’ora). E il video che sarebbe stato fatto cancellare dai militari a un ragazzo testimone oculare, che sostiene la tesi dell’investimento.

  • Sapienza prima negli studi classici Le università italiane, scrive Gianna Fregonara, «non appaiono mai nelle posizioni di testa e vanno cercate ben oltre la centesima posizione, ma se si mettono sotto la lente di ingrandimento i singoli dipartimenti, come fa la classifica Qs World University Rankings by Subject, arrivata ieri alla sua quindicesima edizione, si conferma la buona riuscita del nostro sistema universitario: secondo in Europa dietro la Germania per numero di dipartimenti e università classificate, secondo per piazzamenti nella top 10 (sette, uno in meno dello scorso anno) dietro i Paesi Bassi». Quanto ai risultati, la Sapienza di Roma mantiene la leadership mondiale negli Studi classici, il Politecnico di Milano fa incetta di posizioni nella parte alta della classifica per Architettura, Design e poi per Ingegneria civile, Meccanica, Tecnologia. La Bocconi tiene le sue posizioni in Marketing ed Economia e la Normale, pur perdendo tre posizioni, resta nella top 10 per gli studi classici, passando dal quinto posto all’ottavo. E c’è anche una nuova entrata tra gli atenei che si piazzano tra i primi dieci al mondo: l’ Università IUAV di Venezia che sale di sei posizioni fino a diventare la nona al mondo per Storia dell’arte.

Le opinioni 

«Guerra e pace», di Goffredo Buccini.

«In un mondo sguaiato l’eleganza di re Carlo», di Giorgio Montefoschi. 

«Milei, incontri stampa in stile Grande fratello», di Sara Gandolfi.

«Consob, 50 anni e quattro principi da difendere», di Marco Ventoruzzo.

 

 

«All’Europa serve un presidente che sia eletto dal popolo», di Aldo Cazzullo.

«Sfide mondiali a colpi di numeri», di Danilo Taino.

Da ascoltare

Nel podcast «Giorno per giorno», Valentina Iorio parla della guerra tra Usa e Ue sui dazi. Sara Gandolfi analizza i risultati delle elezioni in Groenlandia. Cesare Giuzzi spiega perché sono state riaperte le indagini sul delitto di Garlasco.

Il Caffè di Massimo Gramellini

«Testa o croce»

«Quando Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, e sua moglie, la deputata Piccolotti, annunciano con orgoglio di voler vendere la loro Tesla per prendere le distanze da Elon Musk, pensano in buona fede che sia quella la notizia. E in effetti lo sarebbe, se si chiamassero Meloni, Salvini, forse anche Calenda o Gentiloni. Ma se chi guida la Tesla guida anche il più importante partito anticapitalista del Paese, la notizia non è che ha deciso di vendere un’auto da «borghesi», ma che in precedenza aveva deciso di comprarla. Piccolotti non migliora le cose quando dice «l’abbiamo pagata anche poco, 47 mila euro», perché le parole «poco» e «47 mila euro» possono stare insieme in una frase della Santanchè, non in quella di chi chiede i voti a persone che certe cifre non le vedono in anni di lavoro. Si tratta di un passaggio che sfugge agli esponenti della sinistra più ideologica, i quali si scagliano contro i beni di lusso, a meno che siano ecosostenibili e che chi li produce sostenga, oltre all’ecologia, pure la sinistra. Ma un Berlinguer (che era abbastanza ricco di famiglia da potersene permettere cento, di Tesla) non avrebbe mai commesso l’ingenuità di acquistare l’auto «fighetta» del momento. Non ne avrebbe proprio sentito il bisogno. È il «fighettismo» la vera croce di una certa sinistra italiana. Ho sempre pensato che i suoi rappresentanti non fossero mai stati a casa dei loro potenziali elettori. Ma adesso ho il sospetto che non siano mai entrati neanche in garage».

(in sottofondo «Bla Bla Bla», di Davide Shorty e Daniele Silvestri. La trovate nella nostra Playlist, aggiornata ogni venerdì con le nuove uscite di musica pop, rock e indie).

Grazie per aver letto Prima Ora.

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mercoledì 12 marzo 2025
Gioventù accesa, tre domande sulla tregua, la resa di Bezos, le uova di Trump, la Cinebussola
TOPSHOT - A woman holding flowers rides in a subway in Kyiv on March 11, 2025, amid the Russian invasion of Ukraine. (Photo by Roman PILIPEY / AFP)Una donna nella metropolitana di Kiev, ieri (Ap)
editorialista
di   Gianluca Mercuri

 

Bentrovati. Oggi una Rassegna molto americana, perché i fronti di Trump (esterni e interni) sono più che mai i nostri: tra guerra, pace, malessere sociale e qualche guizzo di speranza.
No more blues In questo periodo, in effetti, non si può dire che le buone notizie dagli Stati Uniti abbondino. Anche per questo colpisce che l’Economist titoli «I giovani americani stanno diventando più felici». Luca ha provato a capirne di più.
Aspettando Putin In attesa che i russai si pronuncino sulla proposta di tregua in Ucraina, tre domande sui possibili sviluppi. E molte risposte: anche quelle di un trumpiano molto preparato (e in buona fede).
Il padrone in redazione Lunedì Ruth Marcus, una delle editorialiste più rappresentative del Washington Post, si è dimessa. Ora, racconta Elena, sia lei sia l’ex leggendario direttore Marty Baron spiegano come il fondatore di Amazon, e proprietario del giornale, si sia piegato a Trump (in due parole: senza ritegno).
Le uova di Trump Il prezzo delle uova hamolto contribuito a fare cadere Joe Biden e può inguaiare anche il suo successore. Anche per questo la nuova amministrazione ha aperto un’inchiesta, ipotizzando un cartello per tenere alti i prezzi. Ne parla ancora Elena, che per prima ha raccontato in Italia questa storia.
La CinebussolaIl Nibbio, il film sulla tragica vicenda di Nicola Calipari, (ben) visto da Paolo Baldini.

