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Il Punto del Corriere della Sera a cura dell’Agenzia “Cronache”, direttore Ferdinando Terlizzi

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martedì 18 marzo 2025

La lettera del Papa al Corriere e le ore decisive per la tregua in Ucraina

Papa Francesco, Papa Francesco nell’unica foto resa pubblica dopo il ricovero al Policlinico Gemelli

editorialista

di   Luca Angelini

Buongiorno.

Caro direttore,
in questo momento di malattia la guerra appare ancora più assurda. La fragilità umana ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità. Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità. Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità.

Così, in una lettera scritta dal Policlinico Gemelli di Roma (dove resterà ricoverato ancora per diversi giorni, nonostante i lievi miglioramenti), papa Francesco si è rivolto al direttore del CorriereLuciano Fontana.

E il momento non potrebbe essere più attuale. Sono ore decisive. Oggi, con l’annunciata telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin capiremo se davvero, come ha ripetuto anche ieri la Casa Bianca, «non siamo mai stati così vicini alla pace». O almeno a un cessate il fuoco. Se poi quel cessate il fuoco si rivelerà un primo passo per «rendere concreta la pace in un contesto internazionale ove sono prevalse spinte aggressive, in Ucraina come in Medio Oriente» (come ha auspicato anche ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della Festa dell’Unità d’Italia) o non invece un accordo sulla testa di Kiev che avvicinerà quello che Aldo Cazzullo continua a considerare l’obiettivo finale di Putin («Fare dell’Ucraina un Paese vassallo»), è l’altra grande incognita.

Da Kiev, Lorenzo Cremonesi scrive che, in Ucraina, non sono in pochi a temere, sia negli ambienti di governo che tra i commentatori locali, che il presidente Usa possa «svendere» la causa ucraina in cambio di accordi economici bilaterali privilegiati e di cooperazione strategica con Mosca. «Il Kyiv Post sottolinea che lo stesso Mike Waltz, consigliere per la Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca, durante una conferenza stampa domenica ha dimostrato di sposare in modo acritico la precondizione russa, per cui gli ucraini dovranno accettare subito “la realtà della situazione sul campo”, che significa piegarsi al compromesso territoriale. Il media ucraino ricorda che i dirigenti del Cremlino più di una volta hanno detto di considerare “irrinunciabili” le province ucraine della “Novorossiya”, che nella loro lettura comprendono non solo le intere quattro regioni che adesso controllano solo parzialmente — Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia — ma a cui devono aggiungersi anche le zone di Mykolaiv, Odessa e persino Dnipro. In pratica tutto il sud-est del Paese». Il ministro degli Esteri ucraino Andriy Sybiha ha indicato ieri quelli che sono per Kiev gli aspetti «non negoziabili»: «L’Ucraina non riconoscerà mai i territori occupati; secondo, nessun Paese ha il diritto di mettere il veto sulla scelta degli ucraini di unirsi ad alcuna alleanza, che si tratti dell’Unione europea o della Nato».

Il presidente americano, tornando a Washington da Mar-a-lago, ha fatto qualche anticipazione dall’aereo presidenziale, ma piuttosto vaga. Nella telefonata con Putin, ha detto, «parleremo di territori, parleremo di impianti energetici, perché questo è un grosso tema. Ma ci sono molte cose che sono state già discusse da entrambi i lati. Dall’Ucraina e dalla Russia, abbiamo già parlato con loro di dividere certi beni». (Secondo qualche media Usa, Trump sarebbe pronto a riconoscere, ad esempio, l’annessione russa della Crimea)

Qualcos’altro ha aggiunto, alla CbsSteve Witkoff, che ha incontrato Putin a Mosca giovedì scorso. Putin accetta «la filosofia di Trump» sul porre fine alla guerra. Alla domanda su quanto tempo ci potrebbe volere per arrivare ad un accordo, Witkoff ha citato Trump, che ha detto che ci vorranno settimane: «Non sono in disaccordo con lui». Poi ha aggiunto che gli americani intendono continuare a tenere colloqui separati con le delegazioni ucraina e russa questa settimana.

Se si arrivasse a un cessate il fuoco, di 30 giorni o quanti saranno, ci sarebbero in ogni caso due problemi. Il primo, più immediato, l’ha evidenziato lo stesso Putin: chi sorveglierà che la tregua non venga violata e segnalerà chi sia, nel caso, a trasgredirla? In genere, per compiti del genere vengono inviati contingenti di Paesi che non sono in alcun modo coinvolti nel conflitto. Il secondo riguarda le «garanzie di sicurezza» che l’Ucraina – comprensibilmente, visti i precedenti – continua a chiedere in caso di un trattato di pace, ossia: chi e come garantirà Kiev contro il rischio di una nuova invasione russa negli anni a venire? Ed è soprattutto qui che l’Europa e la «coalizione dei volenterosi» tenuta a battesimo dal premier britannico Keir Starmer potrebbero rientrare nella partita.

In che modo, Giuseppe Sarcina lo spiega così: «Da mesi il leader ucraino, Volodymyr Zelensky, tramontata l’ipotesi di accedere quanto prima alla Nato, chiede un robusto dispiegamento di militari stranieri come deterrente nei confronti di Putin. Meglio se europei, ma non necessariamente europei. (…) Nel gruppo dei “volenterosi” si sta segnalando l’attivismo di Anthony Albanese e di Christopher Luxon, premier rispettivamente di Australia e Nuova Zelanda. I due leader hanno già comunicato a Starmer, Macron e Zelensky la disponibilità a partecipare a una forza di interposizione in Ucraina». Certo i due Paesi sono stretti alleati di Stati Uniti e Regno Unito, con i quali, insieme al Canada, costituiscono i «Five eyes», gruppo che si scambia le più importanti informazioni di intelligence. Però, pur avendo sempre appoggiato l’Ucraina, non fanno parte della Nato. Finora per loro era stato ipotizzato un ruolo marginale, di semplice supporto. «Lo scenario, però – spiega Sarcina – potrebbe cambiare rapidamente, anche per la spinta che arriva dalla Turchia». Anche Erdogan ha difeso il diritto all’integrità territoriale dell’Ucraina, ma, pur aderendo all’Alleanza Atlantica, si è proposto come mediatore tra Mosca e Kiev. «Il presidente turco ha risposto positivamente all’appello di Starmer e Macron, ma a condizione di ottenere una posizione paritaria nella pianificazione militare e nella struttura di comando. Ecco allora che da una missione interamente nelle mani dei generali britannici e francesi (piano A) potremmo passare a una configurazione più corale (piano B). Ci sarebbe una guida a rotazione semestrale o annuale tra Regno Unito, Francia, Turchia e forse anche Australia. Il risultato sarebbe quello di diluire il peso degli europei». Secondo alcuni analisti, come i generali Vincenzo Camporini (qui l’intervista concessa a Rinaldo Frignani) e Giorgio Battisti, conclude Sarcina, potrebbero essere coinvolti anche altri Paesi, come India o Egitto, finora rimasti fuori dal perimetro dei «volenterosi».

Primo piccolo particolare: il Cremlino continua a considerare la presenza di truppe europee in Ucraina sostanzialmente come una dichiarazione di guerra.

Secondo piccolo particolare: l’Unione europea non sta esattamente marciando «come un sol uomo». Su quello che Sarcina ha chiamato il piano A, un contingente guidato dai britannici e dai francesi, con il contributo di Olanda, Lituania, Lettonia Estonia e (forse) Germania, Finlandia e Belgio, dopo Italia e Spagna si è sfilata, a sorpresa, anche la Polonia. Motivo? Il timore è di trovarsi imbarcati in una missione velleitaria, senza la copertura giuridica dell’Onu e, soprattutto, senza lo scudo militare degli Stati Uniti. Ma i Ventisette, segnala Francesca Basso da Bruxelles, sono divisi anche sulle quote dei contributi per gli aiuti a Kiev. A mettersi di traverso, sul piano da 40 miliardi di aiuti presentato dall’Alta rappresentante per la politica estera Ue Kaja Kallas, non è soltanto la solita Ungheria. «Uno degli aspetti del piano che ha sollevato dubbi, soprattutto tra i grandi Paesi – spiega Basso – è la scelta della chiave di ripartizione in base al PilTra gli scettici ci sono Italia, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Malta e Cipro». «Valuteremo con grande attenzione il piano Kallas» – ha assicurato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, aggiungendo che il contributo dell’Italia sarebbe di «4-5 miliardi» e invitando a tenere presente che «noi dobbiamo anche raggiungere l’obiettivo del 2% della Nato e c’è il piano per la sicurezza della presidente von der Leyen».

