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mercoledì 19 marzo 2025
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I contro-dazi, il Manifesto di Ventotene, la diplomazia dell’hockey, le conseguenze del riarmo, dieci anni bollenti |
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di Elena Tebano
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Bentrovati. Nella Rassegna di oggi ci sono un po’ di fact checking e molta politica internazionale, come impongono i tempi.
I contro-dazi Ferruccio de Bortoli chiarisce perché sono necessari e perché per l’Unione europea non reagire ai dazi di Trump (come chiede la premier italiana Giorgia Meloni) sarebbe come ammettere di essere stata una concorrente sleale.
Il Manifesto di Ventotene Sempre Meloni, alla Camera, ha letto e criticato alcuni passaggi tratti dal documento scritto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e citato spesso dai sostenitori dell’Unione europea (anche alla manifestazione di sabato a Roma). Antonio Carioti spiega come è nato e perché i passi citati sono parziali e fuorvianti.
Disgelo prematuro? Nella telefonata con Donald Trump, Vladimir Putin ha proposto, come simbolo di distensione, partite a hockey fra squadre russe e americane. Il presidente statunitense, memore forse della «diplomazia del ping pong» di Nixon e Kissinger, ha subito accettato. Forse, però, non si rende conto di quanto il ghiaccio russo possa essere scivoloso. Ce ne parla Luca.
Le conseguenze del riarmo Massimo Nava analizza le possibili conseguenze del piano ReArm Europe. Compresa la nuova centralità della Turchia per la difesa europea.
Anni bollenti L’ultimo rapporto sullo Stato del Clima dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale certifica che il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, i 10 anni più caldi si sono verificati tutti nell’ultimo decennio e i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera sono ai massimi di sempre. Vediamo perché sono tre cattive notizie.
La Cinebussola Il film di oggi è Europa Centrale, di Gianluca Minucci, un dramma metafisico con inquadrature decentrate, allegorie e simboli, che ha convinto il nostro Paolo Baldini.
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Frammenti |
I dazi sono un’arma politica, reagire non è rappresaglia |
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Giorgia Meloni ritiene che non sia opportuno rispondere ai dazi americani con misure analoghe. Sarebbe un’inutile rappresaglia. Non è l’unica a pensarla così in uno sforzo di appeasament con l’amministrazione americana che sente più vicina a lei di quanto non lo siano i burocrati di Bruxelles. Il linguaggio bellico si è ormai impadronito del dibattito quotidiano. In tutto. C’è stato un riarmo delle parole, purtroppo. E tendiamo a dividerci tra bellicisti e pacifisti anche su misure che fanno parte della storia lunghissima del protezionismo economico. I dazi americani sono, per ora, limitati all’acciaio e all’alluminio. Poi da aprile si vedrà come e quanto incideranno sulle esportazioni europee e, in particolare italiane, verso gli Stati Uniti.
Hanno, per ora, una natura più politica che economica. Sono un’arma posta sul tavolo di un negoziato che spesso per Trump ha finalità diverse (controllo dell’immigrazione e del traffico di Fentanyl per esempio). Una guerra commerciale si potrà forse evitare se sarà chiaro, nel minor tempo possibile, che i vantaggi per chi mette i dazi sono largamente inferiori ai danni. I vantaggi sono immediati e di natura politica. Si mantiene una promessa elettorale, si premiano alcune categorie.
I danni sono per tutti (più inflazione e meno crescita) ma a rilascio più lento. Per l’Unione europea (che comunque i dazi li mette su molte importazioni, ma nell’ambito degli accordi previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio) non reagire sarebbe come ammettere di avere torto, di essere stata un competitore sleale. E, in più, i governi dell’Unione sopporterebbero un costo politico nel non difendere i settori colpiti dalle misure americane (meno export, meno produzione, meno occupazione). I contro dazi diventano così non una rappresaglia, bensì un’amara necessità. L’idea di penalizzare le produzioni di stati americani a guida repubblicana è politicamente astuta. Sandro Pertini, usava dire «a brigante, brigante e mezzo». Ma siamo veramente ridotti a questo? Speriamo di no.