 

Buona lettura.

Rassegna sociologica
Sorpresa, i giovani americani stanno diventando meno tristi
editorialista
Luca Angelini

 

Era da un po’ di tempo che non arrivano buone notizie sui giovani dall’America (e dall’America in generale, malignerà qualcuno). Eravamo rimasti al dibattito pro e contro su libri catastrofisti come The Anxious Generation di Jonathan Haidt (qui quello che ne aveva scritto Barbara Stefanelli su 7). Adesso, invece, sull’Economist si può leggere un titolo così: «I giovani americani stanno diventando più felici». O, forse, a guardare i numeri, sarebbe meglio dire «meno tristi», ma è la solita questione del bicchiere pieno a metà. In ogni caso, a certificare l’inversione di tendenza è uno di quelli che per primi avevano diagnosticato la «malattia».

 

Nel 2007, Daniel Eisenberg, all’epoca docente di politica sanitaria all’Ucla, poi passato all’Università del Michigan, aveva inviato un sondaggio sulla salute mentale a 5.591 studenti universitari, scoprendo che il 22% mostrava segni di depressione. Nei 15 anni successivi, a mano a mano che venivano intervistati nuovi studenti, la cifra era raddoppiata. Nel 2022, quando vennero intervistati più di 95.000 studenti di 373 università, uno sconcertante 44% mostrava sintomi di depressione. Poi, curiosamente, la tendenza si è invertita. Nel 2023 il 41% degli studenti sembrava depresso; nel 2024 la percentuale è scesa nuovamente al 38%. Eisenberg si dice cautamente ottimista: «È la prima volta che le cose si muovono in una direzione positiva».

 

L’Economist ha messo insieme i risultati di altri sondaggi e conferma che non sono soltanto gli studenti universitari a sentirsi meno giù di morale. I 12-18enni con «persistenti sensazioni di tristezza» sono scesi dal 42% del 2021 al 40% del 2023 (ma nel 2000 erano soltanto il 28%). Quelli che dicono di aver preso sul serio, nell’ultimo anno, l’idea di suicidarsi, dal 22 al 20%. Anche le diagnosi di depressione fra i 12-17enni sarebbero scese, dal 9 all’8% (ma erano il 6% nel 2016). Tendenze simili emergerebbero anche tra i 18-25enni, mentre per gli over 26 il trend è sempre rimasto più o meno costante negli anni.

 

 

Forse è troppo presto per azzardare che la tendenza verso la felicità (o la minor tristezza) sia ormai irreversibile. Il World Happiness Report 2024 – basato su dati raccolti fra il 2021 e il 2023 – segnalava ancora il «divario generazionale» in materia di felicità negli Stati Uniti: «Mentre gli Stati Uniti si posizionano al 23° posto in classifica generale per quanto riguarda la felicità, la classifica in base alla felicità dei loro giovani (15-24 anni, ndr) fa precipitare gli Stati Uniti al 62° posto. Mentre sono il 10° Paese più felice per le persone di 60 anni e oltre». I giovani interpellati per avevano «riferito di essere meno liberi di fare scelte di vita, di essere meno soddisfatti delle loro condizioni di vita. (…) Così come una minore fiducia nel governo e una maggiore percezione della corruzione», aveva spiegato Lara Aknin della Simon Fraser University, una delle coautrici del rapporto.

 

 

Peraltro, non è una tendenza esclusiva degli Usa. A livello globale, segnalava il rapporto, i giovani hanno maggiori probabilità di ridere, divertirsi e provare interesse, su base giornaliera, rispetto agli anziani, ma non è così negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Nuova Zelanda. I giovani di questi Paesi provano anche più spesso preoccupazione, tristezza e rabbia rispetto alle loro controparti più anziane, il che non è comune a tutto il mondo (ad eccezione dell’Europa occidentale, dove i giovani di Norvegia, Svezia, Germania, Francia e Regno Unito se la passano peggio). Gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda rappresentano l’unica regione in cui le emozioni negative sono aumentate più per i giovani che per gli anziani negli ultimi 15 anni circa. (Quanto all’Italia, un Rapporto Ipsos segnalava un anno fa che «a livello generazionale, sono più felici i giovani della GenZ – che si dichiarano più determinati e spensierati della media degli italiani e i Boomers – mediamente più speranzosi -, mentre la Generazione X e soprattutto i Millennials sono decisamente meno felici: rabbia e apatia caratterizzano i primi, stanchezza, frustrazione e malinconia i secondi»).

 

 

Secondo l’Economist, parte della crescita, nei sondaggi, della presenza di disagio mentale poteva anche essere dovuta alla maggior disponibilità delle nuove generazioni ad ammetterlo e parlarne. Ci sono, però, anche segnali drammaticamente più concreti: nel 2021 il tasso di suicidi dei minori di 17 anni era di 5,1 per 100.000, in aumento rispetto al 3,5 del 2001. Nello stesso periodo, il tasso di suicidi dei giovani tra i 18 e i 25 anni è passato da 11,6 a 18,1 per 100.000. Ma, nel 2023, è sceso a 16,1 (ma ancora ben sopra il 12 del 2000).

