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Morire di pena, kaizen alla cinese, la scuola siamo noi, il profeta del trumputinismo, l’amore di Chagall, cinestorie di donne, la playlist
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di Gianluca Mercuri
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Bentrovati. Eccovi il nostro menu da-non-staccarsi-dal-sofà per il vostro fine settimana:
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«Morire di pena» I morti in carcere diventano sempre di più e ora c’è un libro che non è un saggio teorico, ma il racconto di dodici storie di suicidi, la cronaca dura e secca di come, rinchiusi in una cella, si possano perdere la speranza e la vita. Lo ha scritto Alessandro Trocino, il nostro Alessandro, che segue la questione da anni, con la passione e la competenza che i lettori della Rassegna conoscono bene. Eccovi dunque un estratto di Morire di pena, edito da Laterza.
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La formula giapponese del successo (cinese) Deng Xiaping indicò la strada fin dalla fine degli anni ’70: il Giappone sarebbe stato la «pozione magica» della Cina. Come? Anche con la filosofia dei kaizen, i piccoli miglioramenti nei grandi processi produttivi. Che oggi spiegano perché la Cina – che assume ingegneri giapponesi in massa – è avanti con auto elettriche a basso costo ma di qualità, elettronica di consumo, macchinari industriali, treni ad alta velocità, robot. E sì, anche DeepSeek.
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La scuola identitaria Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha presentato la bozza delle nuove linee guida per i programmi scolastici delle scuole materne, elementari e medie. Insistono sulla centralità dell’Occidente, su una storia fatta da martiri ed eroi e sulla complementarietà tra uomini e donne. Elena spiega perché sono destinati a suscitare molte polemiche.
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Le profezie di Mearsheimer Chi è costui? Un illustre e controverso politologo americano, che da anni addebita all’Occidente la colpa della tragedia ucraina. Ora torna a parlare e dice che Trump fa bene a corteggiare la Russia perché è indispensabile toglierla alla Cina, il vero nemico. Guarda caso, è lo stesso argomento dei sanewasher di Trump, quelli che si sforzano di giustificarlo in ogni modo, ma che fino a ieri giudicavano abominevoli le tesi di Mearsheimer. Massimo Nava dà conto delle ultime sortite di questo apologeta del «realismo».
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Il quadro perfetto dell’amore La puntata di oggi di Capolavoro! non è solo una lezione di storia della pittura: ispirata da Marc Chagall e dal suo legame con la moglie Bella, quello che vi offre Roberta Scorranese è un vero trattato d’amore. O di ciò che può essere una coppia che si trovi senza cercarsi. Cioè senza pretendere l’incastro ideale e godendo di quello reale.
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Donne al centro Paolo Baldini racconta stavolta i tanti titoli del C-Movie Film Festival, la rassegna in corso a Rimini fino a domani. Tante storie di donne, con uno spunto più bello dell’altro.
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La Playlist della settimana Oggi, nella consueta raccolta musicale, Alessandro vi propone il lavoro solista di Panda Bear, voce degli Animal Collective, e uno strappo alla regola: non una novità ma un po’ di nostalgia, con i 20 anni di «Socialismo tascabile», degli Offlaga Disco Pax.
Buona lettura, buon ascolto e buon weekend!
(gmercuri@rcs.it, langelini@rcs.it, etebano@rcs,it, atrocino@rcs.it)
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Rassegna letteraria
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Storia di Damiano, assediato da Satana e morto suicida in carcere
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Pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice, l’estratto di un capitolo del libro «Morire di pena», di Alessandro Trocino, edito da Laterza. È la storia di Damiano Cosimo Lombardo, suicida nella Casa circondariale Malaspina di Caltanissetta il 29 ottobre 2023.
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La relazione del dottor Salvatore Bruno, psichiatra esperto incaricato dalla famiglia Lombardo, è commovente, straziante, come un’autopsia. È infarcita di un lessico tecnico – «trofismo, motilità segmentaria, riflessi osteotendinei torpidi, funzioni fasiche e prattognosiche» – ma sotto la superficie compare la sincera preoccupazione di un medico, di un uomo, per la sorte
di un altro essere umano.
Il rapporto è del 12 aprile del 2023, oltre sei mesi prima dei fatti. «Lombardo Damiano Cosimo» due giorni prima ha compiuto 28 anni e si trova nella casa circondariale di Caltanissetta. La conclusione di quel rapporto è netta, con parole perentorie: «Il signor Lombardo Damiano Cosimo risulta affetto da disturbo depressivo maggiore con componenti melanconiche psicotiche congrue ed incongrue con il tono dell’umore. Tale condizione clinica è assolutamente incompatibile con lo stato di detenzione ordinaria. In fede. Si allega test di Luescher e scala Hamilton-D».
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I tempi lunghi della giustizia si accorciano di colpo: arriva la sentenza definitiva. Il 5 luglio 2021 Damiano torna in carcere, per l’ultima volta. È distrutto dalla droga. Lo spogliano, lo ispezionano. Ha un corpo costellato di tatuaggi. Sull’avambraccio c’è l’immagine di santa Rita. Sullo zigomo, un disegno di tipo vichingo, un simbolo di protezione della famiglia. Entra subito in cura per depressione. Gli vengono prescritti un milligrammo di Xanax tre volte al giorno e cinque gocce di un ansiolitico, il Bromazepam. Ma in carcere le medicine scarseggiano.
Ci sono giorni che deve farne a meno. Ha attacchi di panico, di ansia. È in una cella con altri tre detenuti. La madre racconta che quando lo va a trovare in carcere lo vede confuso, distratto, le dice che sente le voci. È vero: qualcuno gli parla ma non sono i compagni di cella. Cosimo lo confessa anche allo psichiatra, con parole sconnesse: «Dio mi ha punito perché gli avevo promesso di comportarmi bene, ma non ho mai mantenuto la promessa. Mi sono creduto il sole e ho avuto la presunzione di comprendere Dio. Ho sbagliato a non riconoscere Gesù Cristo come Dio, ora è giusto che mi punisca. Ho paura che non finirò in paradiso, mi acchiapperà Satana». Damiano è disperato perché è convinto che Dio abbia smesso di ascoltarlo e rifiuta le sue preghiere: «Ogni volta che comincio a recitare il Padre nostro mi vengono i brividi in tutto il corpo e non riesco a continuare. È Dio che me lo impedisce, che mi odia».