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Rassegna storico-politica |
Che cos’è il Manifesto di Ventotene e perché va inserito nel contesto storico |
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Che la leader di un partito d’ispirazione nazional-conservatrice come Giorgia Meloni esponga a chiare lettere il proprio dissenso dal Manifesto di Ventotene, un documento politico di forte impianto federalista e socialista diretto in primo luogo contro gli Stati nazionali, non deve certo stupire. È nell’ordine naturale delle cose.
Tuttavia l’attacco rivolto dalla presidente del Consiglio al testo stilato nel giugno 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi risente di una lettura smozzicata, con citazioni isolate dal contesto, e soprattutto prescinde dalla concreta opera politica svolta poi dal Movimento federalista europeo (Mfe), di cui il Manifesto rappresenta soltanto una prima espressione, poi ridiscussa e corretta dai suoi stessi estensori, in primo luogo Spinelli.
Per esempio Meloni si è soffermata sui brani del documento riguardanti il «partito rivoluzionario» e la sua auspicata «dittatura». Ma Spinelli, già nella riunione di fondazione del Mfe (agosto 1943) aveva corretto quell’errore di prospettiva, indicando la necessità di creare un movimento trasversale tra le diverse forze antifasciste, capace di riunire tutti coloro che condividevano l’obiettivo di «un’Europa libera e unita».
Nello stesso senso si indirizza la prefazione al Manifesto scritta da Eugenio Colorni, compagno di Spinelli e Rossi al confino, e datata 22 gennaio 1944. In realtà, per capire l’importanza di quel testo, e anche i suoi indubbi limiti di astrattezza rispetto agli sviluppi storici successivi, bisogna situarlo nel contesto in cui venne redatto.
Gli autori lo scrissero mentre si trovavano appunto sulla piccola isola tirrenica di Ventotene, confinati dopo aver trascorso lunghi anni in carcere per aver cospirato contro il regime fascista. Spinelli era un ex comunista, espulso dal partito per aver criticato i processi farsa del Terrore staliniano. Rossi era un militante del movimento Giustizia e Libertà, fondato dal teorico del socialismo liberale Carlo Rosselli.
Nel 1941 in Italia vige la dittatura fascista e quasi tutta l’Europa si trova sotto il dominio della Germania hitleriana: i due confinati pensano che ne possa uscire solo attraverso un rivolgimento che avrà carattere rivoluzionario. La loro tesi è che la restaurazione dei vecchi Stati nazionali propensi a perseguire i loro interessi egoistici, anche se realizzata in forma democratica, ricreerebbe fatalmente il contesto conflittuale che ha prodotto guerre e regimi totalitari: «Risorgerebbero le gelosie nazionali – scrivono Spinelli e Rossi –, e ciascuno Stato nuovo riporrebbe le proprie esigenze solo nella forza delle armi».
Di qui la proposta di costruire una federazione europea munita di proprie forze militari, senza più barriere economiche protezioniste, con una rappresentanza diretta dei cittadini negli organi centrali, dotata dei mezzi sufficienti per instaurare un «ordine comune», pur lasciando ai diversi popoli larghi spazi di autonomia.
L’indirizzo politico del Manifesto è socialista, come si è compiaciuta di osservare Meloni, ma non biecamente statalista, come la presidente del Consiglio ha cercato di far credere. Sul tema della proprietà privata ha un’impostazione non molto diversa da quella della nostra Costituzione repubblicana: sostiene che la si debba abolire (non è stata forse nazionalizzata l’energia elettrica in Italia nei primi anni Sessanta?) correggere, limitare o estendere a seconda delle convenienze economiche.
Va ricordato tra l’altro che il Manifesto si rivolge anche agli «imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali». Inoltre Spinelli e Rossi bocciano apertamente la prospettiva comunista, destinata a generare, osservano, «un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia».
Insomma è evidente che richiamarsi al Manifesto di Ventotene non significa affatto giurare fedeltà su ogni sillaba del documento, quasi si trattasse di un testo sacro, anche perché lo stesso Spinelli, nelle sue memorie Come ho tentato di diventare saggio, ne rilevava ingenuità e forzature. Si tratta piuttosto di riconoscerne la forza visionaria e di coglierne l’indirizzo di fondo.
