La frontiera della ragione (di Stelio W. Venceslai)

La difesa comune è sulla bocca di tutti. Se ne parla molto, male e troppo. Per principio le questioni militari dovrebbero essere riservate o, comunque, discusse tra informati, il che in Italia non avviene. Figurarsi, poi, se certi problemi possono essere affrontati in una manifestazione di piazza!
Seguo con interesse il dibattito sui media italiani, ma mi assale la noia. Frasi fatte, luoghi comuni, attenzione nervosa a quello che dicono i sondaggi come se le grandi scelte di politica nazionale potessero dipendere dall’umore della gente e non dagli interessi del Paese in cui questa gente vive. La democrazia è un diritto, non una scusa per paralizzare tutto.
Dopo la Comunità Europea di difesa, la CED, fallita per l’opposizione della Francia allora gaullista, l’Europa si è sdraiata al sole sotto l’ombrellone americano. Ora piove a dirotto e l’ombrellone si è stracciato. Torniamo alla CED? In fondo, basterebbe ratificare l’accordo di allora.
Oggi i Ventisette hanno ventisette eserciti. Sommati e integrati assieme, farebbero paura anche a Putin. Ma non lo sono. Che vogliamo fare? In più c’è una NATO traballante con l’incertezza che deriva dalle mosse imprevedibili di Trump.

Nell’Unione europea i Trattati escludono una competenza militare che è riservata ai singoli Stati membri. L’Europa di oggi non ha una legittima competenza militare. Questo è un nodo da sciogliere: o si decide di cambiare i Trattati oppure bisogna farne un altro, tipo CED, ed avere come partner la NATO, con o senza gli Stati Uniti. È inutile rispolverare l’Unione Europea Occidentale, la UEO, come prospettano alcuni. Se, come sembra, siamo tutti convinti che esiste la necessità di una difesa comune, è necessario essere realisti. Perdere tempo, su questioni militari o di difesa, è esiziale.
Il realismo ci costringe a rinunciare alle questioni piccole e ad affrontare problemi di portata generale. Pensando all’Italia, i turbamenti di un Conte o di un Salvini oppure le sorti della segreteria Schlein nel PD sono di gran lunga secondari. In ogni comunità c’è sempre qualcuno che la pensa in un modo diverso, rispettabile ma inutile, nell’ora delle grandi scelte.
L’Italia si divise furiosamente, tra il 1914 e il 1915, fra neutralisti e interventisti. Poi ci fu la guerra e tutti fecero il loro dovere. Nel 1940 non ci fu nessun neutralista, ma milioni di entusiasti che acclamavano le improvvide decisioni del Duce. Quei pochi che dissentivano o erano all’estero o al confino. Quando tuona il cannone e piovono missili (per fortuna non siamo ancora a questo punto), il rischio è per tutti, compresi i dissenzienti e le perenni colombe della pace.

Ciò che l’Europa tema è l’abbandono del protettore americano e la rapacità di Putin. Sono due incognite ed è saggio prepararsi a queste eventualità. Quello usa i dazi, questo le armi. Se di mezzo non ci fosse quasi un milione di morti, mica ci sarebbe poi tanta differenza. Sempre guerra è.
Siamo tutti un po’ convinti che il Presidente americano sia imprevedibile, il che rende difficile fare previsioni. Siamo altrettanto convinti, invece, che le mire di Putin tendono ad un riassetto geopolitico europeo in chiave russa, anche perché lo ha detto e ripetuto più volte. Putin si sente stretto e minacciato nei suoi attuali confini. Detesto quello che fa, ma lo capisco.
La guerra in Ucraina è a una svolta. Forse ci sarà un cessate il fuoco, un armistizio di dieci giorni o di sette mesi, un pateracchio qualunque. Potrebbe essere, però, un utile momento di riflessione, almeno per Putin.
Mettiamoci nei suoi panni. Con pretesti ridicoli come la necessità di sradicare il nazismo in Ucraina ha invaso un territorio non suo, mettendosi contro buona parte del mondo. E va bene.
Credeva di farlo in una settimana e invece, dopo tre anni, è ancora impantanato lì, grazie al sostegno dato all’Ucraina dall’Europa e dagli Stati Uniti.
Adesso il sostegno glielo dà l’America, n alleato insospettabile, che lo toglie all’Ucraina.
Ha dovuto subire le sanzioni occidentali che ha contenuto ma sono, comunque, un danno per la Russia. È diventato tributario della Cina ed ha perso le ricche forniture che gli venivano dal gas venduto in Europa e dagli investimenti occidentali nel suo Paese.

Per alimentare il suo grande e potente esercito ha esaurito missili, munizioni e droni, ricorrendo alle forniture della Corea del Nord, dell’Iran e della Turchia.
Per rimpiazzare le perdite umane ha dovuto ricorrere ai mercenari di Prigožin e ai Nordcoreani.
Ha spaventato Finlandia e Svezia, Paesi da sempre neutrali, che hanno aderito alla NATO, allungando il fronte di 3.000 km.
Ha perso la Siria e la sua influenza nel Medio Oriente, restando inspiegabilmente silenzioso sul massacro di Gaza e sull’espansionismo israeliano.
Ha minacciato più volte un intervento nucleare, allarmando tutti, ma si è ben guardato dal farlo. I fatti sono più saggi delle parole.
Tutto questo per combattere il presunto nazismo ucraino? In realtà, è un bilancio fallimentare. Il Paese lo segue perché è convinto della sacra missione civilizzatrice della Russia, come gli Stati Uniti ,che eleggono un Trump, convinto anche lui della sacra missione di America first.
E la nostra, qual’è la nostra missione, come Europei? Anche l’Europa cerca la sua sacra missione. Quella dei “valori”? Nelle piazze? Contro chi?
La nuova politica americana può piacere a Pechino come a Mosca, non certo a Londra, a Tokio, in Canada, Australia e Nuova Zelanda. Qualcosa si sta muovendo, non contro gli Stati Uniti (forse è troppo presto), ma senza gli Stati Uniti.
Potrebbe essere l’ultima frontiera della ragione.