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venerdì 21 marzo 2025
L’Europa divisa sui fondi per il riarmo
Meloni a Bruxelles
editorialista
di   Elena Tebano

 

Buongiorno.

 

 

Ieri i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Unione europea, riuniti nel Consiglio Ue, hanno discusso più nel dettaglio il piano ReArm Europe presentato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyenchiedendo di accelerare il lavoro sulle proposte della Commissione e «sulle relative opzioni di finanziamento». E hanno ribadito (con la sola e costante eccezione dell’Ungheria di Viktor Orbán) il loro «incrollabile sostegno all’indipendenza, alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale».

Le dichiarazioni ufficiali nascondono però il fatto che sui finanziamenti per il programma di riarmo ci sono ancora divisioniSpiega Francesca Basso:
Il piano di riarmo si basa sul debito nazionale e ci sono Paesi che, anche ipotizzando di usare gli strumenti messi a disposizione dalla Commissione, appesantirebbero troppo il bilancio. È il caso ad esempio di Francia e Italia, che per ora non intende né attivare la clausola di salvaguardia né usare i prestiti messi a disposizione dallo strumento Safe. L’idea di contrarre nuovo debito comune resta ancora non percorribile per alcuni Paesi. 
Il premier olandese Schoof ha ribadito che l’opposizione agli «eurobond non è una novità, è quello che diciamo sempre». Contrarie anche Austria e Germania. Il premier greco Mitsotakis ritiene che a un certo punto andranno introdotte «sovvenzioni per gli Stati membri dell’Ue». I Paesi geograficamente più vicini alla Russia sentono con più urgenza la necessità di aumentare la spesa per la difesa: per i Baltici, la Svezia, la Finlandia e la Polonia è una questione esistenziale, per i Paesi del Sud meno. La necessità di discutere di debito comune si ripresenterà con forza a giugno, dopo che al summit Nato dell’Aia sarà indicato il nuovo target di spesa per i Paesi dell’Alleanza (intorno al 3,5% del Pil) e sarà chiaro il nuovo sforzo finanziario da sostenere.

L’Italia, che sul piano è stata sempre tiepida, vuole evitare di accumulare troppo debito per il riarmo, ha chiesto più strumenti «davvero comuni» e una spinta alla partecipazione del capitale privato (un punto che è entrato nelle conclusioni del vertice). Il governo insomma non si è opposto al Safe — 150 miliardi di euro di prestiti per i Paesi membri e una «clausola» per scorporare una parte delle spese dal Patto di stabilità — ma al momento non vuole usarlo.

La posizione italiana non cambia: il governo Meloni ritiene che non possa esserci una difesa comune europea (dove il termine fondamentale è «comune»), ma solo dei singoli Stati sotto l’ombrello della Nato, come ha spiegato il ministro della Difesa Guido Crosettoin una lettera al Corriere). «È chiaro che noi siamo per potenziare la difesa europea e la difesa italiana. Allo stesso tempo, però, dobbiamo occuparci delle ricadute anche sui conti pubblici di questi progetti, e dunque per esprimere una valutazione definitiva aspettiamo tutti gli elementi utili e i dettagli tecnici necessari» ha detto ieri la premier Giorgia Meloni dopo il Consiglio europeo.

Scrive Marco Galluzzo:
Nelle interlocuzioni tecniche di queste settimane, uno dei punti su cui la nostra diplomazia sta insistendo di più è quello di alzare la soglia del cosiddetto «Buy European», ovvero la quota di spese militari che se finanziate dall’Unione Europea dovranno essere veicolate su prodotti e dispositivi militari costruiti all’interno dell’Unione.
Attualmente l’asticella è fissata a una quota di almeno il 65% delle spese future, ma il nostro governo che, a differenza di altri Stati europei ha almeno un grande player fra i produttori di armi, come Leonardo, vorrebbe alzare questa soglia sino al 70 o all’80%. Comprare europeo al momento significa comprare in Francia o in Germania o, appunto, in Italia. E nel caso di Leonardo ci sarebbe non solo un rafforzamento di un nostro campione nazionale, ma anche un ritorno in termini di dividendi che potrebbero essere reinvestiti proprio nell’aumento delle spese militari in ambito Nato.

Intanto un invito a rafforzare le politiche comuni europee, anche nei confronti degli Stati Uniti, arriva dall’ex premier del Lussemburgo Jean-Claude Juncker, famiglia Ppe, presidente della Commissione europea dal 2014 al 2019. «L’Unione europea è l’unico elemento di stabilità rimasto: si attiene ai suoi principi e cerca di farli rispettare agli altri. Ora dobbiamo distinguere tra l’Europa e gli altri, poiché Cina, Russia e Stati Uniti — non sto mettendo i tre sullo stesso piano — stanno creando disordine ovunque. Gli Stati Uniti hanno cambiato il loro comportamento, sono meno fedeli ai loro alleati rispetto al passato, l’Europa non può più considerare gli Usa come un alleato sempre fedele» dice Juncker, intervistato da Francesca Basso. «L’Europa non deve comportarsi come un nano, è il più grande mercato interno esistente. Dobbiamo avere fiducia in noi stessi, rispettare i nostri valori e fare una campagna per questi valori a livello internazionale. Quando sarà il momento, dovremo essere in grado di difenderci con i nostri mezzi. Non mi piace come suona, ma l’Europa dovrà riarmarsi. Credo che non abbiamo altra soluzione».