Fu quello appunto che Spinelli fece e che il Mfe ha proseguito a fare, cogliendo tutte le opportunità possibili per far avanzare un processo d’integrazione in un contesto in cui comunque gli Stati nazionali hanno dimostrato notevole vitalità.
È per esempio assai capzioso cercare di presentare Spinelli come un criptocomunista, quando invece nel 1947 approvò il piano Marshall, ritenendo giustamente che avrebbe favorito l’avvicinamento tra i Paesi che ne fruivano, e nel 1978, parlamentare della Sinistra indipendente, votò a favore del Sistema monetario europeo, mentre il Pci di Enrico Berlinguer si pronunciò contro e il Psi di Bettino Craxi si astenne.
Certamente si fa troppa retorica sul Manifesto di Ventotene, che fu solo il primo coraggioso passo di un lungo percorso. Ed è del tutto legittimo criticarne i contenuti in nome di una visione nazionalista, conservatrice o liberista. Ma farne un fantoccio polemico a 84 anni di distanza lascia il tempo trova. Appartiene alla storia e in chiave storica va considerato.
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Rassegna della guerra/1 |
La diplomazia dell’hockey? Dimostra che Trump non è Nixon (né Kissinger) |
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Il Wall Street Journal, giornale certo non pregiudizialmente ostile a Donald Trump, l’ha detto, in un editoriale del board, in un modo che più chiaro forse non si potrebbe: il principale risultato della telefonata fra l’inquilino della Casa Bianca e quello del Cremlino è stato che «Putin non ha accettato il cessate il fuoco di 30 giorni proposto da Trump, mentre l’ucraino Volodymyr Zelensky sì. Abbiamo capito chi è il vero ostacolo alla pace?» (Il cessate il fuoco a cui Putin ha detto sì non è quello totale che avevano accettato gli ucraini, ma è limitato alle sole strutture energetiche)
Uno che non sembra averlo capito è proprio Donald Trump. Che non soltanto, sul suo social Truth, ha parlato di «telefonata molto buona e produttiva», ma ha anche accettato di buon grado l’idea di Putin di organizzare sfide di hockey (sport del quale il leader russo è appassionato e cultore) fra squadre della Kontinental Hockey League (ossia russe, bielorusse, cinesi e kazake) e della National Hockey League (americane e canadesi, almeno finché il Canada non diventerà il 51° Stato Usa). Subito si è parlato di «diplomazia dell’hockey», con un richiamo alla «diplomazia del ping pong» di Nixon e Kissinger per staccare la Cina dall’allora Unione sovietica, nei primi anni Settanta. Ma, guardando meglio, si scopre che la «diplomazia dell’hockey» (della quale si era peraltro già parlato negli stessi anni Settanta, soprattutto riguardo ai rapporti Canada-Urss) dimostra semmai perché Trump non è un nuovo Nixon, o un redivivo Kissinger.
È vero che, anche nell’aprile 1971, il primo passo lo fece Mao Zedong, invitando ufficialmente in Cina la squadra Usa di tennis tavolo impegnata nei mondiali di Nagoya, in Giappone. Ma se, mesi dopo, Kissinger colse l’opportunità di un riavvicinamento Washington-Pechino in chiave anti Mosca, stavolta sembra legittimo chiedersi: la diplomazia dell’hockey serve più a Trump per staccare Mosca da Pechino o non invece a Putin per staccare ancor di più Washington da Bruxelles e da Kiev?
Thomas Friedman, sul New York Times, ha fatto notare che «ciò che ha reso Kissinger e il segretario di Stato James Baker negoziatori particolarmente efficaci è che sapevano come far leva sui nostri alleati per amplificare il potere degli Stati Uniti. Trump dà stupidamente un manrovescio ai nostri alleati, mentre tende la mano a Putin. È così che si butta via l’effetto leva. Sfruttare gli alleati – la più grande risorsa che abbiamo e che Putin non ha – “è la chiave di volta di un’intelligente politica di Stato”, mi ha detto Dennis Ross, consulente di lunga data per il Medio Oriente dei presidenti degli Stati Uniti. “La chiave è sapere come usare l’influenza che si ha, come conciliare i propri mezzi con i propri obiettivi. L’ironia della cosa è che Trump crede nell’effetto leva – ma non ha usato tutti i mezzi che ha” sull’Ucraina, mi ha detto Ross». Quindi, si chiede Friedman, «perché mai Trump è entrato in trattative con Putin senza portare con sé la nostra migliore leva – i nostri alleati? E perché ha platealmente sospeso e poi riattivato gli aiuti militari e di intelligence degli Stati Uniti all’Ucraina, dopo aver vergognosamente definito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky “un dittatore”?».