 

 

In ogni caso, non è troppo presto, secondo il settimanale britannico, per farsi nuove domande. «Questa tendenza è un segnale di speranza anche per genitori e politici. Ma solleva anche interrogativi complicati per i ricercatori. Gli psicologi hanno passato anni a cercare di capire come i giovani americani fossero diventati tanto tristi. Ora devono capire cosa ci sia dietro la disposizione più ottimista dei ragazzi».

 

 

Haidt, ma anche Jean Twenge (autrice di Iperconnessi e coniatrice del termine iGen) hanno attribuito a social e smartphone l’epidemia di ansia e depressione adolescenziale. Ma, visto che non risultano, nell’ultimo paio d’anni, fughe in massa dall’«iperconnessione», si dovrà cercare altrove. Gli anni della pandemia e dei lockdown, secondo molti studi, hanno inciso non poco. E potrebbe quindi trattarsi di un lento rientro verso la situazione pre Covid. Anche perché, come aveva segnalato Kira M. Newman commentando sul Greater Good Magazine i dati del World Happiness Report, «la pandemia Covid-19 ha visto un’impennata di aiuti, donazioni e volontariato in tutte le generazioni e in ogni regione del mondo. In un momento di crisi, sembra che siamo sopravvissuti appoggiandoci di più gli uni agli altri. Per i Millennial e la Gen Z, questa spinta all’assistenza è stata ancora più forte. Perché? Non lo sappiamo con certezza, ma “una possibilità è che i Millennials/Gen Z intervistati passino più tempo in mezzo agli altri o nelle loro comunità, il che offre maggiori opportunità di vedere i bisogni e fornire assistenza agli altri”, dice Aknin. Un’altra possibilità potrebbe essere che, in mezzo alle difficoltà, siano portati a guardare verso l’esterno e a sostenere gli altri come un modo per aiutare, tangenzialmente, se stessi. Anche se le loro vite possono essere meno “felici”, secondo il modo in cui le definisce il World Happiness Report, potrebbero trovare un senso e uno scopo nella ricerca dei legami sociali di cui tutti abbiamo bisogno al giorno d’oggi».

 

 

Il settimanale britannico ammette che, per il momento, non sembrano esserci risposte all’inversione di tendenza. Ma, in attesa di nuove ricerche (e di vedere se il trend verrà confermato o smentito dai prossimi sondaggi), invita a prenderne atto con un po’ di soddisfazione: «Come la felicità stessa, anche le sue cause sono misteriose. Ma questo non dovrebbe impedire all’America di festeggiare».

 

Rassegna della guerra
Zelensky è rinato? Putin gli darà tregua? Trump con chi sta? Tre domande e qualche risposta
editorialista
Gianluca Mercuri

 

Siamo dunque in attesa della risposta russa alla proposta americana di una tregua totale di 30 gorni. Un’idea subito accolta dagli ucraini. Le incognite, chiaramente, non mancano. Gli interrogativi essenziali sono 3: se Kiev fa bene a fidarsi, se di Putin ci si può fidare e se Trump si fida davvero. Proviamo qualche risposta.

 

L’Ucraina ha fatto bene ad accettare la tregua?

 

  • Risposta in una parola: sì. Risposta più articolata: Zelensky aveva un bisogno disperato di rientrare in partita dopo che il 28 febbraio era stato letteralmente cacciato dalla Casa Bianca, e c’è riuscito. Dopo l’umiliazione subita dal duo Trump-Vance, il premier britannico Keir Starmer ha «allenato» il presidente ucraino per giorni sul modo di porsi con gli americani e l’operazione pare riuscita. Come osserva la nostra corrispondente dall’America Viviana Mazza, «indipendentemente dalla risposta russa, cambia la dinamica tra ucraini e americani. Zelensky può dire di non rappresentare un ostacolo al ripristino della pace». E può rimettere piede a Washington.
  • Zelenky ha rimediato a un errore grave Quale? Durante la rissa alla Casa Bianca con Trump e Vance, aveva escluso esattamente ciò che ha poi ingoiato 12 giorni dopo: «Non accetteremo mai un cessate il fuoco, perché Putin ne ha già violati 25. Prima servono garanzie per la sicurezza». Questo atteggiamento, secondo il columnist del Washington Post Marc A. Thiessen, è quello che ha convinto Trump che Zelensky non vuole la pace (un punto essenziale: ci torniamo dopo). Dopo i coloqui in Arabia Saudita tra la sua dlegazione e il segretario di Stato Marco Rubio, il cambio di atteggiamento del leader di Kiev è stato totale: «L’Ucraina accetta questa proposta, la consideriamo positiva, siamo pronti a fare un passo del genere e gli Stati Uniti devono convincere la Russia a farlo».
  • Cos’ha incassato? Oltre alla possibilità di rientrare in gioco dopo che Trump l’aveva defenestrato, Zelensky ha ottenuto dagli americani la riattivazione immediata degli aiuti militari e della condivisione di intelligence, interrotti dopo lo scontro di due settimane fa. E anche una nota che parla di «una pace duratura che garantisca la sicurezza di lungo periodo per l’Ucraina»: un primo accenno alla richiesta di tutele certe per il futuro su cui insiste Kiev. In più, come ha detto Rubio, «la palla è ora nel campo dei russi», che sul  campo di battaglia stavano guadagnando posizioni. Non poco, insomma, per un leader che pareva ormai spacciato.
  • «Ha giocato bene le carte che non ha» Ricordatele parole raggelanti di Trump in mondovisione? «Non hai carte, non hai carte». Ora, dice un acuto osservatore che i lettori del Corriere conoscono bene, il politologo Ian Bremmer, «Zelensky ha giocato meglio le carte che non ha da quando ha lasciato la Casa Bianca, dicendo che sarebbe andato avanti e avrebbe firmato un accordo critico sui minerali, scrivendo una lettera in cui si scusava con il presidente americano per qualsiasi malinteso nell’incontro allo Studio Ovale. Ma ora Zelensky non è più un ostacolo dal punto di vista di Trump sulla via della pace, ha accettato le condizioni di Trump. Mi aspetto che gli europei si schierino a favore del cessate il fuoco di 30 giorni in tempi molto brevi, e la domanda è per Putin».

