mercoledì, 19 Marzo 2025
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LA RASSEGNA STAMPA DI OGGI DA “Il Fatto”, “Dagospia”, “Notix” e “Cronachedi” e le prime pagine dei giornali di oggi a cura della redazione dell’Agenzia Cronache / Direttore Ferdinando Terlizzi

           LA RASSEGNA STAMPA DI OGGI 

DA “Il Fatto”, “Dagospia”, “Notix” e “Cronachedi” e le prime pagine dei giornali di oggi a cura della redazione dell’Agenzia Cronache / Direttore Ferdinando Terlizzi

  • Lo ha seguito passo passo in chat, fino a quando Andrea si è ucciso. Indicazioni continue e pressanti su Telegram per essere sicuro che il suo contatto telematico, che aveva riposto in lui una fiducia pressoché sconfinata, arrivasse a togliersi la vita. Particolari sconvolgenti che emergono dalle indagini sulla tragica fine di Andrea Prospero, studente 19enne di Lanciano (Chieti), iscritto alla facoltà di Informatica dell’università di Perugia, trovato morto il 29 gennaio scorso in un b&b del capoluogo umbro. Ieri la svolta nelle indagini: la squadra mobile perugina ha arrestato con l’accusa di istigazione al suicidio un 18enne romano, ora ai domiciliari, mentre un suo coetaneo, che vive ad Afragola, in provincia di Napoli, è indagato per spaccio di farmaci. Sarebbe stato lui a vendere a Prospero i prodotti a base di ossicodone e benzodiazepine che hanno causato il decesso.

la vigilessa uccisa

“Tra comandante e vittima patto di schiavitù sessuale”

Di Fq
18 Marzo 2025

Un comandante dei vigili – ad Anzola, nel Bolognese – accusato di aver ucciso un’agente con cui lavorava e aveva una relazione. Ieri, all’udienza del processo per la morte di Sofia Stefani, è emerso che l’allora comandante Giampiero Gualandi le avrebbe fatto firmare anche un “contratto di sottomissione sessuale” in cui Gualandi si “autodefiniva padrone, colui che tutto può sulla sua schiava”. In un passaggio si diceva: “Io signore e padrone mi impegno a dominare l’anima della mia sottomessa”. La difesa sostiene: “Era un gioco, preso dal libro Cinquanta sfumature…”.

Stefani è stata uccisa il 16 maggio 2024 con un colpo partito dalla pistola di ordinanza di Gualandi nell’ufficio dell’uomo. I due colleghi erano stati legati da una relazione extraconiugale alterata dalla differenza di età (63 anni lui, soltanto 33 la donna). Quando la moglie del comandante scoprì il tradimento, Gualandi mise su un “castello” di menzogne, scrivendo contemporaneamente messaggi all’amante e alla moglie in uno stato profondo di alterazione. Fino all’omicidio.

La Corte rende giustizia ai bruciati vivi di Odessa

Di Stefano de Bosio

18 Marzo 2025

La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), con la sentenza 13 marzo 2025 della V sezione, presieduta dall’insigne e colto giurista francese Mattias Guyomar, ha condannato l’Ucraina per la morte, il 2 maggio 2014, di 42 manifestanti anti-Maidan (“federalisti”) e di almeno un manifestante pro-Maidan (“unionista”).

La Corte ricostruisce così i fatti: era accaduto che nel conflitto civile esploso tra “federalisti” che si battevano per l’autonomia da Kiev e “unionisti” fedeli al nuovo governo dopo la rivolta di piazza Maidan (rovesciamento violento del governo del presidente Yanukovich e proteste di piazza nelle regioni russofone del Sud e dell’Est), i federalisti di Odessa si erano accampati pacificamente nella piazza antistante la Camera del Lavoro. Il 2 maggio, in occasione di una partita di calcio, la polizia ucraina sapeva che sarebbero calati su Odessa gli hooligan della squadra di Karkhiv, “unionisti” violenti e armati. Ma non si era preparata per prevenire il conflitto, puntualmente verificatosi, con i primi colpi partiti, secondo la Cedu, dal campo “federalista”. I violenti unionisti, più numerosi, ebbero la meglio. E i federalisti si rifugiarono nella Camera del Lavoro.

A questo punto gli unionisti davano fuoco all’edificio, mentre il capo del servizio di emergenza statale (ucraino), presente sul posto, dava ordine ai Vigili del fuoco di non intervenire, nonostante giungessero alla centrale decine di richieste di intervento, anche da parte di alcuni osservatori dell’Onu.