Damiano prova l’istinto irrefrenabile di bestemmiare e
compie uno sforzo violentissimo per non farlo. È una battaglia cruenta, che lo lascia senza forze, esausto. A volte sente la voce di Dio: «Damiano, tu resterai solo come un cane». Quando guarda la televisione ha l’impressione che si parli di lui, che le persone lo osservino e dicano cose orrende sul suo conto. Verso febbraio del 2023, peggiora. Sente puzza di
bruciato e quell’odore tremendo, quel puzzo di carne fumante, arriva proprio dal suo corpo. Non si riconosce più. Allo psichiatra dice: «Il male mi è entrato nel pensiero». Si sente assediato, attaccato, contaminato. Teme che la sua ex compagna gli abbia fatto la fattura, chiede più volte di essere sottoposto ai servizi di un esorcista. Pensa al suicidio, vorrebbe ingoiare sostanze caustiche, perché si ricorda di una preghiera che diceva: «Gesù, lavaci con il fuoco». Un giorno si taglia con una lametta, forse accidentalmente, forse no. Vede il sangue sgorgare e si rallegra: «Sono vivo». Ma poi pensa: «Sono vivo solo fuori e morto dentro. Vorrei morire per non soffrire più». Finisce in infermeria e poi in isolamento per 15 giorni.
Vive notti da incubo. Racconta di trovarsi al cimitero di Caltanissetta o al castello di Pietra Rossa, inseguito dalle forze del male e da fantasmi che vogliono ucciderlo. Pensa che un compagno di cella sia l’incarnazione del maligno. Non vuole che si pronunci la parola «Satana», urla di rabbia quando gli chiedono se vede il diavolo. I medici lo visitano e lo trovano in discrete condizioni fisiche. Tono, trofismo e motilità segmentaria sono in ordine. Ma ha l’ittero sclerale, gli occhi giallognoli, una lingua umida e patinosa. Il fegato deborda di due dita dall’arco costale e gli fa male. È scosso da lievi tremori posturali e i riflessi sono torpidi. È affetto da stereotipie, quei comportamenti ossessivi che si notano in molti soggetti autistici: picchiettare con la gamba sul pavimento, mangiarsi le unghie, toccarsi i capelli di continuo. Ossessioni, coazioni a ripetere. Spiega di non poter controllare questi gesti, perché gli sono imposti da forze esterne. Lo psichiatra nota che talvolta la mimica facciale non corrisponde agli stati emotivi. A parole esprime tristezza, ma il volto è impassibile. Non segue fino in fondo le frasi, non riesce a stare attento, si distrae. Risponde sempre, ma non sempre in modo appropriato. Spesso sono risposte tangenziali, arrivano di traverso, si spengono. Confabula, divaga, dice cose che non portano da nessuna parte. Le sue idee sono in fuga, ma non si sa dove. Si sente indegno, in colpa, dannato. Vede ombre e ceri che si muovono. Allucinazioni acustiche e visive continue. Il suo discorso è avvolto in un contesto delirante autoreferenziale, come in
una nebbia minacciosa. Damiano, secondo il referto, è
preda di un’ansia fluttuante, che sarebbe una splendida immagine, quasi romantica, se non gli causasse come
conseguenza una marcata instabilità motoria e una pronunciata irritabilità.
Qui c’è una notazione che è interessante, perché forse si può applicare a tutti noi, al mondo di chi si percepisce «normale». Per il referto la reattività di Damiano è poco elastica, ampiamente condizionata da fattori emotivi contingenti e da elementi suggestivi indotti dai disturbi psicopatologici deliranti, con incapacità di programmazione. Secondo lo psichiatra, le condotte di emergenza sono nettamente predominanti su quelle di previsione. Viviamo in una perenne emergenza emotiva, anche senza bisogno di una cella e di sbarre che ci oscurino l’orizzonte e il pensiero.
La seconda volta che succede è più grave. È il 19
giugno del 2023 e Damiano ingerisce un detersivo per pulire il wc, Rio Azzurro. Il detergente e disincrostante al profumo di mandorla amara provoca gravi ustioni cutanee e gravi lesioni oculari. A chi lo soccorre dice di averlo bevuto per protesta. A questo punto comincia un iter sanitario che a leggerlo fa venire i brividi, anche perché succede spesso, in quella zona extraterritoriale, sottratta alla visuale del mondo libero, ma anche nei nostri pronto soccorso, negli ospedali. Alle 9.40 la sorveglianza del carcere prova a chiamare un centro antiveleni per capire cosa fare, come intervenire con quel detenuto che urla di dolore. Non risponde nessuno. Allora viene chiamato il 118 e nel frattempo gli viene somministrato un grammo di Omeprazolo. Il referto della direzione sanitaria del carcere
parla di bruciore esofageo e raccomanda una consulenza psichiatrica. Il paziente viene portato all’ospedale Sant’Elia di
Caltanissetta, dove arriva alle 10.28. È registrata come
la chiamata numero 829. L’accettazione specifica che
il paziente è in trattamento con Xanax e Haldol, un
farmaco che contiene aloperidolo e che viene usato contro la schizofrenia e nel trattamento acuto del delirio. Alle 11.45 gli viene fatta una tomografia computerizzata del torace. Subito dopo la dottoressa Silvia D. chiama il centro antiveleni di Milano, ma non risponde nessuno. Riprova con Pavia, stesso esito. Poi, ancora, alle 12, i centri antiveleni di Torino, Verona e Napoli, ma il telefono squilla a vuoto. Quattro minuti dopo prova con Bologna, anche stavolta senza successo. Alle 12.12
viene eseguita la tomografia computerizzata dell’intero
addome. Alle 13.10 viene sedato per una esofagogastroduodenoscopia, che viene fatta alle 13.54. Alle 16.36 c’è una visita psichiatrica di controllo. L’anamnesi descrive dolori addominali, le mucose orali e faringee irritate. La gastroscopia riscontra «un bolo di 0,80 di omeprazolo» e dà indicazione di nutrizione parenterale totale, ovvero attraverso un sondino, per 48 ore. Il referto, forse, contiene un lapsus: «Il
paziente esegue valutazione psichiatrica che valuta il paziente dimissibile e privo di indicazione psichiatrica, capace di intendere e di volere». Viene prescritta una terapia domiciliare, dove per «domicilio» si intende il carcere. Ma Damiano a questo punto non ne può più: rifiuta di proseguire oltre negli esami e, contro il parere del medico di guardia, il dottor Giuseppe O., firma le sue dimissioni. Lascia il Sant’Elia alle 17.23.