 

Ma Putin cosa farà? E quanto ci si può fidare?

 

  • Zero risposte Finora (mercoledì sera) non c’è stata alcuna risposta ufficiale alla proposta di tregua. Ma siti e blog nazionalisti esprimono umori oltranzisti, e consigliano a Putin di cessare il fuoco solo dopo essersi ripreso tutto il Kursk: «Non ha alcun senso bloccare la nostra offensiva proprio adesso che stiamo vincendo, serve solo a ridare forza agli ucraini grazie alla ripresa degli aiuti americani», scrivono i falchi russi. Putin darà retta a loro? Si possono fare alcune ipotesi.

 

 

  • Putin dirà sì ma non subito L’autocrate russo ha bisogno di confermare l’idea trumpiana che a Mosca ci sia un partner per la pace e per una futura coesistenza strategica tra superpotenze, e che l’ostacolo per la fine della guerra sia Zelensky. Ma è plausibile che cerchi prima di riprendersi davvero tutto il Kursk.
  • La tregua sarà complicatissima Lo sarà anche dopo l’eventuale sì russo, perché l’idea di un cessate il fuoco totale su tutti i fronti, e per un mese, è oggettivamente difficile da realizzare. Dopo tre anni di scontri feroci con tutti i mezzi – blindati, artiglieria, droni – bisognerà evitare il minimo incidente. Perché anche una sparatoria dettata dal panico, o una provocazione voluta, potranno far riesplodere i combattimenti. Proprio per questo ucraini ed europei avevano proposto un cessate il fuoco parziale, limitato agli attacchi aerei e marittimi e alle infrastrutture energetiche, in modo da monitorare più facilmente le eventuali violazioni.
  • I russi giocheranno sporco L’hanno sempre fatto, perché sono maestri nelle «operazioni sotto falsa bandiera», quelle inscenate per mascherare le vere responsabilità e attribuirle al nemico. È prevedibile che alcuni incidenti non potranno mai essere chiariti con certezza, e che molti saranno vere e proprie invenzioni divulgate con sapienza anche grazie all’intelligenza artificiale.
  • La pipì spacciata per pioggia I precedenti non incoraggiano. Nel 2015, per esempio, i russi dissero sì al cessate il fuoco ma dopo pochi giorni conquistarono la città ucraina di Debaltseve. Un osservatore molto pessimista – al punto da considerare la proposta di tregua una richiesta di resa dell’Ucraina – è Jim Geraghty della National Review (rivista e think tank conservatore di orientamento nettamente anti russo), che non ha difficoltà ad elencare gli esempi dell’inaffidabilità di Mosca: «Il governo russo non ha mantenuto le sue promesse e assicurazioni nei trattati di pace in Cecenia, Georgia e Siria; nel Memorandum di Budapest, che avrebbe dovuto garantire l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della rinuncia alle armi nucleari stazionate sul suo territorio; e nell’estensione del trattato Start». Ma il caso più sinistro riguarda il vero inizio di questa guerra, che precede di molto l’invasione su larga scala del febbraio ’22: «La promessa di smettere di combattere non significa molto per un regime il cui modus operandi è la guerra in “zona grigia”, ovvero combattere guerre senza dichiararle. L’intero conflitto è iniziato (nel 2014) con gli “omini verdi”, l’apparizione in Crimea e nell’Ucraina orientale di soldati apparentemente professionisti in uniformi da combattimento in stile russo, con armi russe ma senza insegne identificative. La Russia ha continuato a ribadire di non aver inviato truppe in Crimea, anche dopo la comparsa di video in cui le truppe dicevano ai giornalisti ucraini: “Siamo russi”. Questo è l’equivalente in politica estera della pipì sulla gamba di qualcuno e dell’insistere che sta piovendo».

 

 

  • Ma perché Putin farebbe saltare la tregua? Per due motivi:
    a) perché il congelamento della linea del fronte non può bastargli per giustificare una guerra che ha avuto un costo immane, come ha ricordato Federico Fubini: «La Russia ha perso oltre 200 mila dei suoi uomini, ha avuto oltre 600 mila feriti spesso gravi, ha subito la fuga all’estero di almeno 700 mila giovani altamente istruiti, bruciato circa 200 miliardi di dollari nello sforzo di distruzione, è danneggiata dalle sanzioni, è ridotta a un sistema totalitario e ha un’economia scricchiolante».
    b) perché se convincerà Trump che la tregua salta per colpa degli ucraini, l’America smetterà di nuovo di sostenerli e lui potrà ri-aggredirli con più forza, e dopo essersi riorganizzato.