Dei 42 ragazzi morti, alcuni risultano essere stati colpiti da violenti “unionisti” dopo che si erano gettati dal tetto o dalle finestre del palazzo in fiamme per sfuggire al rogo. Le autorità di Kiev non solo non indagavano, ma insabbiavano qualunque indagine. La sentenza non esclude interferenze russe, ma, con decisione unanime, votata anche dal giudice ucraino Mykola Gnatovskyy, condanna l’Ucraina per violazione dell’obbligo di proteggere la vita dei propri cittadini. La sentenza, al punto 278, riporta la relazione del 30 aprile 2021 dell’incaricata dell’Onu in Ucraina, l’australiana Matilde Bogner, che punta il dito sulla gestione delle indagini e dei processi da parte ucraina, dal 2014 al 2021.

La Bogner riporta che, nonostante le evidenti responsabilità degli “unionisti” violenti, gli unici a essere indagati furono 19 “federalisti”: nessuna inchiesta sulle omissioni di polizia e dei servizi di emergenza fu mai completata e la stessa giustizia ucraina dichiarò che le indagini erano state distorte da pregiudizi anti-federalisti. Qui però viene il bello, racconta la rappresentante Onu. Infatti un gruppo di “unionisti” armati costringeva con la violenza un magistrato del pubblico ministero a presentare appello contro il rilascio dei “federalisti” ancora detenuti; poi sequestrava i giudici d’appello all’interno del palazzo di giustizia fino a che non dichiarassero ammissibile l’appello (invece inammissibile in base alla legge vigente); e la polizia ucraina, presente nel palazzo, non muoveva un dito per difendere i giudici. Come se non bastasse, i 50 unionisti armati sequestravano anche i giudici di primo grado che avevano ordinato il rilascio dei federalisti, costringendoli a firmare lettere di dimissioni dalla magistratura. Inoltre, nell’unico caso di un unionista processato per aver assassinato un federalista, gli unionisti armati facevano irruzione nell’aula ove si celebrava il processo, minacciando e insultando i giudici. Anche in quel caso la polizia rimaneva a guardare.

Ancora non basta: questi signori “unionisti” minacciavano di morte un avvocato, colpevole di difendere i “federalisti”, e gli fratturavano un dito, il tutto sempre sotto gli occhi della polizia. Nessuna indagine, nessun processo. La rappresentante Onu, inoltre, denuncia che anche in occasione degli anniversari dei fatti del 2 maggio 2014, le celebrazioni da parte dei parenti degli assassinati “federalisti” furono disturbate da attacchi violenti da parte degli “unionisti”. Le violazioni, da parte dell’Ucraina, dei diritti fondamentali dell’uomo – conclude la Bogner – pregiudicano la reputazione dell’Ucraina. Il rapporto Bogner, riportato dalla Cedu e datato 30 aprile 2021, si concludeva con l’invito all’Ucraina a iniziare a fare sul serio nel processare i crimini del 2 maggio 2014, e invitava a considerare che solo lo stato di diritto può consentire la riconciliazione ed evitare l’inasprirsi del conflitto. Bogner non è stata ascoltata, si è lasciato che i fatti di Odessa divenissero un casus belli. E il tragico prosieguo lo conosciamo: la guerra.

La sentenza evidenzia anche fatti che danno speranza: è documentato che gruppi di cittadini comuni di Odessa hanno dato soccorso ai giovani federalisti che si gettavano in strada dall’edificio in fiamme, salvandoli e sottraendoli agli “unionisti” violenti. L’intervento dei Vigili del fuoco è poi avvenuto a furor di popolo e alcuni giudici hanno tentato di fare giustizia. Esiste, dunque, una Europa che somministra giustizia e non ideologia. Ed esistono cittadini ucraini che rischiano la vita per la pace e la giustizia, non per ammazzarsi a vicenda. Occorre ricominciare di lì e non dagli Eurobomb, non dalle censura che i giornali mainstream hanno riservato alla strage di Odessa e, ora, alla sentenza della Cedu. Ne hanno parlato il Fattoil manifestol’Indipendente e la Verità, oltre alla Tass: i giornaloni di nulla si sono accorti. Ma che giornalismo è mai il loro?