Le date sono importanti. Siamo al 19 giugno e sono passati poco più di due mesi dal referto. Damiano, aveva scritto il dottor Salvatore Bruno, è in preda a una depressione «anergica», chiamata dagli psichiatri hopelessly. Senza energia, senza speranza. Ha subito un restringimento a tunnel dell’orizzonte cognitivo. Non vede più nulla davanti a sé. Un lungo tubo che sfocia in un buco nero. Lo psichiatra nel testo non sa più come dirlo e lo ripete in forme diverse. C’è «una vera e propria emergenza di tipo psichiatrico», c’è «un rischio
suicidario di tipo consistente», c’è «una visione della morte come unica soluzione alle sue sofferenze». La relazione viene firmata e consegnata. In fede.
Due mesi dopo Damiano ingerisce il detersivo. Ma anche stavolta i medici ripetono che non ci sono emergenze psichiatriche. C’è anche una relazione interna, della psicologa del carcere, che assicura: il detenuto può restare tranquillamente in cella. Non ci sono emergenze. È compatibile. Se beve quel liquido lo fa in piena coscienza, consapevolmente, assumendosi i rischi. Finge di volersi suicidare, perché vuole uscire, ma noi non ci caschiamo. Tutti fingono in carcere e perché non dovrebbe fingere anche Damiano?
Sento la mamma per telefono. Concetta Panebianco
– assistita nel processo dall’avvocato Davide Schillaci –
ha la voce calma, si incrina solo un paio di volte. La sua immagine di profilo di WhatsApp è un calendario digitale: dodici mesi e dodici foto diverse del figlio Damiano: «Lo so che sono una mamma e che quindi magari non mi credete. Ma Damiano era un ragazzo fantastico. Ha sbagliato, ma soffriva. Non era un drogato, aveva smesso da anni. Se lo sono mangiato i sensi di colpa. Non ce l’ho con nessuno, ma perché non hanno capito che stava male? Perché? Perché hanno detto che fingeva?».
Sui social, nei giorni successivi alla morte, era stata meno pacata, meno generosa verso lo Stato. Aveva scritto: «Papà, sono già 11 anni che non ci sei più, ora lì in cielo c’è Damiano, stagli vicino come facevi sulla terra. La giustizia italiana l’ha ucciso. Siete senza coscienza. C’è Dio che vi darà la sua lezione. Ho detto: ti proteggerò finché non sarai cresciuto e poi continuerò a proteggerti. E invece non ti ho
protetto. Ti ho visto felice da morire e un attimo dopo ti ho visto morire».
Il giorno del funerale, il carro funebre arriverà davanti al Malaspina, circondato da un corteo di macchine. In rete c’è un video dove si sentono suonare i clacson e c’è una scritta: «Questa è la giustizia italiana, sei entrato con i tuoi piedi, sei uscito con il tabbuto». La cassa da morto.
Dopo l’episodio del detersivo, non succede nulla. Se non che qualche mese più tardi, a ottobre, Damiano scende dal letto, arrotola le lenzuola e prova a impiccarsi. Un compagno di cella se ne accorge e questa volta lo salva. Racconta la madre: «Le guardie hanno detto che fingeva, che non aveva nessun problema psichico. Ma non ci voleva la laurea per accorgersi che stava male». Lo psichiatra, comunque, ce l’aveva una laurea. E ha avvertito per tempo. Ha spiegato che Damiano non può stare là dentro, che non è compatibile, che dovrebbe essere rispedito ai domiciliari e sottoposto a un programma di
riabilitazione psichica, in una clinica, magari a Barcellona Pozzo di Gotto o a Palermo. Senza sottovalutare gli effetti positivi di un riavvicinamento al nucleo familiare.
Il 29 ottobre succedono tante cose nel mondo. Israele continua la sua offensiva a Gaza. Mosca abbatte 36 droni di Kiev. Muore Matthew Perry, l’attore di Friends. Un uomo di 35 anni, a Nembro, uccide il padre e ferisce gravemente a coltellate la madre. Damiano non sa nulla di tutto questo. Non sa nulla da molti anni. Quella notte, come altre, non dorme. Sente le voci, come gli succede da tempo, si agita sul materasso. Mentre gli altri dormono, si alza. Entra nel bagno, che è in una zona separata. Arrotola le lenzuola, come aveva già fatto pochi giorni prima. Sale su uno sgabello e le stringe, con un nodo, alle sbarre della finestra. Poi infila il collo e dà un calcio allo sgabello. Quando i compagni si svegliano, gli vedono subito i piedi, che non appoggiano per terra, sospesi per aria.
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Rassegna economica |
Kaizen, la pozione magica giapponese alla base del successo cinese. Sì, anche di DeepSeek |
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«Il Giappone è la pozione magica che serve alla Cina».
Già detto così, colpisce. Se poi si pensa a chi lo disse e quando, si possono capire molte cose che portano a oggi, a noi. Portano cioè alla crescita cinese di questi decenni, fino allo choc recentissimo di DeepSeek, la startup di Hangzhou, fondata appena nel 2023, il cui chatbot di AI (intelligenza artificiale) a fine gennaio ha spodestato ChatGPT dalla vetta della classifica delle applicazioni più scaricate sull’app store di Apple negli Stati Uniti. Gettando nel panico l’intero capitalismo americano, al pensiero che il nemico geo-strategico si fosse rivelato in grado di sviluppare una tecnologia migliore in molto meno tempo e con molti meno soldi. E non semplicemente copiando, come si tende a pensare ogni volta che i cinesi ce la fanno (nel doppio senso che riescono a fare una cosa importante e «la fanno» a noi, ovvero ci battono).