Le divisioni italiane

Non sono quelle di militari da inviare sul terreno, visto che il governo resta contrario, ma le divisioni dentro la maggioranza e nell’opposizione. La premier Giorgia Meloni, anticipa Marco Galluzzo, arriverà oggi in Parlamento con un’intesa su una risoluzione unitaria da presentare al Consiglio europeo di giovedì. «Sarà articolata in 12 punti, ma stando alla larga da tutti i temi divisivi, senza citare le iniziative di Francia e Inghilterra sull’ipotesi di un contingente militare europeo, accontenterà la Lega nel ribadire che la Ue non ha bisogno solo di un programma che si chiami ReArm, piuttosto di un programma più vasto, che comprenda anche altri ambiti strategici, per esempio la cybersecurity. Poi la risoluzione, che farà riferimento anche a temi strategici come la competitività europea e la riconversione industriale di settori in crisi, insisterà su almeno due parole che mettono tutti e tre i leader d’accordo: imprescindibilità del ruolo degli Stati Uniti, anche depotenziato, in qualsiasi scenario, legato o meno alla crisi Ucraina, e altrettanta imprescindibilità del ruolo della Nato, dunque Alleanza atlantica centrale in qualsiasi contesto post crisi. Nella forza delle relazioni transatlantiche, infatti, Meloni e Salvini non hanno difficoltà a trovare un denominatore comune, e altrettanto vale per Forza Italia. E ovviamente, nella bozza che è circolata ieri sera, si fa un riferimento esplicito, per il post crisi fra Russia e Ucraina, se ci si arriverà, al ruolo delle Nazioni Unite».

Quanto alle opposizioni, oltre alla «concorrenza» sempre più netta fra Movimento 5 Stelle e Pd (che Roberto Gressi condensa in un «Elly e Giuseppe all’ultima sfida, che promette di protrarsi fino al giorno prima delle elezioni politiche, senza sapere se ci sarà alleanza o meno»), va avanti il tentativo dei dem di ricucire la lacerazione provocata dal voto all’Europarlamento sul ReArm Europe. L’aggiornamento di Maria Teresa Meli è questo: «Nel weekend spiravano ancora venti di guerra nel campo dem, ma ieri sia maggioranza che minoranza hanno compreso che andare allo scontro, proprio in questo momento, sarebbe stato solo “un favore alla destra”». Probabile, quindi, che stavolta i gruppi parlamentari non si spacchino sulla risoluzione da presentare oggi in Aula.La situazione resta comunque quella dipinta da Massimo Franco nella sua Nota: «I tormenti simmetrici della premier Giorgia Meloni e della segretaria del Pd, Elly Schlein, trasmettono una sensazione speculare e inedita. E cioè che per la prima volta le leader dei due maggiori partiti, di governo e di opposizione, si trovino a fare i conti con le contraddizioni della loro politica estera. È chiaro che per Palazzo Chigi il tema è più spinoso, perché Meloni guida il Paese». (Qui l’analisi di Federico Fubini «Perché l’Italia non sa scegliere tra l’Ue e Trump: 500 milioni di dosi di vaccino buttati in Europa e le 7 verità a cui gli elettori hanno diritto»)

A tutti, governo e maggioranza, stamattina Mario Draghi, sempre in Parlamento, in un’audizione informale alle commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato, ricorderà le sfide che attendono l’Europa, facendo una sorta di aggiornamento a 6 mesi dalla sua prima «scossa» al Vecchio Continente. Innovazione, transizione energetica, difesa restano le scommesse per un cambiamento radicale diventato ancora più necessario.

Le nomine Rai

Scrive Antonella Baccaro che «comincia a delinearsi la vera Rai a trazione centrodestra. Dopo l’anno di interregno di Roberto Sergio, arrivato in corsa nel 2023, in un consiglio di amministrazione con ancora gli equilibri precedenti, il successore, l’amministratore delegato Giampaolo Rossi (FdI), ha completato il suo pacchetto di nomine». L’ufficialità dovrebbe arrivare nel cda di giovedì, ma il quadro sembra essere delineato: «Forza Italia, che soffre ancora la mancata conferma della presidente designata Simona Agnes, con questo schema avanza di una casella, conquistando Rainews24, con Federico Zurzolo. Un raddoppio per gli azzurri cui rimane anche il Tg2. Paolo Petrecca (FdI), sfiduciato dalla redazione di RaiNews24 approda a Rai Sport (dove gestirà i grandi eventi sportivi, come Milano-Cortina), lasciata libera da Iacopo Volpi, pensionato. Nicola Rao (FdI) passa dalla direzione Comunicazione (dove sale Fabrizio Casinelli) al Giornale Radio, da luglio, quando Francesco Pionati (Lega) andrà in pensione. Confermati gli attuali interim di Roberto Pacchetti (Lega) alla Tgr, e Pierluca Terzulli al Tg3 ( M5S/Avs). Infine a Rai Italia approda Maria Rita Grieco (FI), al posto di Fabrizio Ferragni, pensionato».

Le altre notizie

  • «A causa della continua mancanza di fiducia, ho deciso di presentare una proposta al governo per porre fine al mandato del capo dello Shin Bet, Ronen Bar». Benjamin Netanyahu ha annunciato così il licenziamento del numero uno dei servizi segreti interni israeliani nominato nel 2021 e destinato a ricoprire l’incarico fino al 2026. Non era mai successo nella storia di Israele. Le tensioni tra Netanyahu e Bar erano già in atto prima del 7 ottobre 2023, in particolare a causa di una proposta di riforma della giustizia che aveva scatenato massicce proteste nel Paese qualche mese prima. «Staremo dalla parte giusta», aveva detto all’epoca Bar. I rapporti tra i due si sono deteriorati ancor di più dopo la pubblicazione, il 4 marzo, dei risultati di un’indagine sulla carenza nella trasmissione di informazioni di intelligence che avrebbero potuto allertare le autorità sulla portata dell’attacco di Hamas contro Israele. «Ma il vero motivo dietro la decisione – scrive da Gerusalemme l’inviata Marta Serafini – starebbe nelle indagini di Bar su diversi importanti collaboratori di Netanyahu coinvolti nel “Qatargate israeliano” e pagati dal Qatar mentre gestivano la delicata politica di negoziazione degli ostaggi per il primo ministro». Non è chiaro se Netanyahu riuscirà a licenziare Bar: il provvedimento deve essere vidimato dal gabinetto di governo in settimana, e l’opposizione ha già annunciato un ricorso alla Corte Suprema.

  • La guerra commerciale di Donald Trump rischia di frenare la crescita mondiale e di riaccendere l’inflazione Usa. Nelle sue previsioni, l’Ocse taglia le stime sul Pil mondiale, che nel 2025 aumenterà del 3,1%, lo 0,2% in meno rispetto a quanto indicato a dicembre. Nel 2026, si fermerà al 3%, lo 0,3% in meno (la crescita era stata del 3,2% nel 2024). Quasi tutti i Paesi esaminati frenano, rispetto alle previsioni di pochi mesi fa, quando il presidente statunitense non si era ancora insediato alla Casa Bianca. Risalgono, invece, le stime sull’inflazione americana, vista al 2,8% nel 2025, lo 0,7% in più. Per l’Italia, la crescita del Pil si fermerebbe allo 0,7% quest’anno (-0,2%) e resterebbe sotto l’1% anche il prossimo (allo 0,9%, con un taglio delle previsioni dello 0,3%). La Germania registrerebbe una crescita dello 0,4% nel 2025 e dell’1,1% nel 2026. L’Ocse conferma invece le stime di crescita della Cina, al 4,8% quest’anno e al 4,4% nel 2026. Da notare che l’Ocse ha tenuto in considerazione solo i dazi già decretati da Trump (ad esempio contro Canada e Messico) ma non quelli, finora soltanto promessi, contro i Paesi Ue.