Le domestiche africane ridotte in schiavitù in Arabia Saudita

editorialista

Elena Tebano

Se si cerca «domestica» e «Arabia Saudita» in inglese su internet compaiono subito migliaia di pagine con offerte di lavoro e lo stipendio che si può guadagnare. Per molte donne dei Paesi poveri, in particolare dell’Africa orientale, la promessa di un lavoro nel Regno saudita rappresenta il miraggio delle opportunità di vita che non trovano a casa loro. La realtà però è molto diversa dalle promesse e molte di queste donne devono affrontare orari di lavoro estenuanti, ricatti economici, violenze fisiche e sessuali. In alcuni casi persino la morte, come svela un’inchiesta del New York Times che ha intervistato oltre 90 donne e le loro famiglie in Arabia Saudita, Kenya e Uganda. E che ha ricostruito le forme di una moderna schiavitù, spiegando come la tratta delle domestiche avvenga spesso con la complicità dei loro governi e delle autorità saudite.

«Mentre viaggiavamo attraverso il Kenya e l’Uganda, dai quartieri urbani affollati e poveri ai villaggi agricoli più lontani, abbiamo sentito molte variazioni della stessa storia dell’orrore: Donne giovani e in salute che partono per lavori domestici in Arabia Saudita, per poi tornare picchiate, sfregiate o nelle bare» scrivono Justin Scheck e Abdi Latif Dahir. «Almeno 274 cittadini kenioti, quasi tutte donne, sono morti in Arabia Saudita negli ultimi cinque anni. Almeno 55 sono morte solo l’anno scorso, il doppio rispetto all’anno precedente. Le autopsie hanno sollevato altri interrogativi. Il corpo di una donna proveniente dall’Uganda presentava estese ecchimosi e segni di bruciature con l’elettricità, eppure la sua morte è stata etichettata come “naturale”. Abbiamo trovato un numero sorprendente di donne cadute da tetti, balconi o, in un caso, dall’apertura di un condizionatore».

Il New York Times ha esaminato le autopsie di donne ugandesi e keniote trovate morte in circostanze dubbie e con segni di violenza, i cui decessi non sono mai stati indagati dalle autorità saudite perché registrati come non sospetti. Una è stata ritrovata morta «naturalmente» in un serbatoio dell’acqua, dopo che aveva chiamato la famiglia in Kenya piangendo perché il datore di lavoro aveva minacciato di affogarla in un serbatoio dell’acqua. Le donne sopravvissute raccontano di orari di lavoro superiori alle 14 ore al giorno, paghe trattenute o ridotte, deprivazione del sonno, percosse, violenze sessuali e minacce. Più donne hanno riferito che le persone per cui lavoravano hanno gettato loro addosso la varechina o le hanno costrette a immergerci le mani per punizione. Altre che sono state sequestrate per punizione e sono fuggite solo saltando dalle finestre. O che il datore di lavoro le ha stuprate e rimandate a casa quando sono rimaste incinte.

 

 

Sono racconti simili a quelli fatti nei decenni scorsi dalle migranti di altri Paesi che hanno lavorato in Arabia Saudita, soprattutto asiatiche. Nel 2010 ha fatto scalpore il caso di una donna dello Sri Lanka di 49 anni che ha dovuto essere operata nel suo Paese per rimuovere i chiodi e i frammenti di metallo che i “datori di lavoro” le avevano conficcato a martellate nel corpo perché si era lamentata del lavoro eccessivo. Aveva lavorato per loro solo 5 mesi, secondo Human Rights Watch.

«Circa 1,5 milioni di lavoratrici domestiche, provenienti principalmente da Indonesia, Sri Lanka e Filippine, lavorano in Arabia Saudita. Queste lavoratrici, considerate in patria come “eroine moderne” per rimesse in valuta estera che guadagnano, in Arabia Saudita ricevono meno tutele rispetto ad altre categorie di lavoratori, esponendole a gravi abusi con poche o nessuna speranza di riparazione. I lavoratori domestici sono meno di un quarto degli otto milioni di lavoratori stranieri in Arabia Saudita, ma le ambasciate dei Paesi che inviano manodopera riferiscono che gli abusi contro le lavoratrici domestiche rappresentano la stragrande maggioranza delle denunce che ricevono» spiegava nel 2008 un rapporto di Human Rights Watch, che si intitolava significativamente «Come se non fossi umana». «Mentre molte lavoratrici domestiche godono di condizioni di lavoro dignitose, altre subiscono una serie di abusi, tra cui il mancato pagamento degli stipendi, la reclusione forzata, la privazione del cibo, l’eccessivo carico di lavoro e casi di gravi abusi psicologici, fisici e sessuali. Human Rights Watch ha documentato decine di casi in cui la combinazione di queste condizioni equivaleva a lavoro forzato, tratta o condizioni simili alla schiavitù».