E allora: quelle parole sul Giappone sono di Deng Xiao Ping. Le pronunciò nell’ottobre 1978, durante la sua storica, prima visita nel Paese con cui fino a poco più di trent’anni prima la Cina aveva combattuto una guerra mortale. Le disse, in particolare, tre mesi dopo la firma del «trattato di pace e amicizia» tra Pechino e Tokyo; e due mesi prima che il Terzo Plenum del Comitato centrale del Partito comunista lo nominasse «leader preminente»: con poteri non assoluti come quelli di Mao, ma tali da indirizzare il Paese alla svolta.
Meno di due secoli prima, Napoleone Bonaparte aveva non a caso ammonito che c’era un gigante «da non risvegliare», altrimenti avrebbe fatto «tremare il mondo». Il gigante era la Cina, e a risvegliarlo fu Deng, un uomo minuto e visionario come il grande corso, e che dai lunghi anni trascorsi in Francia da giovane aveva tratto non solo un debole mai più domato per i croissant, ma anche una conoscenza diretta del modello occidentale e la consapevolezza che i dogmi ideologici avrebbero frenato il suo Paese. Se il comunismo aveva restituito alla Cina identità nazionale e orgoglio patriottico, la sua inflessibilità ne avrebbe reso impossibile lo sviluppo.
Da qui la conversione di Deng al pragmatismo, riassunta dalla celebre massima «non importa se il gatto è nero o bianco, finché acchiappa il topo»: non importa l’ideologia insomma, ma i risultati. Fu questa lungimiranza a rendere possibile in un ventennio la più stupefacente svolta economica mai attuata, che trasformò un Paese contadino e affamato in superpotenza globale. Per dirla con il suo biografo Ezra F. Vogel, alla fine il profilo di Deng è «semplicemente» questo: nessuno, nella storia dell’umanità, ha mai dato migliori opportunità di vita a un così alto numero di persone, e in così pochi anni.
Il gatto a cui si ispirò Deng fu dunque il Giappone, che già aveva contagiato Taiwan, Hong Kong, la Corea. Il gigante assopito era circondato da esempi virtuosi che cominciò a imitare, aprendosi al mercato e all’iniziativa privata. Le dimensioni del Paese e la globalizzazione concorsero a far crescere la Cina a una media del 9,4 per cento tra il 1978 e il 1995, dell’11,2 per cento tra il 1990 e il 1998 e appena sotto il 10 per cento tra il 1999 e il 2007, senza risentire della crisi delle Tigri asiatiche e di quella mondiale del 2000. Nel 2010 ha superato proprio il Giappone come seconda economia del pianeta.
Ora le incognite non mancano certo. La Cina è la più sofisticata e capillare dittatura della storia, e non c’è iniziativa economica che non sia sottoposta al vaglio del potere politico. La crisi del mercato immobiliare, il calo dei consumi interni e delle esportazioni, l’invecchiamento della popolazione, hanno consegnato alla storia la crescita a due cifre. Ma ogni volta che ci culliamo nell’idea che un Paese di tali contraddizioni non possa davvero superare l’Occidente, quel Paese ci ricorda le sue capacità con segnali come DeepSeek, quando pure basterebbe guardare la marche dei nostri pannelli solari, dei condizionatori e ora delle auto elettriche per farci almeno grattare la testa.
Bene: tutto questo è possibile perché, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, Deng Xiao Ping fece bere ai cinesi la pozione magica giapponese. Lo fece negli stessi anni in cui il Giappone inondava l’Occidente di suoi prodotti, ne conquistava i mercati, ne preoccupava i leader. I cinesi studiarono quindi il modello sotto ogni profilo, dagli standard produttivi necessari fino alla diffidenza e all’ostilità che il successo di quegli standard provocava tra gli importatori.
Deng Xiaoping (1904-1997)
La pozione magica aveva un nome preciso: kaizen. E ha ancora un effetto micidiale.
Cos’è, il kaizen? Alla lettera significa cambiamento per il meglio, ed è una dottrina economica talmente sensata da sconfinare nella filosofia. La sua prima teorizzazione viene generalmente attribuita a Sakichi Toyoda, il fondatore della Toyota. Il suo era un Giappone ancora segnato dalla guerra, e in un settore come quello automobilistico sfidare la produzione di massa americana sembrava impensabile. Per competere con i costruttori Usa, bisognava migliorare la produttività del 10%, minimizzando gli sprechi. Nel giro di tre anni fu in grado di sfidarli. Decisiva la cura dei dettagli: eliminazione di tempi morti, materiali mai fermi in attesa della lavorazione ma sempre in movimento, ridisegno dei reparti produttivi.
La filosofia è quella, apparentemente terra-terra, di un passo alla volta. Come racconta il sito qualitiamo, «invece di portare avanti cambiamenti radicali nei processi industriali, ai lavoratori si chiese di fare tanti piccoli miglioramenti. Ad esempio, se una linea produttiva aveva 100 processi differenti, l’obiettivo divenne quello di fare un piccolo cambiamento per ognuno di questi processi, col risultato di avere ben 100 miglioramenti, seppure piccoli».
Una piccola modifica oggi, insomma, sommata alle altre avrà un enorme impatto futuro. Il tutto presuppone un ambiente di lavoro, se non idilliaco, perlomeno predisposto a far sentire ogni dipendente partecipe, funzionale, si può osare dire importante, e non un semplice ingranaggio. Chiunque, con questo approccio, è investito del compito di apportare piccoli miglioramenti, e a chiunque ne viene dunque riconosciuta la capacità. Da questo senso di gratificazione individuale, e dal conseguente spirito di squadra, discendono un migliore controllo della qualità, processi più efficienti e anche l’agognata eliminazione degli sprechi (sì, sembra un quadretto ideale, ma basta pensare al proprio ambito di lavoro per verificare se un approccio così semplice e funzionale sia adottato con facilità, o respinto dal sussiego burocratico dei superiori, dalla mortificazione delle istanze dal basso, dalla cura dell’interesse individuale, dal mantenimento delle stesse posizioni per interi lustri, dalla routine da catena di montaggio che invece, come si vede, è estirpabile perfino da una fabbrica di auto).