  • Lo ha seguito passo passo in chat, fino a quando Andrea si è ucciso. Indicazioni continue e pressanti su Telegram per essere sicuro che il suo contatto telematico, che aveva riposto in lui una fiducia pressoché sconfinata, arrivasse a togliersi la vita. Particolari sconvolgenti che emergono dalle indagini sulla tragica fine di Andrea Prospero, studente 19enne di Lanciano (Chieti), iscritto alla facoltà di Informatica dell’università di Perugia, trovato morto il 29 gennaio scorso in un b&b del capoluogo umbro. Ieri la svolta nelle indagini: la squadra mobile perugina ha arrestato con l’accusa di istigazione al suicidio un 18enne romano, ora ai domiciliari, mentre un suo coetaneo, che vive ad Afragola, in provincia di Napoli, è indagato per spaccio di farmaci. Sarebbe stato lui a vendere a Prospero i prodotti a base di ossicodone e benzodiazepine che hanno causato il decesso.

  • Ancora una tragedia in montagna. Ancora vittime tra gli scialpinisti. Dopo i due morti nel Bellunese, ieri ha perso la vita, per il distacco di una slavina sul versante trentino dell’Adamello, un escursionista tedesco 49enne che stava sciando fuoripista. Altri due scialpinisti, un 36enne bresciano e un 51enne tedesco, sono finiti in ospedale. Il primo è grave, in rianimazione a Trento.

  • Una rivolta cittadina, le dimissioni del sindaco, gli arresti. Dopo il rogo nella discoteca che sabato notte ha provocato 59 morti — quasi tutti adolescenti e giovani tra i 14 e 24 anni — a Kocani, la città teatro della strage in Macedonia del Nord, l’atmosfera è tesissima. Ieri mattina è esplosa la rabbia. Centinaia di persone, radunate davanti al municipio, hanno assaltato e distrutto un bar e un’auto appartenenti al proprietario del «Pulse» — il locale incendiato per l’esplosione di materiale pirotecnico durante un concerto — e che figura tra le persone finora arrestate.

  • I documenti sull’assassinio dell’ex presidente americano John Fitzgerald Kennedy saranno pubblicati oggi. Ad annunciarlo è stato lo stesso Donald Trump, parlando di circa 80 mila pagine che saranno messe a disposizione. Documenti che il presidente ha definito «interessanti». E poi ha aggiunto: «Abbiamo una quantità enorme di documenti, ci sarà molto da leggere. Non credo che censureremo nulla. La gente li aspetta da decenni».

  • È morto, a 91 anni, lo storico Lucio Villari, a cui si devono, in particolare, importanti lavori di ricerca sul capitalismo e sul nostro carattere nazionale. Sul Corriere lo ricordano Antonio Carioti e Paolo Conti.

Da leggere e ascoltare

Il reportage dell’inviata Marta Serafini nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, «l’altro fronte di Israele».

La «guerra» di Trump alle università in cui ci sono state manifestazioni pro palestinesi, raccontata dalla corrispondente Viviana Mazza.

L’intervista di Enrico Marro al ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo.

L’editoriale di Antonio Polito «Una luce (offuscata) sul mondo»: «Quella luce globale, la capacità della democrazia americana di essere un faro di civiltà per il mondo intero, che la presidenza Trump ha già considerevolmente offuscato».

L’intervento di Dacia Maraini «Difendere l’Europa, che ci ha dato tanto».

 

 

L’analisi di Giampaolo Silvestri, segretario generale di Avsi, «Cooperazione, tra tagli e falsità».

 

La rubrica Frammenti di Ferruccio de Bortoli: «Gli occupati crescono per il solo effetto della riforma Fornero?»

 

 

Il corsivo di Ernesto Galli della Loggia «Servizi, mercato e tormenti telefonici».

 

L‘inserto Buone Notizie.

 

Nel podcast «Giorno per giorno», Fulvio Fiano racconta gli ultimi sviluppi della vicenda del 19enne Andrea Prospero, trovato morto suicida a Perugia. Viviana Mazza parla delle difficoltà della Columbia University di New York, alla quale Donald Trump vuole tagliare 400 milioni di dollari di fondi. Francesco Battistini parla delle proteste in Serbia contro il presidente Vucic e di un’area europea nuovamente in ebollizione.

 

Il Caffè di Gramellini
Tutti tranne Totti

Chissà cos’avrà pensato il buon Totti nel vedere i cartelloni pubblicitari con la sua gigantografia e lo slogan in cirillico «l’Imperatore sta arrivando nella terza Roma». «La terza? Ho sempre giocato titolare nella prima: ti pare che all’età mia, mi rimetto a fà la gavetta?», gli sarà scappato, e giustamente. Invece per i russi la terza Roma è Mosca (la seconda era Costantinopoli, la quarta un cantiere che finirà tra un paio di Giubilei), dove l’8 aprile Totti dovrebbe essere ospite di un premio organizzato da un sito di scommesse. Ora, sarà che la parola «boicottaggio» mi ha sempre dato l’orticaria (come la parola «scommesse», peraltro), ma pur pensandola su Putin diversamente da capitan Salvini, non me la sento di unire la mia flebile voce al coro di chi esorta il Capitano, quello vero, a disertare l’evento perché si svolge in territorio nemico. E non solo per la banale ragione che non considero i russi, in quanto tali, miei nemici. È che mi sembrerebbe di infierire. Ma come, Pupo sì e il Pupone no? Conte, non mi riferisco all’allenatore, a Mosca ci andrebbe di corsa, magari facendo il giro largo da Pechino, e senza neanche pretendere di farsi precedere da cartelloni imperiali. Ma la lista dei potenziali turisti della democrazia è lunga e accidentata come un ragionamento del professor Orsini. Se non ci vanno è solo perché nessuno li invita. Ma allora che senso ha impuntarsi proprio su Totti, che al massimo salirà sul palco per raccontare una barzelletta su sé stesso? Ditemi se non è invidia, questa.

Grazie per aver letto Prima Ora e buon martedì

 

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Le 7 verità nascoste (agli italiani), la geopolitica allo specchio, le schiave dei sauditi, il colonialismo delle terre rare, la Cinebussola

Il colonialismo delle terre rare, la Cinebussola 
editorialista
di   Gianluca Mercuri

 

Bentrovati. Ecco il menu di oggi:

 

 

  • Scettici e ignari Le analogie tra Covid e i rischi di guerra: per esempio, il fatto che una certa fascia della popolazione nega/rimuove, e una certa fascia di politici ci specula su. Ma anche la ragione per cui l’Italia preferisce galleggiare tra Trump e l’Europa. E 7 verità nascoste sistematicamente agli elettori. L’analisi di Federico Fubini (tratta dalla sua newsletter Whatever it Takes: è gratis per gli abbonati e ci si iscrive qui) unisce i punti e apre le menti.

  • Geopolitica e narcisismo Ai tempi del Covid la maggior parte di noi – per fortuna – si è affidata alla scienza e al verbo dei virologi, diventati confidenti, amici e star. O, per dirla con Aldo Grasso, «un format vivente a reti unificate». Ora che siamo in tempi di guerra, Alessandro, che i virologi li intervistò tutti, nota che pendiamo dalle labbra dei geo-politologi, indagatori del presente e aruspici (non sempre precisissimi) del futuro (d’altronde, diceva Gianni Brera, i pronostici li sbaglia solo chi li fa).