 

 

Questi abusi sono resi possibili dalle leggi saudite sull’immigrazione, che prevedono la cosiddetta kafala, un sistema per cui il permesso di soggiorno dei lavoratori immigrati è legato a uno sponsor, di solito il datore di lavoro, che paga per le loro spese di viaggio e di sostentamento. Se i migranti perdono lo sponsor perdono anche il permesso di soggiorno. «Il sistema di solito ricade sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno, piuttosto che di quello del Lavoro, per cui i lavoratori spesso non godono di alcuna protezione ai sensi del diritto del lavoro del paese ospitante. Questo li rende vulnerabili allo sfruttamento e nega loro diritti come la possibilità di partecipare a una causa di lavoro o di iscriversi a un sindacato. Inoltre, poiché i visti di lavoro e di residenza dei lavoratori sono collegati e solo gli sponsor possono rinnovarli o terminarli, il sistema conferisce ai privati cittadini,- anziché allo Stato, il controllo sullo status giuridico dei lavoratori, creando uno squilibrio di potere che gli sponsor possono sfruttare» spiega il think tank americano Council on Foreign Relations.

 

Dopo una serie di inchieste e cause sugli abusi in Arabia Saudita che hanno suscitato scalpore, alcuni Paesi, come le Filippine, sono riusciti a ottenere condizioni di lavoro migliori per le loro cittadine. Nel 2012 il governo filippino ha firmato un accordo con le autorità saudite che impone un salario minimo di 400 dollari al mese per le colf filippine, garantisce loro l’accesso a un conto in banca su cui viene versato lo stipendio e vieta la confisca del passaporto. Per il Kenya e l’Uganda queste condizioni non valgono e gli stipendi medi sono più bassi, sotto i 250 dollari al mese.

 

I governi dei due Paesi considerano le rimesse provenienti dalle immigrate in Arabia Saudita un’importante fonte di introiti per i loro Paesi e spingono perché aumentino. Ogni anno centinaia di migliaia di donne del Kenya e dell’Uganda partono per l’Arabia Saudita dopo aver trovato un posto di lavoro tramite agenzie specializzate. Arrivano dalle zone più remote e povere dei loro Paesi, vengono reclutate dalle agenzie locali che offrono loro una formazione di base (con corsi di arabo e lezioni per imparare a usare gli elettrodomestici) e ricevono un biglietto di sola andata per l’Arabia Saudita.

 

 

«Le agenzie di reclutamento e i loro intermediari forniscono informazioni fuorvianti sui salari e fanno firmare ai lavoratori contratti che non sanno leggere. Alcune agenzie commercializzano le donne come prodotti. I siti web delle agenzie offrono lavoratrici “in vendita” a clienti sauditi. Ne abbiamo visto uno che prevedeva l’opzione “aggiungi al carrello”. Quando le donne arrivano nel regno, i datori di lavoro spesso confiscano i loro passaporti e i loro effetti personali. Le governanti keniote in Arabia Saudita lavorano per circa 250 dollari al mese. Ma molte donne ci hanno raccontato che i loro nuovi padroni le hanno trattate male o hanno negato loro il salario, dichiarando: “Ti ho comprato”» spiegano i giornalisti del New York Times.

Secondo il quotidiano le autorità dei Paesi coinvolti non hanno alcun interesse a combattere gli abusi perché beneficiano di quel sistema. Il vicepresidente della Commissione parlamentare per il lavoro keniota, Fabian Kyule Muli, possiede un’agenzia che invia domestiche in Arabia Saudita. «La commissione si è talvolta schierata a favore dell’invio di più persone in Arabia Saudita e ha negato che i lavoratori vengano danneggiati» scrive il New York Times. Anche uno dei consiglieri del presidente del Kenya William Ruto è l’ex proprietario di un’agenzia di questo tipo (il fratello del consigliere ne ha tuttora una). Lo stesso succede in Uganda, dove il presidente Yoweri Museveni ha un fratello, Sedrack Nzaire, proprietario di un’agenzia che invia domestiche nel Paese arabo. «In Arabia Saudita, i membri della famiglia reale, compresi i discendenti di Re Faisal, sono stati i principali investitori nelle agenzie che forniscono lavoratori domestici. Anche alti funzionari sauditi ricoprono posizioni di alto livello nelle agenzie di collocamento» scrive il New York Times.

 

 

Non stupisce che le donne che riescono a denunciare gli abusi sul lavoro in Arabia Saudita raramente trovino ascolto e aiuto.