Trump, in effetti, ha tagliato fuori sia l’Europa che Kiev nel suo dialogo con Putin (Tim Ross sottolinea che Trump non si è sentito nemmeno in dovere di chiamare subito Zelensky per riferirgli i contenuti della telefonata: il presidente ucraino si è dovuto accontentare delle notizie stampa fino alla telefonata di qualche ora fa con il presidente americano).
In sostanza, il problema della «diplomazia dell’hockey» è che Trump non sembra aver capito bene quale sia l’avversario. Come scrive ancora il Wall Street Journal, «la preoccupazione più grande è che Trump sta faticando a vedere Putin per l’aggressore che è – uno che i precedenti presidenti non sono riusciti a domare attraverso i colloqui. La Casa Bianca ha persino annunciato la possibilità di lavorare con la Russia in Medio Oriente, dove Putin è stato per un decennio una fonte di instabilità. Trump sta bombardando i terroristi houthi dello Yemen, che hanno tenuto in ostaggio il traffico marittimo mondiale e sparato impunemente contro navi della Marina statunitense. E chi ha aiutato a fornire agli houthi le informazioni necessarie per colpire le navi? La Russia. Idem per la fornitura di aerei da addestramento all’Iran in cambio di droni. L’eredità di Trump sarebbe danneggiata per sempre da un risultato che il mondo percepisse come una vittoria di Putin».
Va da sé che Donald Trump pensa di essere un negoziatore migliore («ENORMEMENTE migliore» scriverebbe lui) di tutti i presidenti che l’hanno preceduto. E di poterlo dimostrare anche con lo «zar» del Cremlino, sull’Ucraina, sull’Iran e chissà su cos’altro. Forse, però, in attesa di prove concrete, è il caso di ricordare che, ai tempi della sua prima presidenza, il «negoziato» e le strette di mano con il leader nordcoreano Kim Jong-un non finirono proprio benissimo. E viene difficile pensare che Putin sia un negoziatore meno scaltro di Kim. Tant’è che il già citato Tim Ross riporta il timore di Matthew Shoemaker, specialista di sicurezza nazionale ed ex funzionario dell’intelligence Usa, riguardo alla possibilità che Trump possa cadere in quella che fu una tattica sovietica classica ai tempi della Guerra fredda: tirare i negoziati per le lunghe: «Durante la Guerra Fredda, i leader americani hanno spesso resistito ai tentativi di farsi coinvolgere in processi interminabili, riconoscendo che servivano ai sovietici come meccanismi di stallo per riorganizzarsi o sfuttare vantaggi. Trump rischia di cadere in questa storica trappola, poiché i rinvii di Putin potrebbero consentire alla Russia di rafforzare la propria posizione militarmente e politicamente, erodendo al contempo la credibilità degli Stati Uniti e la loro unità con gli alleati».
In effetti, Putin è un maestro riconosciuto nell’infilare, al momento giusto, richieste inaccettabili dalla controparte, fatte apposta per far naufragare i negoziati. Nelle famose trattative con Kiev della primavera 2022, fu la rivendicazione di un sostanziale diritto di veto russo su qualsiasi futuro intervento militare a difesa dell’Ucraina in caso di nuovo attacco esterno, più altre «pillole avvelenate» sulla «denazificazione» dell’Ucraina (qui la ricostruzione di Foreign Affairs). Stavolta, è la richiesta di sospendere ogni aiuto militare e di intelligence a Kiev (ribadita poche ore fa dal Cremlino come prioritaria, dopo il tentativo di smentita di Trump in un’intervista a Fox News). «Sono condizioni che l’Ucraina non può accettare, se non a colpi di randello. Un accordo di pace che disarma l’Ucraina non produrrà una pace duratura che permetta a Trump di concentrarsi sulle sue priorità» scrive ancora il Wsj.