  • Le domestiche schiave dei sauditi Molte donne africane vanno a lavorare nel Regno che custodisce i luoghi sacri dell’Islam sperando di trovare una vita migliore e di mantenere le loro famiglie lontane. Spesso trovano solo abusi e violenze, se non la morte, come rivela un’inchiesta del New York Times. È una forma moderna di schiavitù, racconta Elena.

  • Metodo Trump Se vuoi una cosa me ne devi dare un’altra in cambio. Gli esperti lo chiamano «approccio transazionale»: il primi a sperimentarlo brutalmente sono stati gli ucraini, che hanno dovuto cedere metà delle loro terre rare agli Usa per non farsi consegnare (del tutto) a Putin. Ora funziona anche al contrario: il presidente della Repubblica Democratica del Congo ha chiesto protezione a Trump in cambio di un’ampia quota delle sue materie prime. Indovinate la risposta di Donald. Massimo Nava lo chiama, comprensibilmente, colonialismo. Una vecchia pratica che sa sempre aggiornarsi.

  • La Cinebussola Il mix tra Roma e Pechino funziona già dal titolo: in La città proibita, Gabriele Mainetti gioca le stesse carte dei film precedenti, Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out. Ed è un gioco che diverte Paolo Baldini.

Buona lettura.

(gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it; nella foto Ap in apertura, passeggeri su una scala mobile della metropolitana di Kiev)

Whatever it Takes

Perché l’Italia non sa scegliere tra Trump e l’Europa: 7 verità nascoste (e la lezione del Covid)

editorialista

Federico Fubini

Una notizia per cominciare: i Paesi dell’Unione europea hanno distrutto almeno 131,7 milioni di dosi di vaccini per il Covid, ma il dato reale dev’essere senz’altro più elevato. Verosimilmente vicino ai 500 milioni. Come faccio a saperlo? Ho verificato con la Commissione europea e i 22 governi (su 27) che rappresentano quasi il 99% della popolazione dell’Unione. Ho chiesto loro quante dosi avevano comprato, quante ne avevano utilizzate, quante ne avevano donate a Paesi terzi e quante ne avevano distrutte poiché scadute nei magazzini a due anni dalla loro produzione.

Mi hanno risposto cinque Paesi su 22: Italia, Polonia, Finlandia, Bulgaria e Austria (grazie per la trasparenza). Tutti e cinque hanno distrutto molte più dosi di quante ne abbiano donate. L’Italia ha ufficialmente destinato allo «smaltimento» 46,8 milioni di dosi – al costo medio di 16,7 euro l’una – ma il dato reale potrebbe essere più alto: non si sa molto di un quantitativo di 13 milioni di dosi inviate ai magazzini delle regioni. L’Austria, con una popolazione di poco più di nove milioni di abitanti, ha distrutto 25 milioni di dosi. Nel complesso questi cinque Paesi rappresentano il 26% della popolazione europea e hanno lasciato scadere, appunto, 131,6 milioni di dosi (in gran parte di vaccini Pfizer e Moderna). Se questa fosse la media dell’Unione europea nel complesso – inclusi i 17 Paesi che non hanno risposto alla mia richiesta scritta – allora sarebbero state distrutte poco più di 500 milioni di dosi, acquistate a un costo presumibile di circa 8,5 miliardi di euro. La stessa Commissione europea, all’epoca della pandemia protagonista degli ordini per gli acquisti congiunti, ha risposto in modo vago rimandando alle capitali nazionali.

Ora però una preghiera a coloro che hanno cavalcato per anni l’onda dell’ostilità ai vaccini: per favore, astenetevi dal brandire questi dati come una presunta conferma delle vostre tesi. Non lo è. Il numero di dosi di vaccino per il Covid acquistate nell’Unione europea arriva a poco meno di due miliardi, almeno un miliardo e mezzo fra queste sono state inoculate e hanno salvato milioni di vite (oltre che milioni di posti di lavoro e migliaia di miliardi di euro di prodotto interno lordo, favorendo il ritorno della ripresa economica). Non è poi affatto certo che le dosi distrutte avrebbero potuto andare in gran parte ai Paesi emergenti o in via di sviluppo che non ne avevano, perché almeno alcuni di quei Paesi mancavano dei sistemi di conservazione e trasporto nelle celle frigoriferi. La campagna vaccinale in Europa è stata comunque un successo. Eppure contiene una lezione per l’Europa che oggi si trova in un’altra emergenza, stavolta sulla difesa. Vediamo.

Naturalmente la storia della pandemia non ha niente a che fare con ReArm Europe, l’iniziativa sulla quale la Commissione di Ursula von der Leyen presenterà un «libro bianco» a giorni. Ma le due hanno dei punti in comune: la necessità di dotarsi di una protezione collettiva in Europa perché la minaccia è comune, il carattere straordinario e costoso dell’operazione, l’esigenza di coordinarsi e progredire in fretta anche sul piano tecnologico, il ruolo di von der Leyen come potenziale regista (la presidente della Commissione proporrà di centralizzare alcuni acquisti di ReArm Europe a Bruxelles).

Ci sono però anche altri punti di contatto fra Covid e ReArm. C’è il rischio che l’urgenza generi nei leader ansia di mostrare che stanno facendo qualcosa, qualunque cosa; quindi, provochi scelte imprecise e da correggere. Soprattutto, ora come allora, una parte della popolazione non capisce. È scettica, sospetta esagerazioni e falsità. È sensibile alle sirene degli imprenditori del caos e della disinformazione, magari loro sì sospinti da potenze ostili.

Quanto a questo, la lezione dei vaccini conta eccome. E l’Italia è particolarmente esposta. Mentre i leader politici e militari europei si riuniscono sempre più spesso per parlare di riarmo, difesa comune, contingenti per l’Ucraina o ombrello nucleare, l’Italia si tiene in parte ai margini e gli italiani restano in gran parte scettici. Non credono che l’emergenza sia reale come viene descritta. Dopo la fine della trentennale pax americana in Europa e nel mondo, in Italia si profila l’aspirazione a una nuova forma di neutralità. Nando Pagnoncelli lo ha mostrato sabato sul Corriere un sondaggio Ipsos: il 57% non si sente schierato né con la Russia né con l’Ucraina, mentre tre anni fa solo il 38% non stava da nessuna delle due parti, mentre una maggioranza era con Kiev (la tendenza è presente fra gli elettori di tutte le principali forze). Quanto al ReArm Europe di von der Leyen, una maggioranza relativa si dice contraria e anche il sostegno degli elettorati più favorevoli – gli italiani che votano per Fratelli d’Italia e per il Pd, di solito agli antipodi – risulta debole. Gli italiani non capiscono perché serva irrobustire così tanto la difesa europea o nazionale, temono lo si faccia a spese delle loro pensioni o della sanità.

Soprattutto, siamo peculiari nel confronto con il resto dell’Europa occidentale. Lo mostra un sondaggio dello European Council on Foreign Relations, con risposte raccolte fra novembre e dicembre scorsi. Siamo i più propensi a rispondere che l’Ucraina «non fa parte dell’Europa» (50%). Siamo fra i meno propensi (dopo ungheresi e bulgari) a rispondere che la responsabilità della guerra è della Russia; e siamo fra i più propensi a ritenere (sempre subito dopo quei due Paesi) che la Russia sia «un partner necessario». Quanto all’idea di proseguire nel supporto militare dell’Ucraina fino a che abbia recuperato l’integrità territoriale, siamo fra i meno favorevoli (di nuovo dopo ungheresi e bulgari).

L’implicazione è che in Italia un’ampia parte della società non vede il senso di un’accelerazione sulla difesa, perché non percepisce una minaccia. La Russia non si occuperà di noi e comunque la sua armata non è così temibile, dato che si è lasciata impantanare dagli ucraini. Una corrente sostanziale nel Paese in fondo pensa semmai che si potrebbe lasciare l’Ucraina a Vladimir Putin in cambio di un accordo e, dopotutto, se anche questi dovesse poi attaccare i Paesi baltici, non dovrebbe essere affar nostro.