Concetto fondamentale della filosofia kaizen è il gemba, che vuol dire «scena» o «postazione di lavoro»: presuppone la disponibilità assidua di chi comanda, dei manager, a fare il gemba walk, ad andare a vedere con i propri occhi i posti i cui succedono le cose, i punti reconditi della produzione, insomma i luoghi oscuri in cui si comincia a creare valore, anziché limitarsi a indicazioni astratte dall’alto che magari eseguono formalmente direttive superiori ma non ne constatano la praticabilità. Altro concetto chiave: hansei, capire i propri errori e fragilità, sforzarsi di correggerli.
Insomma, il kaizen pare l’antidoto al nostro eterno Deserto dei tartari.
Il punto è che i cinesi sembrano averlo capito più e meglio di noi. E fin da quando cominciarono a bere la pozione. Ne constatarono infatti l’efficacia sia al momento del massimo fulgore dell’industria giapponese, sia dopo, nella sua fase di deflazione, quando la riduzione di costi e sprechi divenne una formidabile espressione di arte della sopravvivenza.
Non a caso, cominciarono presto ad assumere ingegneri giapponesi. E oggi questa tendenza si sta accentuando: ne prendono tantissimi come consulenti, specializzati soprattutto in semiconduttori, ferrovie e robotica. Personale ultra-qualificato che in Giappone viene mandato in pensione piuttosto precocemente, e magari negli ultimi anni non viene gratificato, valorizzato e retribuito come i principi del kaizen richiederebbero.
DeepSeek è il risultato di tutto questo. Ha scritto Leo Lewis sul Financial Times: «I produttori cinesi, da tempo attenti ai costi e alla tecnologia, hanno analizzato il modello giapponese da vicino e hanno individuato il modo di fare proprio il kaizen. DeepSeek può rappresentare un’innovazione software, ma è un’innovazione che si regge sulle spalle di un settore hardware che avanza in modo incessante e progressivo».
Siamo abituati all’idea rassicurante che sappiano solo copiarci e raggirare le nostre imprese con accordi capestro, che alla lunga le privano di tecnologia e proprietà intellettuale. «Ma questo ha smesso da tempo di spiegare tutto», avverte Lewis. Se continuiamo a essere sorpresi dai successi industriali della Cina – le sue auto elettriche a basso costo eppure di qualità competitiva, l’elettronica di consumo, i macchinari industriali, i treni ad alta velocità, i robot – è perché «è ora all’opera una nuova versione del kaizen». E attenzione: il kaizen in versione cinese può essere molto più dirompente dell’originale, perché la Cina «ha i numeri e il talento necessari per metterlo in atto su una scala molto più ampia di quanto non abbia mai fatto il Giappone. Gli incrementi funzionano meglio quando sono numerosi». E perché siamo in un’epoca in cui la consapevolezza e il passaparola dei consumatori sono l’una più acuta e l’altro più veloce che mai: si accorgono, insomma, quando una cosa funziona meglio o peggio. E se lo dicono. Da qui il successo folgorante di DeepSeek.
La pozione magica indicata mezzo secolo fa da Deng, insomma, non ha perso potere, e anzi si arricchisce di nuovi ingredienti. Si può scegliere tra il deprecare i cinesi, l’assistere attoniti ai loro successi, il consumare meccanicamente i loro prodotti. O cominciare a imitarli nelle pratiche quotidiane dei nostri luoghi di lavoro, a piccoli passi. Come hanno fatto loro con i loro vecchi nemici.
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Rassegna culturale |
I nuovi programmi scolastici: eroi, martiri e maschi e femmine «complementari» |
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Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha presentato mercoledì la bozza con le nuove linee guida per i programmi scolastici delle scuole materne, elementari e medie. Sono le cosiddette «Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione» e si tratta di una bozza che il Ministero ha pubblicato per avviare una «fase di consultazione» con le associazioni degli insegnanti, dei genitori e degli studenti e con le organizzazioni sindacali della scuola.
«Noi vogliamo ripristinare una scuola che dia una formazione seria, di qualità ai nostri giovani» ha detto il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, alla Fortezza da Basso di Firenze, all’inaugurazione fiera Didacta dedicata a scuola e formazione. «Abbiamo dato così tanta importanza alla grammatica perché serve a instaurare relazioni efficaci e corrette. È importante la poesia, la memorizzazione. Nell’epoca di Internet si rischia di perdere l’abitudine con la memoria. La poesia è condividere emozioni fantastiche, saper accogliere anche le espressioni raffinate di chi prima di noi ha avuto quelle intuizioni e ha saputo coltivare un pensiero profondo. Il latino poi abitua alla logica, al ragionamento: ci serve per conoscere meglio la lingua italiana, esprimerci più correttamente. Ci consente di approfondire quei pilastri valoriali che sono i pilastri dell’Occidente» ha aggiunto.
Sull’Occidente sarà imperniato anche l’insegnamento della storia. «Perché è fondamentale capire chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare. Dedicheremo due interi anni delle elementari a studiare i greci e i romani e l’impatto del Cristianesimo sul mondo classico» ha spiegato Valditara intervistato da Gianna Fregonara sul Corriere (il coordinatore della Commissione che ha preparato i nuovi programmi di storia è lo storico ed editorialista del Corriere Ernesto Galli della Loggia).
Tra le maggiori novità delle nuove linee guida ci sono il latino alle medie, l’insegnamento della Bibbia accanto all’Odissea e all’Iliade alle elementari (come fonte storico/letteraria), e appunto il focus esclusivo sull’Occidente per quanto riguarda la storia. «La Bibbia come l’Iliade e l’Odissea è una grande testimonianza culturale. Penso all’Ulisse di James Joyce come ad un esempio di quanto vitale sia questa tradizione nella cultura europea. La Bibbia è a fondamento di molta parte della nostra arte, della nostra letteratura e della nostra musica. L’insegnante leggerà e commenterà con i bambini alcuni passi» ha affermato Valditara.
L’insegnamento della Bibbia è stato accolto con particolare favore dagli ambienti cattolici. «L’analfabetismo biblico, piaga diffusa in Italia, preclude infatti la comprensione di innumerevoli elementi della nostra cultura quotidiana: dall’arte all’architettura, dal linguaggio popolare alle festività» ha scritto Emanuela Buccioni su Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. «A dirla tutta, stupisce che l’inclusione non riguardi anche il secondo ciclo d’istruzione, quando gli studenti consolidano il loro bagaglio culturale, etico e critico» commenta Buccioni e aggiunge che: «È fondamentale che lo studio della Bibbia nelle scuole sia condotto da persone in grado di offrire un approccio storico-critico (come raccomandato da più di trent’anni anche dalla Pontificia Commissione Biblica), contestualizzando i testi ed evitando letture che potrebbero risultare fuorvianti, portatrici di discriminazioni o violenze».