Quanto alla possibilità di staccare la Russia dalla Cina, va per prima cosa considerato che, a renderla improbabile, è innanzitutto il fatto che la dipendenza economica di Mosca da Pechino è notoriamente aumentata, e molto, dopo l’invasione dell’Ucraina. La stessa Cina si ritiene rafforzata dai progressi fatti nell’Indo Pacifico (ne ha scritto Walter Russell Mead sul Wsj: vedi la Rassegna di ieri). E, quand’anche fosse invece Xi a voler mettere qualche paletto all’«amicizia senza limiti» con Putin, lo farebbe per poter concludere più affari con l’Europa (qui un’analisi di Federico Fubini). La qual cosa non sembra propriamente un vantaggio per gli Stati Uniti, nella prospettiva della «nuova Yalta tripolare» – Usa, Cina, Russia – che Trump avrebbe in testa.
Putin, al momento, non può perciò che essere soddisfatto della sua «diplomazia dell’hockey», che consegna al mondo l’immagine di un leader del Cremlino con il quale si potrebbe quasi fare una partitella fra amici (non stupisce il «buonumore» del presidente russo segnalato da Marco Imarisio sul Corriere). Come si legge ancora nell’editoriale del Wsj, Putin «sa di poter sostenere altre perdite sul campo di battaglia e sa che il presidente Trump ha invece promesso agli elettori che porterà la pace. È improbabile che Putin si discosti dalle sue richieste principali, a meno che il presidente Usa e l’Europa non siano disposti a mettergli i bastoni tra le ruote con sanzioni più dure e armando l’Ucraina fino ai denti. Putin scommette che Trump non lo farà e, vista la musica di questa amministrazione, non è una scommessa azzardata».
Se si aggiunge che, al momento, i dividendi della guerra sembrano per Putin maggiori di quelli della pace (grazie al «keynesianesimo militarista» che tiene a galla l’economia e alla possibilità di stringere ancora di più la morsa del controllo sul Paese e sul dissenso: ne ha scritto sul New York Times il giornalista e saggista russo Mikhail Zygar, ripreso anche da Federico Rampini sul Corriere), vien davvero da pensare che, sul ghiaccio della partita a hockey diplomatica, una parte rischia il capitombolo molto più dell’altra. Anche se i dolori maggiori sarebbero per chi, alla partita, non è nemmeno stato invitato.
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Rassegna della guerra/2 |
Le probabili conseguenze «impreviste» del riarmo europeo |
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La regola dei vasi comunicanti in chimica e la teoria fisica di Newton, per cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria valgono anche per la geopolitica? Siamo abituati a valutare gli avvenimenti come un effetto domino o come reazioni a catena. Ma in realtà, la teoria di Newton può essere un’interessante chiave di lettura dell’attualità. Ci provò già lo storico tedesco Ernst Nolte, il quale cercò di dimostrare che la nascita del Nazismo in Germania fu in estrema sintesi una reazione collettiva allo Stalinismo, relativizzando così Auschwitz e il Gulag e l’unicità dell’Olocausto. Numerosi analisti considerano l’attuale politica del Cremlino come una reazione (sconsiderata e illegittima finché si vuole) all’avanzamento della Nato nell’Est europeo e all’erosione della sfera d’influenza della Russia sugli ex satelliti, dall’Ucraina alla Georgia.
Sia pure in modo per ora meno drammatico, i recenti sviluppi in Romania, Slovacchia, Ungheria, Moldavia, Repubblica serba di Bosnia possono essere inquadrati in questo contesto, ossia nel disegno putiniano di contrastare una “deriva” europeista e occidentalista. Al tempo stesso, si possono leggere in questa chiave l’ingresso rapido dei Paesi scandinavi nella Nato, la corsa al riarmo dei Baltici e della Polonia e lo stesso piano ReArm Europe lanciato a Bruxelles: una reazione forse impulsiva, almeno nella definizione, al presunto disimpegno americano nella Nato e soprattutto all’ipotesi che la Russia non si voglia fermare all’Ucraina, ma minacci tutto il Vecchio Continente.