L’errore – si pensa – è stato portare i confini della Nato e dell’Unione europea così vicini a Mosca. C’è nostalgia della Guerra Fredda e delle sue tutele, unita oggi a un desiderio di sostanziale neutralità. Vogliamo essere una Svizzera del 21esimo secolo, aperta a tutti e impegnata con nessuno?

Queste opinioni fanno dell’Italia un’eccezione in Europa, mentre l’evoluzione in Germania, Francia, Gran Bretagna o Polonia è diversa. Di certo esse influenzano i principali partiti. La premier Giorgia Meloni è fredda su un nuovo finanziamento a Kiev per la difesa e sulla partecipazione italiana a una forza europea che dia qualche garanzia all’Ucraina, presupposto perché Kiev accetti un armistizio. La leader del Pd Elly Schlein è fredda sul piano di riarmo europeo, anche se l’ombrello americano ormai si è richiuso e su di esso sarà difficile contare anche in futuro: al meglio, significa affidare ogni quattro anni la nostra sicurezza agli umori di poche decine di migliaia di elettori della Georgia o della Pennsylvania. In queste condizioni l’Italia oggi è, al più, quinto Paese in Europa per peso politico: appunto dopo Germania, Francia, Gran Bretagna e Polonia (ma anche gli scandinavi collettivamente contano ben più di Roma).

Il desiderio diffuso nel Paese di chiudersi in un piccolo mondo antico si respirava tanto alla manifestazione «per l’Europa» di piazza del Popolo a Rome, quanto nel tentativo di Meloni di organizzare un vertice euro-americano: forse si farà – chissà – ma la rottura fra le due sponde ormai resta strutturale. Eppure, queste opinioni fra gli italiani sono comprensibili. Alcuni faticavano ad accettare vaccini e lockdown quando la minaccia del Covid era dirompente nelle loro vite: sorprende che dubitino della fine della tutela americana e della minaccia russa quando i missili volano su Kiev, non su Milano?

Questi italiani hanno dunque diritto ad alcune verità che la politica, con la sua tendenza a infantilizzare gli elettori, di rado offre. Eccone sette.

1. L’Italia viene da una lunghissima posizione di rendita che ha pochi paragoni al mondo.
Dai dati del centro studi Sipri si vede come, nella media dal dopoguerra, la spesa militare italiana annua (2,07% del prodotto lordo) è la più bassa fra i 22 Paesi strategicamente più importanti al mondo dopo Giappone, Finlandia, Spagna e Cina. Ma per il Giappone è stata una scelta forzata, mentre Cina e Finlandia oggi sono in situazioni del tutto diverse. In sostanza veniamo da un’anomalia lunga sette decenni, che consideriamo normalità. Ma la protezione americana oggi è saltata: come il caso ucraino insegna, non è affatto chiaro a quali condizioni gli Stati Uniti offrirebbero la loro protezione antimissile, satellitare o nucleare.

2. In Italia c’è un dibattito acceso, quasi uno scontro, fra il mondo della difesa e il resto del sistema politico. Il primo, in linea con le analisi nel resto d’Europa, è certo che Putin oggi cerchi due anni di pausa per poi tornare ad attaccare tanto l’Ucraina che i Paesi baltici: l’obiettivo per il Cremlino è dimostrare che le promesse di difesa reciproca fra Paesi Nato saranno tradite; quindi, la Nato di fatto non esisterebbe più e la strada sarebbe aperta per riscrivere la carta d’Europa emersa dalla fine della guerra fredda. Fiona Hill, fra i massimi esperti di Russia al mondo, con un passato nell’intelligence americana e nel team di Trump nel 2017-2021, spiega su Foreign Affairs in questi giorni come la stabilità del potere di Putin dipenda ormai dal continuo perseguimento di un regime di guerra: la stessa scarsità risultati in Ucraina, a fronte di un prezzo umano immane per i russi, spinge il dittatore a proseguire per dimostrare che ne valeva la pena. Il mondo politico italiano invece, in linea con gran parte dell’opinione pubblica, non accetta quest’analisi. Ma in gioco c’è la qualità delle scelte industriali nel settore della difesa nei prossimi anni.

3. Se l’Ucraina cedesse, il Cremlino conquisterebbe potenzialmente il controllo del secondo esercito più armato e più dotato di effettivi in Europa (oggi un milione di uomini) dopo quello stesso della Russia.

4. Una parte importante delle difese antimissile per l’Italia oggi si trova nelle basi Nato in Romania. Se alle elezioni presidenziali in Romania vincesse un fantoccio di Putin, ciò non sarebbe certo positivo per la sicurezza nazionale italiana.

5. Gli attacchi in Europa in questi anni sono avvenuti in maniera ibrida, ma violenta. Secondo la Nato, c’è la Russia dietro un attentato alla vita dell’amministratore delegato del campione tedesco della difesa Rheinmetall, Armin Papperger (un’accusa respinta da Mosca). L’uso del Novichok da parte di agenti russi ha rischiato di uccidere accidentalmente molte persone a Salsbury, Inghilterra, nel 2018. Dal 2022 si contano decine di altri attacchi e incendi a centro logistici in Germania, cyberattacchi e tagli di cavi sottomarini nel Baltico per cui Mosca è sospettata. Secondo Fiona Hill, i russi potrebbero danneggiare i gasdotti sottomarini da Paesi terzi, per ricreare dipendenza dell’Europa dalle forniture di Gazprom. L’aggressione oggi non avviene solo mandando carri armati dall’altra parte di un confine.

6. L’esercito russo mantiene 1.800 effettivi e molto materiale in Libia. Il regime di Bengasi, guidato da Khalifa Haftar, versa a Mosca un affitto fra 100 e 200 milioni di dollari all’anno per la protezione radar e antimissile assicurata dalle forze di Mosca.

7. Poter contare sulla protezione nucleare di Parigi e di Londra implica co-finanziarne il costoso mantenimento e sviluppo. Parigi e Londra non accetterebbero altrimenti di garantire per la sicurezza del territorio italiano o tedesco, dato che una possibile ritorsione dell’avversario implica – secondo la dottrina nucleare – l’esporsi alla distruzione di una città francese o britannica. Tutto questo è più attuale ora che il declino della tutela americana incoraggia alcuni Paesi a dotarsi, per deterrenza, della propria atomica: in Polonia, il dibattito viene lanciato dal governo.

 

 

Tutto questo, ripeto, con i vaccini Covid non c’entra. Se non per un punto: in una crisi, gli italiani di solito non capiscono cosa non viene loro spiegato dai politici, ma avvertono quando stanno ricevendo solo versioni parziali o edulcorate. Dunque sospettano, negano, si ritraggono. Una posizione di rendita dell’Italia nella difesa era tollerata quando in Europa ne godevano più o meno tutti, durante la pax americana. Oggi, se la difesa è europea, non sarebbe più così.

 

(Questo articolo è tratto dalla newsletter settimanale «Whatever It Takes» di Federico Fubini)

Rassegna internazionale
Dai virologi agli analisti geopolitici, il nuovo narcisismo ci seppellirà
editorialista
Alessandro Trocino

Ai tempi del Covid, ci fu l’improvviso insorgere nel firmamento della comunicazione di strani personaggi in camice bianco che all’inizio sembravano impartirci messe rassicuranti e gonfie di buon senso, poi si trasformarono rapidamente in maschere litigiose, provocando in un’opinione pubblica frastornata dall’eccesso di lievito e di solitudine un comprensibile disorientamento e un rigurgito di fastidio che rotolò inopinatamente dai soloni fino alla classe medica più operativa, il proletariato della professione, passato in un baleno dall’acclamazione di eroi al sospetto di connivenza con i tenutari della fantomatica dittatura sanitaria. Passata la guerra metaforica del Covid, siamo finiti dentro quella ancora più pressante e reale dell’Ucraina, con tutti i risvolti geopolitici scaturiti dal duo tragico Putin-Trump, dalla dissoluzione dell’Occidente e dall’avanzare dei totalitarismi. In mezzo, noi, spaesati. E come ci eravamo affidati, speranzosi e ingenui, alle certezze degli scienziati della medicina (meglio loro dei negazionisti), così ci abbandoniamo alla narrazione affascinante e altrettanto incomprensibile degli analisti geopolitici, ermeneuti del presente e aruspici del futuro. Se prima scrutavamo inquieti i grafici con le curve differenziali e integrali per scovare il maledetto picco, punto di ritorno alla speranza del plateau, così ora guatiamo mappe astruse e ci inoltriamo in scivolose riflessioni storiche sul doloroso ritorno delle grossraum, sfera di influenza, e del lebensraum, spazio vitale. Un giorno ci sveglieremo e ci chiederemo, come Nanni con Otelo de Carvalho: Mikhail Podolyak, chi era costui? E Kursk, dove si trovava poi?