Le nuove linee guida per l’insegnamento della storia, invece, sono state criticate da molti addetti ai lavori. «Il documento ministeriale propone cambiamenti che rappresentano un evidente passo indietro sia sul piano della visione storiografica sia su quello metodologico» scrivono l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Che contestano in particolare la «ridefinizione del curricolo attorno a un’idea di nazione ormai ampiamente superata dalla ricerca storica contemporanea; la presenza di distorsioni storiografiche che semplificano e falsano la comprensione del passato; e, infine, un arretramento delle metodologie didattiche verso un modello nozionistico e trasmissivo, in contrasto con le pratiche innovative ormai consolidate nella didattica della storia».
«La storia ridotta a strumento di costruzione identitaria nazionale rievoca impostazioni ottocentesche, ignorando decenni di studi che hanno messo in luce quanto le vicende di ogni Paese siano intrecciate con quelle del resto del mondo» scrivono gli storici dell’Istituto. «Tale impostazione rivela l’intento di piegare la narrazione storica a fini identitari: la storia diventa propaganda, strumento di assimilazione culturale e di autocelebrazione nazionale». E ancora: «Il documento ministeriale presenta il passato in forma semplificata e spesso celebrativa, ignorando il carattere plurale e problematico della ricerca storica. Si privilegiano fatti e figure eroiche funzionali a un racconto edificante della nazione, a scapito di un’analisi critica dei processi storici. Emblematico è il suggerimento di proporre già ai bambini di 7-8 anni “Racconti del Risorgimento”, cioè episodi e personaggi dell’Unità d’Italia».
Secondo l’Istituto Parri invece di insegnare ai bambini a guardare alle cose da più punti di vista nei nuovi programmi si invitano gli insegnanti a raccontare la storia come una vicenda di «eroi e martiri» che rischia di tagliare fuori la storia sociale e di lungo respiro (a partire da quella delle donne), cioè il racconto dei modi di vivere delle persone “normali” del passato.
«Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e
interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche,
è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al
centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento, svincolato da qualsiasi nozionismo così come da un inutile ricorso a “grandi temi”, disancorati dall’effettiva conoscenza degli eventi”» si legge nelle nuove indicazioni per i programmi scolastici. Ma così si presuppone che conoscere gli eventi (un aspetto fondamentale per lo studio della storia) non sia compatibile con la loro valutazione critica.
Nelle indicazioni ministeriali c’è un altro passaggio che è destinato a provocare sicure polemiche. Quello sull’«educazione alle differenze di genere». «Questo tipo di educazione – si legge nel documento del Ministero – è qualcosa di più dell’alfabetizzazione emozionale: allena bambine e bambini a “capirsi” nella complementarità delle rispettive differenze e sviluppa sani anticorpi di contrasto di quella triste patologia che è la violenza di genere».
Le linee guida proseguono affermando che: «In un mondo gravato da insicurezze e sospettosità che lambiscono i rapporti sociali e rendono complicata la comunicazione, oggi più che mai occorre promuovere fra gli studenti il senso profondo della bona fides, che anticamente costituiva il parametro per valutare la lealtà e l’onestà delle relazioni. E questo è anche il tempo in cui il diritto ad autodeterminarsi come donne, conquista del Novecento, possa finalmente giovarsi dell’impegno istituzionale alla costruzione di un nuovo patto fra i sessi da far fiorire con matura consapevolezza nelle aule delle scuole e, possibilmente, entro gli anni del primo ciclo di istruzione».
Da questo passaggio, seppur vago, sembra che il superamento della violenza di genere dipenda solo dalla «buona fede» e dalla disponibilità delle donne ormai emancipate a scendere a patti con gli uomini, senza una parola sul fatto che molti uomini si sentono ancora in diritto di esercitare varie forme di violenza sulle donne. Una parte fondamentale della prevenzione della violenza di genere è educare (maschi e femmine) al fatto che tale diritto non esiste. Ma questo nelle linee guida ministeriali non c’è
Ci sono invece espressioni molto significative che insistono sulle «differenze di genere» e sulla «complementarità delle rispettive differenze» tra maschi e femmine. Rimandano da una parte a quel femminismo della differenza che rifiuta la distinzione tra sesso e genere e si oppone al femminismo intersezionale (cioè a quello che vede le lotte per i diritti delle donne come inseparabili dalle lotte per i diritti di altre categorie discriminate sulla base del colore della pelle, della provenienza geografica, della classe sociale, dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere) e alle rivendicazioni del movimento trans.
La complementarità tra uomo e donna è invece un’idea centrale per la dottrina cattolica. Ne ha parlato diffusamente l’allora prefetto per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger (il futuro papa Benedetto XVI) nella sua Lettera ai vescovi del 2004, in cui sosteneva che «l’eguale dignità delle persone si realizza come complementarità fisica, psicologica ed ontologica, dando luogo ad un’armonica “unidualità” relazionale, che solo il peccato e le “strutture di peccato” iscritte nella cultura hanno reso potenzialmente conflittuale. L’antropologia biblica suggerisce di affrontare con un approccio relazionale, non concorrenziale né di rivalsa, quei problemi che a livello pubblico o privato coinvolgono la differenza di sesso».
L’idea della complementarità contiene ancora una volta un richiamo alle donne a stare al proprio posto (quello determinato dalle loro funzioni biologiche, in primo luogo la maternità) e a evitare ogni atteggiamento critico nei confronti degli uomini.