Ma proprio su quest’ultimo punto, sarebbe necessaria una riflessione preventiva sulle possibili conseguenze di questa «svolta» militare. Mettiamo fra parentesi il dibattito sulla necessaria e per ora improbabile coesione dei 27 Paesi membri per mettere davvero in atto e in tempi rapidi un sistema integrato e organico di difesa europea e guardiamo al processo in corso. È evidente che questo processo si è avviato anche in forza di una trazione esterna forte e determinata – la Gran Bretagna, che non fa parte dell’Ue – e che coinvolge in diversa misura un Paese – la Turchia – che è membro fondamentale della Nato, disponendo del più attrezzato e numeroso esercito dell’Alleanza – ma che molto probabilmente non farà parte dell’Ue almeno per i prossimi decenni.
Quali saranno le conseguenze «newtoniane» di questi sviluppi? È interessante, in proposito, l’analisi del quotidiano greco Kathimerini che rileva le preoccupazioni del suo Paese rispetto allo storico contenzioso con la Turchia – già in prima linea, come playmaker diplomatico nello scenario dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente.
«La Grecia è chiamata a prendere posizione su una serie di dilemmi provocati dallo sconvolgimento strategico degli Stati che hanno determinato la sicurezza greca negli ultimi ottant’anni. Gli Stati Uniti di Donald Trump stanno cercando, in modo maldestro e brusco, di chiudere la questione ucraina e di ristrutturare le loro alleanze, riducendo così la loro impronta, e forse il loro influsso, in Europa. Gli europei cercano di trovare punti di appoggio alla periferia dell’Unione europea, con l’obiettivo di “tappare” le falle della loro capacità di dissuasione in difficoltà. Gli europei pensano che la Turchia – un Paese che ha invaso e occupato il 37% di uno Stato membro dell’Ue [Cipro], che non riconosce i confini marittimi con la Grecia e che minaccia di fare la guerra se il nostro Paese esercita i propri diritti – potrebbe essere parte della risposta».
«Siamo entrati in un’era in cui i colori del quadro europeo si stanno offuscando. Se i paesi dell’Unione non riescono a mantenere il minimo comune denominatore del progetto europeo, ovvero garantire i diritti sovrani di uno Stato membro, allora è davvero difficile capire cosa pesi di più nell’equilibrio dei nostri valori: la protezione e la salvaguardia dei diritti degli Stati membri o la promozione a breve termine di alcuni contratti?».
Di altro tenore ovviamente la posizione turca. «Gli europei potrebbero essere tentati di stringere i legami con Ankara dopo le dichiarazioni e i cambiamenti di Donald Trump su Ucraina, Europa» e Nato, scrive il filogovernativo Hürriyet, che ricorda che «la Turchia possiede, dopo gli Stati Uniti, la seconda più grande armata della Nato». Anche lo Star ritiene che la Turchia potrebbe assumere un nuovo ruolo nell’architettura di difesa europea. «L’Europa è vecchia e stanca, ma la sua economia è ricca, le sue tecnologie interessanti ed è il principale partner commerciale della Turchia».
Da parte europea, diversi funzionari hanno anche espresso la volontà di avvicinarsi ad Ankara. «Il sentimento generale all’interno dell’Ue è che la Turchia è più importante che mai in termini di cooperazione per la sicurezza”», afferma Samuel Doveri Vesterbye, direttore del think tank Cev (Consiglio europeo di vicinato) in un’intervista al Turkey Recap. «Nonostante alcuni membri dell’Ue abbiano riserve nei confronti della Turchia, c’è un ampio consenso sul fatto che la Turchia sia necessaria in questo momento». D’altra parte, ancora in omaggio alle leggi della fisica, la Turchia dopo avere bussato per ora invano alle porte dell’Ue si è proposta di aderire ai Brics, alleanza eterogenea e complessa il cui denominatore comune è la concorrenzialità con il dollaro e con il blocco occidentale. E anche l’allargamento dei Brics può essere letto come una reazione al proposito occidentale di isolare la Russia. Isolamento che al momento appare al tramonto, dato che il Cremlino, grazie a Trump, ha riconquistato almeno una piena legittimità politica e diplomatica.