Ma oggi ci siamo dentro e ci affidiamo a loro, i nuovi guru, i nerd delle carte geografiche, usciti dagli uffici polverosi nei quali erano confinati, proprio mentre i virologi sparivano, resuscitati solo dalle livorose commissioni Covid. Ora sono loro, le nuove star in tv e sui giornali. Portatori sani di una sapienza sconfinata, detentori di una cultura storica imparabile, hanno la meglio grazie all’acribia dei dettagli e delle date sullo sparuto drappello di politici che prova ad arginarli nei talk show.

Lucio Caracciolo è forse il più celebre. Postura rassicurante, pullover sotto la giacca, toni misurati, sguardo sardonico, sussiego ponderato, il fondatore di Limes si tiene distante dagli estremismi retorici di un Marco Travaglio (ma anche di Alessandro Orsini o Fabio Mini), ma lavora incessantemente a smantellare la narrazione occidentale antiputiniana. Nipote di un generale e barone partenopeo, dopo un’inizio da redattore a «Nuova Generazione», periodico dei giovani del Pci, lavora per anni da cronista politico a Repubblica, prima dell’intuizione: fondare una rivista di geopolitica. Rivendica un approccio non ideologico, di relativismo necessarioA Luca Telese ha spiegato che lui sì è di sinistra, ma che Limes non è lo è affatto: «Non ha un punto di vista politico. La geopolitica non è politica e non deve diventarlo. Devi capire le ragioni e le motivazioni di tutti i contendenti».

Che la geopolitica non sia politica è una frase impegnativa, da segnare sul taccuino. Quanto alla geopolitica, non c’è una definizione univoca. Caracciolo nel 2018 la definì così: «È l’analisi dei conflitti di potere in spazi e tempi determinati. Per questo incrocia nel suo ragionamento competenze e discipline diverse: dalla storia alla geografia, dall’antropologia all’economia e altre ancora. Non è scienza: non possiede leggi, non dispone di facoltà predittive. È studio di casi specifici». Barbara Loyer replicava così nel 2020 a chi pensava che il compito di questa disciplina fosse prevedere il futuro: «Non si tratta di indovinare il futuro in una sfera di cristallo, ma di provare a anticipare ciò che potrebbe accadere, gli scenari possibili secondo i contesti e le strategie degli attori».

Per noi che amiamo la scienza, anche quella medica, nonostante le baruffe chiozzotte dei tempi del Covid, è un po’ una delusione che la geopolitica esuli dal campo scientifico. Però è un sollievo se pensiamo a certe previsioni. Come quelle dello stesso Caracciolo che per settimane giurò che la Russia non avrebbe mai e poi mai invaso l’Ucraina e che si trattava solo di propaganda americana, che «enfatizzava la minaccia, favorendo la destabilizzazione dell’Ucraina». Di recente, Caracciolo se n’è uscito a Otto e mezzo con una frase che ha spiazzato molti: «Abbiamo dentro la Nato le posizioni più diverse possibili. Abbiamo ungheresi e Slovacchia che più o meno stanno con Putin. Abbiamo i Paesi baltici che vorrebbero invadere la Russia. Abbiamo i turchi che mediano. Insomma ce n’è per tutti i gusti». Ohibò, i Paesi baltici pronti a invadere la Russia? Ma non è il contrario? Gli esegeti di Caracciolo spiegano che si trattava di un raffinato paradosso, di un’arguzia geopolitica che noi ascoltatori comuni evidentemente non siamo in grado di cogliere. Del resto, per mesi analisti geopolitici turbo atlantistici hanno spiegato che l’Ucraina era a un passo dal debellare la Russia, che le sanzioni avevano atterrato Mosca, che Putin non aveva più soldati per combattere, né occhi per piangere. Non è andata proprio così.

Il nuovo Caracciolo si chiama Dario Fabbri. Abbiamo imparato a conoscerlo nelle prime settimane di guerra, con la presenza fissa da Enrico Mentana, che è poi diventato il suo editore nella rivista «Domino». L’esperto venuto dal nulla ha una quasi laurea alla Luiss («ho preferito abbandonarla all’ultimo anno per concentrarmi sulla geopolitica») e da «orgoglioso autodidatta» è l’inventore della sedicente «geopolitica umana». Si tratta di una disciplina che privilegia lo studio e l’influenza delle aggregazioni umane rispetto al ruolo dei leader, «ritenuti irrilevanti, mero prodotto della realtà che pensano di determinare». Con sguardo corrucciato, e uno stile sobrio che evoca alla lontana un Saviano meno espressivo, Fabbri sfoggia un sapere analitico e distillato, tenuto sotto vuoto rispetto all’emotività delle passioni politiche. Con una sprezzatura che maschera l’inevitabile narcisismo di chi si arroga la facoltà di dirci come andrà a finire e ci compatisce un po’, per la nostra ignoranza.

Ma è interessante leggerlo soprattutto su Domino, dove esibisce una lingua scolpita e immaginifica, erudita e lisergica, che inebria il lettore. Nell’ultimo numero, dedicato ai Balcani, leggiamo ammirati e rapiti «i popoli gemmati da sé medesimi», «i turchi ritornanti che ascendono», «l’antica Illiria da cui traluce movente sutura». Fabbri, mettendo sadicamente a dura prova la pazienza del lettore, si inoltra nei bassopiani sarmatici, nei «valacchi dotati di camaleontismo disorientante», canta le lodi della «scrittura glagolitica, antenata di quella eponima» e si dilunga sulla «dominazione altaica, stinta di tattico sincretismo». E poi i toschi, gli arbinatai, i bosgnacchi, il fiume Shkumbini, il Trimarium, il rotacismo (qui un nostro sussulto, a evocare la rotacizzazione della dentale intervocalica della «Vita agra»), la «diffusione culturale ancirana», i gheghi, la Rumelia, il basileus, l’Islam «antipodale alla mongola madrepatria». Tra le pieghe del suo intricatissimo racconto umano (troppo umano), si intravede il sottile disprezzo del’autodidatta secchione per il volgo, ma anche per gli altri analisti concorrenti non umani. Fabbri spiega infatti che le evoluzioni dei popoli balcanici sono «episodi attraversati da un notevolissimo senso per il grottesco, ovviamente studiati quaggiù come dispute dottrinali». Ovviamente. Ma se qui è solo un accenno di dileggio, risulta quasi uno schiaffo a mano aperta la successiva accusa sull’interpretazione delle attuali rivolte di Belgrado: «Migliaia di giovani e meno giovani, urbani e rurali, reclamanti un governo meno corrotto, ovvero filoccidentale secondo vulgata dei nostri circoli del tennis».

La conclusione della sua introduzione riserva un altro colpetto alla nuca a noi che ci abbeveriamo a tutte le stupidaggini che ci arrivano fuor di Domino: «In questi giorni l’Occidente intero, neanche a dirlo il nostro paese, si dedica ai pronunciamenti, ai tic, agli sguardi di Donald Trump o di Elon Musk. Preso da batticuore per strali pressoché irrilevanti». Ah sì? E noi che nei nostri circoli del tennis ci eravamo agitati, dannati creduloni: «Chissà se qualcuno ha notato che quasi nessun editto della Casa Bianca ha vero effetto – principale eccezione, la grazia concessa ai golpisti del 2021».