 

 

  • A proposito di palle Per dirla con l’analista della Cnn Nick Paton Walsh, il fatto che ora la palla sia nel loro campo, come ha detto Rubio, «è vero ed è un risultato ammirevole. Ma è vero anche che la Russia eccelle nell’afferrare la palla, mettersela in tasca, discutere le regole del gioco e i punti persi tre set fa, per poi affermare che la palla è stata rubata dall’altra squadra».

 

A Putin preme molto altro Questo è un punto essenziale: l’Ucraina è certamente fondamentale, ma il ritorno di Trump ha datto alla Russia una possibilità geostrategica che aveva perso da trent’anni, quella di trattare ed essere trattata come una superpotenza. Sull’Ucraina, Putin vuole molte cose: che Zelensky sparisca dai giochi (e invece lo vede rientrare), che «Kiev mai nella Nato» sia scritto nero su bianco, che gli americani si ritirino dalle rotazioni della Nato in Polonia e nei Paesi baltici, che gli europei siano estromessi dal negoziato, che le sanzioni siano tolte. E poi vuole inaugurare con questa America così diversa una vera e propria partnership strategica su tutte le questioni, dall’Artico alle armi nucleari. Invece, osserva Bremmer, la proposta di tregua lo mette nell’angolo perché tutte queste questioni non sono ancora sul tavolo: «Ciò che è sul tavolo di Putin, in questo momento, è accettare un cessate il fuoco di 30 giorni, con le linee di controllo territoriale esattamente dove sono, compresa l’occupazione di una piccola parte del territorio russo da parte degli ucraini. E sospetto che Putin non voglia accettarlo. Quindi, se sei Putin, cosa fai? Beh, una cosa da fare è cercare di vedere quanto velocemente si possa ottenere un faccia a faccia con Trump, in modo da non parlare solo di quell’accordo, ma inserirlo nel contesto di un accordo molto più ampio e tenere fuori gli europei, che ovviamente è essenziale per qualsiasi accordo più ampio che gli americani e i russi fanno, perché gli europei continuano a vedere la Russia come il loro principale avversario, il loro principale nemico. Riuscirà a farlo?». E qui veniamo al personaggio chiave.

Cosa vuole davvero Trump?

 

  • Ammettiamo che non sia un traditore Ecco: in questi quasi due mesi, Trump ci ha dato l’idea di avere mollato l’Ucraina, l’Europa e l’idea stessa di Occidente; di essere mosso da una logica gangsteristica che lo porta ad accordarsi con gli altri boss del pianeta, Putin e Xi; di essere magari sotto ricatto russo, per qualche oscuro legame del passato. Può essere mentalmente igienico, allora, aprirsi a un punto di vista diverso: non quello dei soliti sanewasher, i bonificatori di ogni atto e pensiero di Donald, che hanno il solo scopo di giustificarlo pregiudizialmente. Ma quello di un osservatore autorevole come Thiessen, un conservatore schietto e non un finto progressista, già speechwriter di George W. Bush e testa d’uovo dell’American Enterprise Institute, altro think tank prestigioso della destra americana. Thiessen racconta dunque di avere passato con Trump molte ore, e da molti anni, parlando di Ucraina, e l’idea che si è fatto è diversa da quelle prevalenti: «I critici sono convinti che Trump ami Putin e propenda per la Russia, mentre molti della destra anti-Ucraina credono che condivida il loro astio verso Kiev. Entrambi si sbagliano e tendono a selezionare le sue dichiarazioni per sostenere i loro preconcetti, trascurando le molte cose che ha detto che minano la loro narrazione». Ecco quali.
  • «Trump vuole davvero la fine della guerra» Le parole ripetute dal presidente più volte, anche durante il litigio con Zelensky – «Sento di avere l’obbligo di cercare di fare qualcosa per fermare la morte» – non sono di maniera, assicura l’editorialista del Washington Post. Per questo Trump insiste ossessivamente sul cessate il fuoco, e per questo diffida di Zelensky: «Trump ha percepito un uomo talmente accecato dal disprezzo per Putin da non volere la fine della guerra. “Vedete l’odio che ha per Putin. È molto difficile per me fare un accordo con questo tipo di odio”, ha detto mentre l’incontro alla Casa Bianca si faceva sempre più intenso».

 

 