È noto che i negoziati per l’ingresso di Ankara nell’Ue sono in fase di stallo dal 2018, soprattutto a causa delle violazioni dei diritti umani nel Paese (compresi gli arresti degli oppositori politici, ndr) e dell’occupazione militare della parte settentrionale dell’isola di Cipro. Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato nei giorni scorsi che «è impossibile pensare alla difesa europea senza la Turchia» e ha ricordato che il Paese rimane candidato all’adesione all’Unione europea, una «priorità strategica».
Ankara ha partecipato al vertice europeo sulla guerra in Ucraina e la difesa europea tenutosi a Londra il 2 marzo scorso. Era rappresentata dal suo ministro degli Esteri, Hakan Fidan. Ma il capo di Stato turco ha preferito non partecipare per non violare la sua «politica di equilibrio» tra Kiev e Mosca e rischiare di danneggiare buoni rapporti con il Cremlino, secondo lo Star.
A seguito di una visita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky alla fine di febbraio, i funzionari turchi si sono detti aperti al possibile dispiegamento di una forza turca di mantenimento della pace in Ucraina, secondo Bloomberg. Ma la Turchia è fortemente sospettata di aiutare la Russia ad aggirare le sanzioni. Al tempo stesso rinnova il suo attaccamento al rispetto delle frontiere internazionali e il suo sostegno alla sovranità territoriale dell’Ucraina. Inclusa, ovviamente, la «frontiera» di Cipro.
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Rassegna climatica |
I dieci anni più caldi di sempre |
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L’anno scorso è stato l’anno più caldo mai registrato, i 10 anni più caldi si sono verificati tutti nell’ultimo decennio e i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, che causano il surriscaldamento del pianeta, sono ai massimi da 800 mila anni. Sono le tre cattive notizie (purtroppo non sorprendenti) contenute nel rapporto annuale sullo Stato del Clima dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (Wmo) pubblicato oggi.
«Non era mai successo che tutti i dieci anni più caldi di sempre ricadessero nello stesso decennio. Di solito le temperature oscillano di più» dice Sandro Fuzzi, ricercatore dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Cnr di Bologna. «Questo dato è la conferma che stiamo andando velocemente verso un cambiamento climatico che non ha precedenti».
L’anno scorso inoltre ha superato per la prima volta la soglia limite di 1,5 gradi Celsius in più rispetto alla temperatura media dell’era pre-industriale. È quella individuata come limite da non superare (perché, se si alza di più, le conseguenze diventano ingestibili) negli accordi internazionali per il clima, come quello di Parigi del 2015. Il fatto che il superamento sia avvenuto per un solo anno, per i climatologi, significa che non può essere ancora considerato definitivo (serve che la soglia venga superata per più anni) e che quindi c’è ancora tempo per intervenire. «Sebbene un solo anno di riscaldamento superiore a 1,5 gradi Celsius non indichi che gli obiettivi di temperatura a lungo termine dell’Accordo di Parigi siano irraggiungibili, è un campanello d’allarme che stanno aumentando i rischi per le nostre vite, per le nostre economie e per il pianeta», ha detto Celeste Saulo, segretaria generale del Wmo.
L’Italia ha fatto registrare un surriscaldamento ancora maggiore: nel 2024 la temperatura media del nostro Paese è stata di 3,22 gradi al di sopra dell’era pre-industriale. Inoltre il surriscaldamento delle temperature diventa sempre più veloce (l’Italia ha superato la soglia di 1,5 gradi a partire dalla metà degli anni 90).
Nel rapporto l’Organizzazione Meteorologica Mondiale afferma che il riscaldamento globale sta contribuendo all’aumento di eventi meteorologici estremi che hanno causato il maggior numero di evacuazioni e migrazioni forzate degli ultimi 16 anni, hanno contribuito all’aggravarsi delle crisi alimentari e causato ingenti perdite economiche. Solo nel 2024 si sono verificati almeno 151 eventi meteorologici estremi «senza precedenti».
«Gli eventi estremi che 50-60 anni fa si verificavano ogni dieci anni, ora in dieci anni si verificano tre volte. E sono più intensi» spiega ancora Fuzzi. «Diventerà più difficile abitare in molte zone dell’Italia. Qui in Emilia Romagna si sta già iniziando a parlare di ricollocare le persone che vivono in aree impossibili da difendere dalle acque con opere ingegneristiche».