Evidentemente non abbiamo capito bene e non sta succedendo quel che sembra: e cioè il licenziamento di migliaia di funzionari e persone sgradite al governo, lo smantellamento del ministero dell’Istruzione americana, la deportazione illegale degli oppositori, la fine di Usaid e di diversi trattati internazionali, le trivelle del «drill, baby drill», lo stop alle auto elettriche, la fine dei programmi Dei, l’uscita dall’accordo di Parigi sul clima, l’abbandono dell’Europa al suo destino, e molto altro ancora, a cominciare dall’erosione costante e profonda dei fondamenti della democrazia americana. Ma Fabbri è oltre, veggente e guida: «Non tutto ciò che appare conta. Più complicato è occuparsi di cosa respira sotto il velo della propaganda, ma che può condurre altrove le nostre vite – non su Marte».

Non su Marte? Boh. Comunque, (pre)dice Fabbri che il collasso dei Balcani è imminente, «nell’ignavia del nostro Paese, uso guardare a Bruxelles o alla Luna, tanto vale più o meno lo stesso». Conclusione: «Difficile agire in contumacia di sé, non riconoscendo gli strepiti in avvicinamento». Noi si rimane in contumacia, sui campi da tennis, ma non senza leggere con interesse e preoccupazione Limes Domino.

Rassegna dei diritti

Le domestiche africane ridotte in schiavitù in Arabia Saudita

editorialista

Elena Tebano

Se si cerca «domestica» e «Arabia Saudita» in inglese su internet compaiono subito migliaia di pagine con offerte di lavoro e lo stipendio che si può guadagnare. Per molte donne dei Paesi poveri, in particolare dell’Africa orientale, la promessa di un lavoro nel Regno saudita rappresenta il miraggio delle opportunità di vita che non trovano a casa loro. La realtà però è molto diversa dalle promesse e molte di queste donne devono affrontare orari di lavoro estenuanti, ricatti economici, violenze fisiche e sessuali. In alcuni casi persino la morte, come svela un’inchiesta del New York Times che ha intervistato oltre 90 donne e le loro famiglie in Arabia Saudita, Kenya e Uganda. E che ha ricostruito le forme di una moderna schiavitù, spiegando come la tratta delle domestiche avvenga spesso con la complicità dei loro governi e delle autorità saudite.

«Mentre viaggiavamo attraverso il Kenya e l’Uganda, dai quartieri urbani affollati e poveri ai villaggi agricoli più lontani, abbiamo sentito molte variazioni della stessa storia dell’orrore: Donne giovani e in salute che partono per lavori domestici in Arabia Saudita, per poi tornare picchiate, sfregiate o nelle bare» scrivono Justin Scheck e Abdi Latif Dahir. «Almeno 274 cittadini kenioti, quasi tutte donne, sono morti in Arabia Saudita negli ultimi cinque anni. Almeno 55 sono morte solo l’anno scorso, il doppio rispetto all’anno precedente. Le autopsie hanno sollevato altri interrogativi. Il corpo di una donna proveniente dall’Uganda presentava estese ecchimosi e segni di bruciature con l’elettricità, eppure la sua morte è stata etichettata come “naturale”. Abbiamo trovato un numero sorprendente di donne cadute da tetti, balconi o, in un caso, dall’apertura di un condizionatore».

Il New York Times ha esaminato le autopsie di donne ugandesi e keniote trovate morte in circostanze dubbie e con segni di violenza, i cui decessi non sono mai stati indagati dalle autorità saudite perché registrati come non sospetti. Una è stata ritrovata morta «naturalmente» in un serbatoio dell’acqua, dopo che aveva chiamato la famiglia in Kenya piangendo perché il datore di lavoro aveva minacciato di affogarla in un serbatoio dell’acqua. Le donne sopravvissute raccontano di orari di lavoro superiori alle 14 ore al giorno, paghe trattenute o ridotte, deprivazione del sonno, percosse, violenze sessuali e minacce. Più donne hanno riferito che le persone per cui lavoravano hanno gettato loro addosso la varechina o le hanno costrette a immergerci le mani per punizione. Altre che sono state sequestrate per punizione e sono fuggite solo saltando dalle finestre. O che il datore di lavoro le ha stuprate e rimandate a casa quando sono rimaste incinte.

 

 

Sono racconti simili a quelli fatti nei decenni scorsi dalle migranti di altri Paesi che hanno lavorato in Arabia Saudita, soprattutto asiatiche. Nel 2010 ha fatto scalpore il caso di una donna dello Sri Lanka di 49 anni che ha dovuto essere operata nel suo Paese per rimuovere i chiodi e i frammenti di metallo che i “datori di lavoro” le avevano conficcato a martellate nel corpo perché si era lamentata del lavoro eccessivo. Aveva lavorato per loro solo 5 mesi, secondo Human Rights Watch.

«Circa 1,5 milioni di lavoratrici domestiche, provenienti principalmente da Indonesia, Sri Lanka e Filippine, lavorano in Arabia Saudita. Queste lavoratrici, considerate in patria come “eroine moderne” per rimesse in valuta estera che guadagnano, in Arabia Saudita ricevono meno tutele rispetto ad altre categorie di lavoratori, esponendole a gravi abusi con poche o nessuna speranza di riparazione. I lavoratori domestici sono meno di un quarto degli otto milioni di lavoratori stranieri in Arabia Saudita, ma le ambasciate dei Paesi che inviano manodopera riferiscono che gli abusi contro le lavoratrici domestiche rappresentano la stragrande maggioranza delle denunce che ricevono» spiegava nel 2008 un rapporto di Human Rights Watch, che si intitolava significativamente «Come se non fossi umana». «Mentre molte lavoratrici domestiche godono di condizioni di lavoro dignitose, altre subiscono una serie di abusi, tra cui il mancato pagamento degli stipendi, la reclusione forzata, la privazione del cibo, l’eccessivo carico di lavoro e casi di gravi abusi psicologici, fisici e sessuali. Human Rights Watch ha documentato decine di casi in cui la combinazione di queste condizioni equivaleva a lavoro forzato, tratta o condizioni simili alla schiavitù».

 

 

Questi abusi sono resi possibili dalle leggi saudite sull’immigrazione, che prevedono la cosiddetta kafala, un sistema per cui il permesso di soggiorno dei lavoratori immigrati è legato a uno sponsor, di solito il datore di lavoro, che paga per le loro spese di viaggio e di sostentamento. Se i migranti perdono lo sponsor perdono anche il permesso di soggiorno. «Il sistema di solito ricade sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno, piuttosto che di quello del Lavoro, per cui i lavoratori spesso non godono di alcuna protezione ai sensi del diritto del lavoro del paese ospitante. Questo li rende vulnerabili allo sfruttamento e nega loro diritti come la possibilità di partecipare a una causa di lavoro o di iscriversi a un sindacato. Inoltre, poiché i visti di lavoro e di residenza dei lavoratori sono collegati e solo gli sponsor possono rinnovarli o terminarli, il sistema conferisce ai privati cittadini,- anziché allo Stato, il controllo sullo status giuridico dei lavoratori, creando uno squilibrio di potere che gli sponsor possono sfruttare» spiega il think tank americano Council on Foreign Relations.

 

Dopo una serie di inchieste e cause sugli abusi in Arabia Saudita che hanno suscitato scalpore, alcuni Paesi, come le Filippine, sono riusciti a ottenere condizioni di lavoro migliori per le loro cittadine. Nel 2012 il governo filippino ha firmato un accordo con le autorità saudite che impone un salario minimo di 400 dollari al mese per le colf filippine, garantisce loro l’accesso a un conto in banca su cui viene versato lo stipendio e vieta la confisca del passaporto. Per il Kenya e l’Uganda queste condizioni non valgono e gli stipendi medi sono più bassi, sotto i 250 dollari al mese.