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Rassegna geopolitica |
Le profezie di Mearsheimer, che oggi piacciono ai trumpiani |
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Le Figaro Magazine dedica un ampio resoconto di dichiarazioni e di un’intervista a Der Spiegel di John Mearsheimer, professore all’Università di Chicago, che ha sempre sostenuto la tesi secondo cui l’Occidente e gli Stati Uniti, sotto la presidenza di Joe Biden, sono i maggiori responsabili della guerra in Ucraina. Ovviamente accusato di posizioni filo russe, vale la pena di ascoltarlo, se non altro per valutare gli argomenti di prova che adduce. Il professore sembra peraltro in totale sintonia con Donald Trump almeno per quanto riguarda il rapporto con la Russia. Da sempre sostiene che il problema dell’America e dell’Occidente è la Cina, non la Russia. E che avere favorito l’abbraccio fra Pechino e Mosca può avere conseguenze esiziali. Giusto dunque – sostiene – tentare di ricucire il rapporto con la Russia, al netto della condanna per l’invasione dell’Ucraina, ma, in fin dei conti, a discapito del popolo ucraino.
«L’Occidente è responsabile della situazione in Ucraina».
Questa frase di Mearsheimer risale al 2015. Dieci anni dopo, in un intervista al New Yorker, l’intellettuale che spesso viene presentato come colui che ha “preannunciato” l’invasione russa insiste e conferma: «Abbiamo costretto Putin a lanciare una guerra preventiva per impedire all’Ucraina di diventare membro della Nato». Mearsheimer commenta così le mosse di Donald Trump: «Sono sostanzialmente d’accordo con ciò che sta facendo. Penso che sia strategicamente saggio porre immediatamente fine alla guerra. Penso anche che sia la cosa moralmente giusta da fare. E, anche se Trump non l’ha fatto nel modo più delicato possibile, penso che sia sulla strada giusta e che ci riuscirà, spero».
Il pensiero di Mearsheimer entra a pieno titolo nella categoria delle teorie politicamente scorrette e dolorose da ascoltare per un orecchio occidentale. Già nel 1990, mentre il mondo celebrava la fine del blocco sovietico, affermava che le relazioni internazionali sarebbero rimaste segnate da crisi e violenti scontri di potere. Nel 2006 pubblica The Israel Lobby, un’analisi della rete di organizzazioni che presumibilmente influenzano la politica americana per garantire sostegno a Israele. Un sostegno che, secondo lui, va a scapito degli interessi strategici degli Stati Uniti.
Ora Mearsheimer ripete la sua tesi sulla genesi della guerra in Ucraina. Che colloca molto prima degli eventi di piazza Maidan (il movimento di protesta filo-europeo che sfociò nella rivoluzione del 2014), molto prima della fuga del presidente Yanukovich, dei referendum sulle lingue minoritarie, di quello sull’incorporazione della Crimea da parte della Russia o delle secessioni delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk. La sua tesi è la seguente: tutto inizia a Bucarest, il 3 aprile 2008, durante un vertice della Nato. Quel giorno viene rilasciata una dichiarazione: «Noi, capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Alleanza del Nord Atlantico, ci siamo riuniti oggi per ampliare la nostra Alleanza e rafforzare ulteriormente la nostra capacità di affrontare le minacce alla sicurezza esistenti ed emergenti del XXI secolo». Più avanti, al paragrafo 23, si legge: «La Nato accoglie con favore le aspirazioni euroatlantiche dell’Ucraina e della Georgia ad aderire alla Nato. Oggi abbiamo convenuto che questi Paesi diventeranno membri della Nato». Val la pena di ricordare, a questo proposito, che rispetto all’iniziativa americana si mostrarono prudenti e molti critici la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, che non nascosero i pericoli di un’escalation delle tensioni con la Russia.
Questo testo arriva pochi giorni dopo una dichiarazione, a fine marzo 2008, sul Financial Times, del presidente russo Dmitri Medvedev, che ha appena vinto le elezioni presidenziali: «Siamo insoddisfatti della situazione intorno a Georgia e Ucraina. La consideriamo estremamente preoccupante per l’attuale struttura della sicurezza europea. Nessuno Stato può rallegrarsi nel vedere rappresentanti di un blocco militare a cui non appartiene avvicinarsi ai propri confini». Successivamente si verificano gli eventi dell’inizio del 2014, che portano a un conflitto latente nel Donbass fino al 2022 e all’invasione russa. Un’invasione provocata, secondo il professore di Chicago, da Joe Biden: «Ha iniziato ad armare il Paese a un ritmo più sostenuto rispetto al suo predecessore. Risultato: tredici mesi dopo il suo arrivo alla Casa Bianca, ha ottenuto una guerra».
Colui che viene spesso accusato dai suoi detrattori di essere solo una marionetta della propaganda russa, precisa a Der Spiegel di essere in realtà «molto legato all’Ucraina». E aggiunge: «Non voglio vederla distrutta. Proprio per questo, all’inizio degli anni ’90, ho sostenuto che l’Ucraina doveva conservare le sue armi nucleari e poi, per anni, che non doveva in alcun modo tentare di aderire alla Nato. Se gli ucraini avessero seguito il mio consiglio, oggi l’Ucraina sarebbe intatta».
E l’Europa in tutto questo? «Il presidente Trump e il vicepresidente Vance disprezzano gli europei», dice al settimanale tedesco. «L’intervento di JD Vance a Monaco è stato accuratamente orchestrato e mirava a umiliare gli europei e a rimetterli al loro posto. Sono certo che Vance abbia svolto un ruolo chiave in questo processo. Si è impegnato da tempo a porre fine alla guerra in Ucraina e a ridurre notevolmente la presenza americana in Europa».
Mearsheimer aggiunge: «Gli americani hanno chiaramente indicato che l’Europa non dovrebbe fare certe cose nei confronti della Cina. E in particolare: non scambiare tecnologie sofisticate con i cinesi». Ma deplora l’ostilità dell’amministrazione verso i partner degli ultimi 80 anni: «Se gli americani si ritirano dall’Europa, perderemo la nostra influenza sull’Europa in questa questione cruciale. Penso che Trump commetta un errore denigrando le istituzioni e trattando i suoi alleati con disprezzo».
E commenta le speranze di una possibile unificazione europea se gli Stati Uniti abbandonano il Vecchio Continente: «I membri dell’UE hanno interessi sia contraddittori che comuni. Quando gli europei si muovono in un mondo in cui gli americani sono al comando, fanno essenzialmente ciò che vogliono gli americani, e l’Europa appare quindi come uno Stato-nazione a tutti gli effetti. Ma è un miraggio».