  • «Trump vuole il miglior accordo possibile per Kiev» Thiessen nega che il presidente dia per persi i territori presi dai russi. Durante il dibattito con Kamala Harris alla Cnn, ricorda, disse che le pretese di Mosca in quel senso «non sono accettabili», e durante il recente incontro col premier inglese Keir Starmer ha ribadito che «gran parte della fascia costiera è stata presa, e ne parleremo, vedremo se possiamo recuperarla o recuperarne gran parte per l’Ucraina».
  • «La sicurezza che intende lui non è un bluff» Trump «è impegnato ad aiutare l’Ucraina a sopravvivere come nazione sovrana e indipendente. Per questo motivo, il primo accordo che ha negoziato al suo ritorno alla Casa Bianca è stato “un partenariato duraturo” con Kiev per sviluppare congiuntamente i minerali e le terre rare dell’Ucraina – che, una volta firmato, significherà che l’America è, letteralmente, investita finanziariamente nella sopravvivenza dell’Ucraina». Da qui l’insistenza sull’accordo per lo sfruttamento dei minerali, un risarcimento all’America dal suo punto di vista, un’estorsione dal punto di vista ucraino, una garanzia concreta da un punto di vista molto ottimista: «Lavoreremo laggiù. Saremo sul territorio. E… nessuno farà il furbo con la nostra gente quando saremo lì». In ogni caso, Trump pensa che la sicurezza sia l’ultima cosa da negoziare, non la prima. «La sicurezza è così facile. È circa il 2% del problema. Non mi preoccupa la sicurezza. Mi preoccupo di concludere l’accordo», ha detto un mese fa. Chiaro che Zelensky non possa essere tranquillo, ma sbaglia, spiega Thiessen, a pretendere le garanzie prima del negoziato.
  • «Trump è carino con Putin a fini tattici» Alla Conservative Political Action Conference del 2022 disse che «l’attacco russo all’Ucraina è spaventoso, un oltraggio, un’atrocità». Ma ora che deve negoziare, è chiaro che cambia toni e li sceglie opposti a quelli di Biden, che diede a Putin dell’assassino: «“Volete che dica cose davvero terribili su Putin e poi dica: ciao, Vladimir, come va l’accordo?. Non funziona così”, ha spiegato durante la sfortunata visita di Zelensky». Secondo Thiessen, il presidente crede davvero di poter mediare e che per mediare non debba essere allineato a nessuno. Da questo punto di vista, le frasi di ieri di Rubio – «La palla è nel campo russo, ora vedremo cosa vogliono davvero» – segnano in effetti un cambio di toni. Trump sta dando credito a Putin, e alla sua asserita volontà di pace, «ma prima o poi il leader russo dovrà dimostrarlo con i fatti, non con le parole. Se Putin finirà per prendere in giro Trump, scoprirà quanto velocemente Trump gli si rivolterà contro. Infatti, dopo che Putin ha intensificato gli attacchi missilistici contro le città ucraine la scorsa settimana, Trump si è indignato sempre di più e ha avvertito che si stava preparando a imporre “sanzioni bancarie, sanzioni e tariffe su larga scala alla Russia fino a quando non verrà raggiunto un accordo di cessazione del fuoco e di accordo finale sulla pace».

 

Non resta che sperare Sperare, cioè, che Thiessen abbia visto giusto nella sua lunga frequentazione dell’uomo più imprevedibile del mondo: «Credo che coloro che sostengono che Trump si stia schierando con Putin contro l’Ucraina siano semplicemente scorretti. E coloro che sussurrano il contrario all’orecchio di Zelensky non aiutano». Si dice pronto a fare ammenda se i fatti lo smentiranno. Ma sarebbe davvero l’ultimo problema.

Rassegna americana
Le accuse dell’editorialista-simbolo del Washington Post a Jeff Bezos
editorialista
Elena Tebano

 

«Una cosa è stata la scelta del proprietario di rinunciare agli endorsement presidenziali. La pagina delle opinioni, composta da editoriali non firmati, riflette le opinioni del proprietario. I commenti firmati esprimono il punto di vista dei loro autori. Il mio lavoro dovrebbe essere quello di dirvi quello che penso, non quello che Jeff Bezos pensa che dovrei pensare.
E ora arriva la parte difficile, perché la missiva di Bezos non arriva nel vuoto, ma nel contesto delle ripetute avance del proprietario a Trump. Quali che siano le sue motivazioni interiori, è difficile per i lettori non sospettare che gli interessi commerciali personali di Bezos non giochino alcun ruolo in questo caso
».

 

 

L’editorialista del Washington Post Ruth Marcus scriveva così in un commento sulla nuova linea del giornale annunciata il 26 febbraio dal suo proprietario. Il miliardario e fondatore di Amazon Jeff Bezos ha disposto infatti che gli editoriali siano sempre a favore delle «libertà personali e del libero mercato» mentre «i punti di vista che si oppongono a questi pilastri saranno lasciati alla pubblicazione da parte di altri».

 

 

Il commento di Marcus è stato pubblicato oggi dal New Yorker, non dal Washington Post, che l’ha bocciato definendolo «troppo speculativo» perché – visto che non è ancora stato nominato un nuovo responsabile delle pagine editoriali (quello vecchio si era dimesso in disaccordo con la nuova linea di Bezos) – non è possibile sapere con certezza come sarà la nuova sezione degli editoriali. Motivazione respinta come risibile da Marcus. Che ha chiesto un incontro all’amministratore delegato e direttore editoriale del Post, William Lewis, e se l’è visto negare con la motivazione la sua decisione era «definitiva».

 

 

Anche Marcus ha preso una decisione «definitiva» e lunedì si è dimessa. «La decisione di Will (Lewis) di non pubblicare la rubrica che avevo scritto dissentendo rispettosamente dall’ordine di Jeff (Bezos), cosa che non mi era mai capitata in quasi vent’anni di pubblicazioni, dimostra che la tradizionale libertà degli editorialisti di scegliere gli argomenti che desiderano trattare e di dire ciò che pensano è stata pericolosamente erosa», ha scritto Marcus nella sua lettera di dimissioni. «Amo il Post. Mi si spezza il cuore nel dover concludere che devo andarmene».