 

I governi dei due Paesi considerano le rimesse provenienti dalle immigrate in Arabia Saudita un’importante fonte di introiti per i loro Paesi e spingono perché aumentino. Ogni anno centinaia di migliaia di donne del Kenya e dell’Uganda partono per l’Arabia Saudita dopo aver trovato un posto di lavoro tramite agenzie specializzate. Arrivano dalle zone più remote e povere dei loro Paesi, vengono reclutate dalle agenzie locali che offrono loro una formazione di base (con corsi di arabo e lezioni per imparare a usare gli elettrodomestici) e ricevono un biglietto di sola andata per l’Arabia Saudita.

 

 

«Le agenzie di reclutamento e i loro intermediari forniscono informazioni fuorvianti sui salari e fanno firmare ai lavoratori contratti che non sanno leggere. Alcune agenzie commercializzano le donne come prodotti. I siti web delle agenzie offrono lavoratrici “in vendita” a clienti sauditi. Ne abbiamo visto uno che prevedeva l’opzione “aggiungi al carrello”. Quando le donne arrivano nel regno, i datori di lavoro spesso confiscano i loro passaporti e i loro effetti personali. Le governanti keniote in Arabia Saudita lavorano per circa 250 dollari al mese. Ma molte donne ci hanno raccontato che i loro nuovi padroni le hanno trattate male o hanno negato loro il salario, dichiarando: “Ti ho comprato”» spiegano i giornalisti del New York Times.

Secondo il quotidiano le autorità dei Paesi coinvolti non hanno alcun interesse a combattere gli abusi perché beneficiano di quel sistema. Il vicepresidente della Commissione parlamentare per il lavoro keniota, Fabian Kyule Muli, possiede un’agenzia che invia domestiche in Arabia Saudita. «La commissione si è talvolta schierata a favore dell’invio di più persone in Arabia Saudita e ha negato che i lavoratori vengano danneggiati» scrive il New York Times. Anche uno dei consiglieri del presidente del Kenya William Ruto è l’ex proprietario di un’agenzia di questo tipo (il fratello del consigliere ne ha tuttora una). Lo stesso succede in Uganda, dove il presidente Yoweri Museveni ha un fratello, Sedrack Nzaire, proprietario di un’agenzia che invia domestiche nel Paese arabo. «In Arabia Saudita, i membri della famiglia reale, compresi i discendenti di Re Faisal, sono stati i principali investitori nelle agenzie che forniscono lavoratori domestici. Anche alti funzionari sauditi ricoprono posizioni di alto livello nelle agenzie di collocamento» scrive il New York Times.

 

 

Non stupisce che le donne che riescono a denunciare gli abusi sul lavoro in Arabia Saudita raramente trovino ascolto e aiuto.

 

Rassegna geopolitica

Dall’Africa ai Balcani, dalla Groenlandia all’Ucraina, il colonialismo delle terre rare

editorialista
Massimo Nava

 

Se le terre rare – minerali fondamentali per la rivoluzione tecnologica – sono diventate il nuovo petrolio, è molto probabile che contribuiranno a ridisegnare la geopolitica del mondo, sconvolgendo alleanze e provocando nuove guerre e tensioni. Cambia il “prodotto”, la Storia si ripete. Lo si vede in Ucraina, dove il prezzo della pace è la spartizione delle ricchezze del sottosuolo fra Stati Uniti e Russia (per la parte del Paese conquistata), in barba agli ideali di democrazia e alla gloriosa resistenza di un popolo invaso. Ma non c’è solo l’Ucraina. Il presidente Donald Trump ha messo nel mirino la Groenlandia, accarezzando l’ipotesi di una “partnership artica” con la Russia. E anche l’Africa si muove in questa direzione: terre rare in cambio di protezione, armi, investimenti.

È di questi giorni l’iniziativa del presidente della Repubblica democratica del Congo (Rdc) Félix Tshisekedi, che ha offerto agli Stati Uniti e all’Europa una maggiore partecipazione alle vaste ricchezze minerarie del suo paese in cambio di sanzioni e sopratutto protezione contro il Ruanda, il battagliero vicino che da anni fomenta rivolte e organizza invasioni nella zona dei Grandi Laghi, fonte di preziose risorse.

 

 

In pratica, le terre rare diventano arma diplomatica e nuova forma di colonialismo, se si considera peraltro che la Rdc è stata storicamente saccheggiata da belgi e francesi. L’offerta è allettante in quanto il paese detiene oltre la metà delle riserve mondiali di cobalto, utilizzato nei veicoli elettrici e in aeronautica. Fornisce inoltre gran parte del coltan mondiale, utilizzato per alimentare smartphone e computer. Inoltre, sottolinea Bbc Africa, la Rdc possiede risorse ancora inesplorate, tra cui cobalto stesso, oro e rame. Secondo stime, il valore totale di queste risorse minerarie da sfruttare è stimato in 24 mila miliardi di dollari.

 

 

L’offerta aprirebbe le porte ad americani ed europei in un’aerea ormai da tempo sotto influenza cinese. Il problema è che la Ue ha anche approvato investimenti in Ruanda per ragioni analoghe: stagno, tungsteno e oro. Inoltre il Ruanda, un tempo amico della Francia, si è molto avvicinato a Usa e Gran Bretagna.

La mossa del presidente congolese è motivata da ragioni di sicurezza. Le periodiche offensive del Ruanda, che dispone di milizie e armamenti molto efficienti e meglio equipaggiati, hanno provocato nel corso degli anni centinaia di migliaia di vittime ed esodi di massaPaul Kagame, da trent’anni al potere in Ruanda, ha ricostruito il Paese dopo il genocidio, governa con il pugno di ferro e non nasconde mire espansionistiche nei Paesi vicini.

 

 

Secondo la stampa congolese e internazionale, Tshisekedi e Donald Trump sarebbero già pronti a firmare un accordo volto a offrire l’esclusiva delle materie prime della Rdc alle società americane. Secondo Media Congola proposta riguarderebbe un «accesso esclusivo ai minerali strategici congolesi e ai progetti infrastrutturali, in cambio di assistenza in materia di sicurezza contro i ribelli del M23 sostenuti dal Ruanda».
Sarebbe in gioco anche il controllo operativo dello strategico porto di Banana, situato sulla sponda nord della foce del fiume Congo, nell’Oceano Atlantico. Il che faciliterebbe l’esportazione dei minerali. Bbc Africa sottolinea l’ampio lobbying congolese a Washington, la proposta avanzata dal Consiglio delle imprese Africa-Stati Uniti al Segretario di Stato americano, Marco Rubio, a nome di un senatore congolese. Il possibile accordo includerebbe una «partnership economica e militare». Washington addestrerebbe soldati congolesi «per proteggere le vie di approvvigionamento dei minerali». Washington potrebbe sostituire «le inefficaci operazioni di mantenimento della pace dell’Onu con una cooperazione diretta in materia di sicurezza tra gli Stati Uniti e la Repubblica Democratica del Congo».

 

 

Segno del crescente interesse dell’amministrazione Trump per la situazione congolese, vari media segnalano che il presidente americano potrebbe nominare Massad Boulos inviato speciale per la regione dei Grandi Laghi. L’uomo d’affari, di origine libanese, è anche il suocero di sua figlia, Tiffany Trump. Boulos, che ha lavorato in Nigeria all’inizio della sua carriera, potrebbe recarsi presto in visita a Kinshasa e Kigali.

La partita dei minerali africani è dunque apertissima. Colpì di stato e influenza russa e cinese hanno già stravolto assetti consolidati nell’Africa subsahariana, da dove i vecchi amici francesi sono stati costretti a fare le valigie. I nuovi poteri hanno stretto accordi di collaborazione con Pechino e con Mosca. La Cina garantisce investimenti e infrastrutture, la Russia offre milizie mercenarie a protezione dei siti strategici e fornisce armamenti.

La Russia persegue la politica di alleanze militari e penetrazione strategica, sia per interesse economico, sia in funzione anti occidentale. La Cina non è da meno con una strategia di colonizzazione finanzia

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