Mentre gli Usa dettano il ritmo dei negoziati di pace e l’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, è arrivato a Mosca per presentare il piano americano di una tregua di trenta giorni, Mearsheimer ritiene che il presidente americano potrà far firmare un accordo solo se saranno soddisfatte tre condizioni. Innanzitutto, che l’Ucraina rimanga neutrale, senza far parte della Nato e senza beneficiare delle garanzie di sicurezza occidentali; che accetti di cedere una parte significativa del suo territorio nella parte orientale del Paese; che si smilitarizzi per non essere più percepita come una minaccia per la Russia. Condizioni che fanno eco alle “riserve” evocate giovedì da Vladimir Putin, che ha accennato alla proposta degli americani. «Trump deve accettare queste condizioni e raggiungere un accordo con i russi», ritiene il professore. «Ma poi viene la parte più difficile: ottenere l’accordo degli europei, e soprattutto degli ucraini».
Quanto alle preoccupazioni degli europei sulle ambizioni di Putin al di là dell’Ucraina, dice: «Putin non è in grado di conquistare l’intera Ucraina, né gli altri Paesi dell’Europa orientale, e tanto meno quelli dell’Europa occidentale. La sua armata lotta da tre anni per conquistare l’Ucraina orientale».
Insomma, nonostante gli sviluppi degli ultimi tre anni, John Mearsheimer rimane fermo sulle sue posizioni, che sono state fortemente criticate. I prossimi mesi mostreranno se la storia gli darà ragione o se, come alcuni pensano, la sua analisi è solo il frutto di una lettura distorta e selettiva delle dinamiche e degli eventi. «Durante quello che è stato chiamato il “momento unipolare”, che è durato dal 1991, anno del crollo dell’Unione Sovietica, fino alla prima investitura di Trump nel 2017, molti hanno sostenuto che fossi un dinosauro», ha concluso a Der Spiegel. «Le mie idee realistiche, si diceva all’epoca, erano superate, pertinenti nel XVIII secolo ma ormai obsolete. Oggi è chiaro che il realismo è vivo e vegeto».
Nell’intervista a New Yorker aveva detto : «Non è così che funziona il mondo. Quando si cerca di creare un mondo che assomigli al nostro, si finisce per ottenere le politiche disastrose che gli Stati Uniti hanno perseguito durante il momento unipolare. Abbiamo girato il mondo cercando di creare democrazie liberali. Il nostro obiettivo principale, ovviamente, era il Medio Oriente, e sapete come è andata a finire. Non molto bene. La mia tesi è che l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, sono i principali responsabili di questo disastro».
E la Russia? «La Russia non è una seria minaccia per gli Stati Uniti. Siamo di fronte a una seria minaccia nel sistema internazionale. Siamo di fronte a un concorrente di pari livello. E questo è la Cina. La nostra politica in Europa orientale sta minando la nostra capacità di affrontare la minaccia più pericolosa che abbiamo di fronte oggi. Dovremmo occuparci della Cina. E dovremmo fare gli straordinari per ricreare relazioni amichevoli con i russi. I russi fanno parte della nostra coalizione di bilanciamento contro la Cina. Se vivete in un mondo in cui ci sono tre grandi potenze – Cina, Russia e Stati Uniti – e una di queste grandi potenze, la Cina, è un concorrente alla pari, quello che dovreste fare se siete gli Stati Uniti è avere la Russia dalla vostra parte. Invece, quello che abbiamo fatto con le nostre politiche insensate in Europa orientale è stato spingere i russi nelle braccia dei cinesi. Questa è una violazione dell’ABC della politica dell’equilibrio di potere».
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Rassegna dell’arte (Capolavoro!) |
Chagall, gli amanti in volo e quell’idea di rischio che si annida in ogni amore sano |
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Esattamente quarant’anni fa, il 28 marzo, uno dei più grandi artisti del secolo scorso, Marc Chagall, moriva a Saint-Paul-de-Vence in Costa Azzurra. Aveva 98 anni, la sua vita era stata lunghissima e piena di cose: colori, persone, dolore, esilio, ritorni, ricordi, scritti. Ma soprattutto la sua era stata una vita piena di amore, ed è la sua stessa pittura a testimoniarlo, in un dettaglio che non sfugge a chi ama questo artista: negli autoritratti Chagall non si dipinge quasi mai da solo, c’è sempre un profilo femminile o anche solo un animale a completare la sua figura.
E «completare» è il verbo che maggiormente denota l’idea di amore coltivata da Marc, nato Moishe Segal nel 1887 a Lëzna, nei pressi di Vicebsk, una città di lingua yiddish in Bielorussia, un tempo parte dell’Impero russo. Basta leggere le bellissime parole che nella sua autobiografia dedica a Bella Rosenfeld, la donna che sposò nel 1915 e che amò fino alla scomparsa di lei nel 1944: «Il suo silenzio è il mio. I suoi occhi, i miei. È come se mi conoscesse da tanto tempo, come se sapesse tutto della mia infanzia, del mio presente, del mio avvenire […] Sento che è lei la mia donna. Il suo colorito pallido, i suoi occhi. Come sono grandi, tondi e neri! Sono i miei occhi, la mia anima». Bella e Marc, Marc e Bella: per anni sono stati un’unica onda di abbracci, voli sulla città, passeggiate oniriche, corpi contorti in un abbraccio amoroso.
«Sopra la città», 1918
E Sopra la città, il Capolavoro di oggi, potrebbe essere un piccolo romanzo pittorico sull’amore secondo Marc. Eseguito nel 1918, oggi si trova nella galleria Tretyakov di Mosca e rappresenta una delle versioni più famose degli «amanti in volo», iconografia alla quale Chagall ha dedicato diverse opere. Al di sopra di un profilo urbano con case immerse nella natura, si elevano due corpi, uno maschile e uno femminile. Salta subito all’occhio una cosa: non è chiaro se sia lui a sorreggere lei o il contrario. I confini tra i due sono talmente sfumati che paiono un solo corpo leggero, aereo, amoroso. È stato così anche nella loro vita: Bella non ha mai rappresentato lo stereotipo scontato della «musa» per l’artista, bensì è stata una presenza attiva, vibrante, uno stimolo costante. Sin dall’inizio, quando si conob
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