L’aumento delle temperature non comporta soltanto una maggiore frequenza di alluvioni e piogge torrenziali, ma anche l’innalzamento del mare. «Negli ultimi 100 anni il livello dei mari si è innalzato di circa 25 centimetri. Può sembrare poco ma significa che alcune isole del Pacifico stanno già scomparendo. A questi ritmi a fine secolo il Mose di Venezia, per esempio, diventerà inutile» aggiunge Fuzzi.
Secondo uno studio pubblicato l’anno scorso dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Venezia sarà sommersa nel 2150, quando i mari si saranno innalzati di un metro e mezzo.
Un dato particolarmente preoccupante contenuto nel rapporto Wmo è quello sull’accumulo dell’anidride carbonica (il principale gas serra) nell’atmosfera, arrivata ai massimi degli ultimi 800 mila anni. I livelli vengono calcolati misurando quella contenuta nelle bolle d’aria intrappolate nei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide. «Nell’era preindustriale nell’atmosfera c’erano 280 parti di anidride carbonica per milione. Oggi abbiamo superato le 420 parti per milione. Ed è successo in meno di un secolo, con una velocità che non ha precedenti» dice Fuzzi. «L’aumento dipende dalle emissioni causate dagli esseri umani, in particolare per l’uso dei combustibili fossili. Stiamo facendo troppo poco per limitarle e questo comporta che le temperature aumenteranno ancora».
Il rapporto della Wmo arriva dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’uscita dagli Accordi sul Clima di Parigi (che li farebbe fallire), ha promesso che aumenterà le estrazioni e l’uso di combustibili fossili e ha messo in dubbio le conoscenze scientifiche sul clima. «La scienza è indiscutibile. I tentativi di nascondere la scienza del clima al pubblico non ci impediranno di sentire i terribili impatti del cambiamento climatico», ha dichiarato Brenda Ekwurzel dell’organizzazione no-profit statunitense Union of Concerned Scientists.
Gli Stati Uniti sono attualmente il secondo inquinatore al mondo (dopo la Cina, che però ha 1,4 miliardi di abitanti contro i 340 milioni degli Usa). Alcuni temono che, di conseguenza, anche altri Paesi si pongano obiettivi meno ambiziosi. Anche l’Unione europea ha rinunciato agli obiettivi più ambiziosi della transizione ecologica. Le conseguenze le sentiremo tutti, sempre più spesso.
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La Cinebussola |
La Storia al centro dell’Europa |
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Discorso politico e narrazione atonale per Europa Centrale di Gianluca Minucci, ambientato nel 1940, su un treno, che, sferragliando nel cuore dell’Europa, diventa il baricentro della storia con la «s», maiuscola e minuscola. Siamo all’inizio della Seconda guerra mondiale. C’è un messaggio da recapitare ai satelliti comunisti d’Europa: lo manda il Comintern, l’organizzazione internazionale dei partiti con falce e martello nella bandiera. Chi deve portare a destinazione il comando viene braccato dall’Ovra, la polizia fascista, ma anche dagli stessi funzionari del partito comunista sovietico, che sospettano un caso di deviazionismo ideologico.
Il panorama intorno al gran viaggio comprende spie, traditori, femme fatale, nazisti e rivoluzionari. Proposto al Torino Film Festival 2024, il film – girato in 4/3 per dare un senso all’epoca dei fatti – è un dramma metafisico con inquadrature decentrate, allegorie e simboli, un’opera ambiziosa, autorale che privilegia l’effetto, con un’atmosfera claustrofobica e psicotica accentuata dalla regia espressionista di Minucci per il quale fascismo e comunismo sono stati, in varia misura, i virus che intossicarono l’Europa.
La fotografia di Carlo Rinaldi costruita a basso contrasto con colori crepuscolari, il montaggio di Ian Degrassi e la colonna sonora di Zbigniew Preisner aggiungono fascino all’insieme. Il cast, da Paolo Pierobon a Tommaso Ragno, è efficace, convinto e convincente.
EUROPA CENTRALE di Gianluca Minucci
(Italia, 2024, durata 87’, Danubio Film)
con Paolo Pierobon, Tommaso Ragno, Catherine Bertoni de Laet
Giudizio: 3 su 5
Nelle sale
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