 

 

Marcus ci lavorava da 41 anni: ci era entrata fresca di laurea nel 1984. Era «il pilastro del Washington Post, che incarnava la storia del luogo così come il talento e i risultati dei suoi giornalisti», come ha detto l’esperto di media Paul Farhi. Il suo addio pesa sulla reputazione di quello che è stato uno dei quotidiani più autorevoli d’America, ma che negli ultimi mesi ha perso lettori e considerazione, anche a causa delle scelte editoriali del suo proprietario. Come racconta l’Ap, a gennaio si era dimessa la vignettista Ann Telnaes dopo che la sezione commenti aveva rifiutato il suo disegno di Bezos e di altri esponenti dei media e della tecnologia che si inchinavano davanti al presidente americano Donald Trump. Nel giugno precedente Sally Buzbee si era già dimessa da direttrice esecutiva perché contraria al piano dell’editore di dividere la redazione in tre divisioni separate, di cui una dedicata ad attirare clienti attraverso l’uso innovativo di social media, video, intelligenza artificiale e vendite.

 

 

Ma era stata la scelta di Bezos a ottobre di non appoggiare nessun candidato alla presidenza (quello che i media americani chiamano «endorsement») a fare più scalpore. La redazione del Post era pronta ad appoggiare la democratica Kamala Harris ed è stata fermata all’ultimo momento. Il giornale da allora ha perso 300 mila lettori, ma Bezos ha difeso la decisione affermando in una «nota del nostro proprietario» che gli endorsement editoriali creano una percezione di parzialità in un momento in cui molti americani non credono ai media e non fanno nulla per far pendere la bilancia di un’elezione.

 

 

È un’argomentazione plausibile in un’epoca in cui sono sempre di più i social media a formare l’opinione pubblica. «You are the media», «Tu sei i media» ha scritto il proprietario di X Elon Musk, e alleato di Donald Trump, sul suo social network subito dopo la sua vittoria alle elezioni. Ma è smentita dalla crescente preoccupazione di Bezos di tenere a bada il suo stesso giornale. Se c’è bisogno di metterle la museruola vuol dire che la «vecchia» stampa ha ancora qualcosa di scomodo da dire.

 

 

Marty Baron, direttore esecutivo del Post quando Bezos acquistò il giornale nel 2013, ha scritto la scorsa settimana sull’Atlantic che Bezos «ha gestito la sua proprietà in modo ammirevole per più di un decennio. Ma il suo coraggio è venuto meno quando ne aveva più bisogno». All’epoca Bezos giurò che avrebbe difeso l’indipendenza del Post come la sua storica direttrice editoriale Katharine Graham, che resistette alle pressioni del presidente Richard Nixon e pubblicò l’inchiesta sul Watergate che lo costrinse alle dimissioni.

 

 

«Ora sappiamo che Bezos non è Katharine Graham. È stato triste e snervante osservare che Bezos è così terribilmente al di sotto dei suoi standard mentre affronta il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. È stato esasperante osservare il danno che ha inflitto negli ultimi mesi alla reputazione di un giornale il cui giornalismo investigativo è stato un baluardo contro gli impulsi più trasgressivi di Trump» ha scritto Baron.

 

 

Nel suo intervento sul New Yorker Marcus ricostruisce passo passo la resa di Bezos a Trump. Comprese le donazioni per la sua cerimonia di insediamento (negli Stati Uniti sono legali) e l’acquisto per un prezzo fuori mercato del documentario di Melania Trump. «Il 18 dicembre Bezos e la sua fidanzata, Lauren Sánchez, hanno cenato con Trump e Melania a Mar-a-Lago, insieme a Elon Musk. “In questo periodo, tutti vogliono essere miei amici”, ha osservato Trump. Aveva ragione di pensarlo. Il 5 gennaio, Amazon ha annunciato di aver acquistato i diritti per un documentario su Melania, co-prodotto da Melania stessa. Matthew Belloni di Puck ha riferito che il servizio di streaming avrebbe pagato quaranta milioni di dollari per la licenza del film, a quanto pare la cifra più alta mai spesa da Amazon per un documentario e quasi tre volte l’offerta più alta della concorrenza. Il Wall Street Journal ha riportato che Melania avrebbe intascato più del settanta per cento di questa cifra e che, alla cena di Mar-a-Lago, ha “deliziato” Bezos e Sánchez con i dettagli del progetto» scrive.

 

 

Poi è arrivata la stretta sugli editoriali, sotto forma di difesa della libertà personali. Marcus si chiede se opporsi alle restrizioni trumpiane sull’aborto possa essere considerata una difesa delle libertà personali, o se le libertà da difendere sono solo quelle sostenute dall’estrema destra Maga («Make America Great Again», il motto di Trump). «La tradizionale libertà degli editorialisti di scegliere gli argomenti che desiderano trattare e di dire ciò che pensano è stata pericolosamente erosa», ha scritto Marcus nella sua lettera di dimissioni.

 

 

Sebbene Bezos e Lewis abbiano il diritto di decidere quali commenti debba pubblicare il giornale, questa «non è la tradizione», ha detto all’Ap l’esperto di media Paul Farhi, che ha paragonato il funzionamento delle pagine dei commenti a quello del Dipartimento di Giustizia: pur essendo tecnicamente sotto il controllo della Casa Bianca, opera generalmente in modo indipendente (con Trump sta cambiando anche quello).

 

 

La virata di Bezos, che non è un editore puro e ha molti interessi imprenditoriali da difendere, mostra i rischi dei conflitti d’interesse, di cui si è discusso a lungo anche in Italia, in particolare quando Silvio Berlusconi era presidente del Consiglio. Con Trump, che ha mostrato di non sopportare chiunque non lo aduli e mostra sempre più disprezzo per le regole di base della democrazia (ha anche escluso l’agenzia Ap dalle conferenze stampa della Casa Bianca perché non ha adottato il nome Golfo d’America al posto di Golfo del Messico), la questione diventa quanto mai attuale.

 

Rassegna americana
L’inchiesta sulle uova di Trump (per evitare gli errori dei democratici)
editorialista
Elena Tebano

 

Il Dipartimento di Giustizia americano, secondo il Wall Street Journal, ha aperto un’inchiesta sull’aumento dei prezzi delle uova, per verificare se i principali produttori abbiano cospirato per alzare i costi o limitare l’offerta. Come abbiamo raccontato in questa newsletter, le uova sono diventate il simbolo di tutto quello che non va negli Stati Uniti. Un cartone da 12 uova nei supermercati è arrivato a costare tra gli 8 e i 12 dollari. A febbraio il costo delle uova è aumentato del 10,4% rispetto al mese precedente e quasi del 60% rispetto a un anno fa. E questo nonostante il presidente Donald Trump abbia promesso che avrebbe abbassato il prezzo dal «giorno 1» del suo secondo mandato.

 

 

Adesso la questione preoccupa i conservatori. John Shelton, direttore politico di Advancing American Freedom, un gruppo di destra che sostiene Trump, ha scritto sulla rivista National Review che i democratici «avrebbero potuto comunque vincere la Casa Bianca se non fosse stato per il prezzo delle uova. I conservatori rischiano di commettere un errore simile prima delle elezioni di metà mandato».

 

 

Il prezzo era rimasto costantemente al di sotto dei 2 dollari a dozzina per decenni prima che l’aviaria costringesse il Dipartimento dell’Agricoltura ad abbattere più di 166 milioni di polli, per lo più galline da uova. L’amministrazione Trump ha presentato un piano da 1 milione di dollari per combattere l’influenza aviaria ma ci vorrà un po’ di tempo prima che abbia un impatto.

 

La Cinebussola
L’omaggio giusto (e riuscito) al sacrificio di Nicola Calipari
editorialista
Paolo Baldini

Da qualsiasi parte si guardi, un film come Il Nibbio si pone come esempio della lotta impari che la brava gente è costretta a sostenere contro il malaffare vischioso, gli interessi contrapposti, gli intrighi internazionali. Storia dei 28 giorni che precedettero il tragico 4 marzo 2005, quando l’agente del Sismi Nicola Calipari (interpretato da Claudio Santamaria) morì per salvare la vita di Giuliana Sgrena (Sonia Bergamasco), giornalista del manifesto rapita in Iraq da un gruppo jihadista, dopo una lunga trattativa multinazionale.

Secondo i report ufficiali, Calipari fu ucciso dal fuoco amico, dai colpi sparati da un militare americano a un posto di blocco nei pressi dell’aeroporto di Bagdad, quando ormai la missione sembrava compiuta, grazie all’accordo che Calipari strinse a Dubai con un mediatore sunnita, il quale avrebbe ricevuto in cambio denaro e un passaporto per entrare in Italia.

All’epoca, l’ex poliziotto venuto dalla Calabria era considerato il più affidabile e competente diplomatico del Sismi. A lui furono consegnate altre trattative complesse, tra cui quella delle due Simone, Simona Pari e Simona Torretta. Poco prima dei fatti narrati, tra l’altro, c’era stato il rapimento di Enzo Baldoni da parte dell’esercito islamico che si concluse tragicamente e consigliò gli 007 italiani una cura particolare nell’uscire allo scoperto.

 

Il thriller memoir di Alessandro Tonda, 42 anni, ci consegna – senza troppa retorica, va detto – un Calipari eroe silenzioso, onesto, instancabile. Un servitore dello Stato, contrario alle soluzioni di forza, attento ai diritti e agli ideali di pace. La sua morte fu oggetto di furiose polemiche che il film sfiora soltanto, preferendo allineare i fatti e lasciare allo spettatore la valutazione di ciò che avvenne in quella tragica notte del 2005.

 

Quando fu ucciso, Calipari aveva 51 anni, una moglie, Rosa (Anna Ferzetti), e due figli con cui progettava un futuro meno affollato di impegni così assorbenti. La sua figura è ricordata in due fiction Rai, Caccia segreta (2007) e Il cacciatore (2018). Fu stimato per la sua tenacia, ma, secondo il film, non sempre amato dai superiori. Il Nibbio era il suo nome in codice.

Tonda usa il tratto e il piglio della spy story per salire e scendere più piani narrativi: la trattativa, i giorni di costrizione di Giuliana Sgrena e il rapporto con i carcerieri, l’intesa che Calipari instaurò con il direttore del manifesto Gabriele Polo e con il compagno di Sgrena, Pier Scolari, ma anche l’atteggiamento del Palazzo, gli ostacoli che furono frapposti alla missione e le trame internazionali che la resero difficile e pericolosa. Allora il presidente americano era George W. Bush e al governo in Italia c’era Silvio Berlusconi, che compare di spalle nel film. Gli sceneggiatori Davide Cosco, Sandro Petraglia e Lorenzo Bagnatori si sono affidati alla ricostruzione dei fatti di Polo e Sgrena, ma senza trascurare l’aspetto commovente della storia. Santamaria, Bergamasco e Ferzetti sono bravi e funzionali al racconto.

IL NIBBIO di Alessandro Tonda
(Italia-Belgio, 2025, durata 109’, Notorious Pictures)

con Claudio Santamaria, Sonia Bergamasco, Anna Ferzetti
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale

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