A premere per il riarmo europeo infine è il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «Sarebbe giusto che il programma Rearm Europe iniziasse il prima possibile, sono necessari fondi per rafforzare i nostri eserciti», ha detto ieri in videoconferenza dalla Norvegia, criticando i tentativi «antieuropei» di Viktor Orbán di bloccare tali piani. «Non sappiamo se Putin sia davvero pronto alla pace. In effetti, non sembra affatto disposto a bloccare gli attacchi. I bombardamenti contro l’Ucraina proseguono come prima», ha aggiunto.

Lo scontro sul Manifesto di Ventotene

Non si placano le polemiche sulla condanna del Manifesto di Ventotene fatta dalla premier Giorgia Meloni durante il suo discorso alla Camera sulla posizione italiana a proposito del piano di riarmo europeo. Ieri la premier ha ribadito le sue affermazioni all’uscita del Consiglio europeo: «Non ho insultato nessuno, semmai sono io a essere stata insultata. Non condivido l’idea di democrazia come oligarchia della sinistra. Il Manifesto? Mi sono limitata a leggerne in aula alcuni passi in cui si sostiene sostanzialmente che il popolo non è in grado di autodeterminarsi. La sinistra ha mostrato un’anima illiberale e nostalgica» ha detto.

Anche il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato Lucio Malannell’intervista a Paola Di Caro, ripete che «parte del contenuto di quel Manifesto non può oggi essere sottoscritto». L’opposizione invece anche ieri ha criticato Meloni sia durante la seduta del Senato sia fuori dall’aula, dicendo che «attacca Ventotene perché non sa come dire agli italiani che il suo governo è spaccato» (così il leader di +Europa Riccardo Magi) e vuole «nascondere le difficoltà con la Lega sul tema delle armi» (Chiara Appendino, M5S).

Durissimo il leader di Italia viva Matteo Renzi: «Usa il dramma di prigionieri del fascismo che sognavano un mondo di pace e giustizia per regolare i conti con le opposizioni. Quando Berlusconi, Prodi e nel mio piccolo anche io andavamo in Aula prima del Consiglio europeo cercavamo una posizione unitaria perché rappresentiamo l’Italia. Lei no. Lei rappresenta solo i fratelli d’Italia e le sorelle della Garbatella» dice, intervistato da Maria Teresa Meli, e aggiunge che «Lei è la vera Giorgia Meloni. In questi anni ha cercato di darsi un tono, di farsi vedere ragionevole. Ma lei è quella che usa i servizi segreti per spiare i giornalisti, fa leggi ad personam contro gli avversari, libera criminali come Almasri».

Antonio Carioti ha spiegato qui perché le parole della premier sul documento, scritto nel giugno 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi mentre erano costretti al confino dal regime fascista, sono fuorvianti.

Lo chiarisce ulteriormente Aldo Cazzullo, rispondendo a un lettore:
Può sembrare incredibile che una presidente del Consiglio, per giunta di destra, se la prenda nel 2025 con un gruppo di oppositori di Mussolini — uno dei quali, Eugenio Colorni, medaglia d’oro al valor militare, assassinato dai criminali fascisti della banda Koch — che nel 1941, quando l’Europa era devastata dalla Seconda guerra mondiale e i soldati italiani cadevano sul fronte greco e nel deserto africano, sognavano un’Europa unita e un mondo in pace. In realtà le parole di Giorgia Meloni sono perfettamente inserite nella logica e nella tattica dell’anti-antifascismo: la palla va sempre gettata nel campo degli altri. Certo, la dittatura, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler, la Seconda guerra mondiale non sono state grandi idee. Però, anche gli altri… Non volevano la democrazia, ma la rivoluzione, la dittatura. E poi le foibe, le vendette partigiane…
Ora, è vero che delle foibe e delle vendette partigiane per decenni si è parlato poco. Ma la lettura che Giorgia Meloni fa del Manifesto di Ventotene è oggettivamente sbagliata. Colorni, Rossi, Spinelli, Hirschmann non volevano abolire la proprietà privata. La frase va letta per intero: «La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». La Costituzione — non quella sovietica; quella italiana, su cui la Meloni ha giurato — stabilisce che la proprietà privata possa essere limitata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», e financo «espropriata per motivi di interesse generale».
Ma l’aspetto più interessante è un altro. Sembra quasi che l’idea dell’Europa sia diventata di sinistra. Ma l’Europa fu fatta dai moderati. Da tre leader cattolici, Konrad Adenauer, Robert Schuman, Alcide De Gasperi, oltretutto dalla formazione decisamente conservatrice, al contrario di quanto si afferma oggi. De Gasperi votò la fiducia al primo governo Mussolini, che poi lo fece mettere in galera. Schuman votò i pieni poteri a Pétain. Che ora l’Europa unita sia diventata un’«idea rossa» fa capire quali siano i limiti non solo politici ma anche culturali della nuova destra che sta 
andando al potere in mezzo mondo.

Il paese calabrese connivente con gli stupratori

«Mia figlia è stata costretta a lasciare il paese, noi siamo obbligati a vivere sotto minaccia e a subire continui danneggiamenti. Negli ultimi mesi hanno tagliato cinque volte le gomme della mia auto. Ci sentiamo in pericolo, nessuno ci aiuta». Lo racconta la madre della ragazza che per due anni, da quando ne aveva 14, è stata stuprata e minacciata di morte da un gruppo di giovani — alcuni minorenni — vicini ai clan della Piana di Gioia Tauro.

«Ogni mattina è un calvario. Appena mettiamo piede fuori dalla porta di casa inveiscono contro di me e mio marito con parole volgari. Qualche mese fa uno di loro addirittura ha minacciato di accoltellarmi. Ieri (il giorno della sentenza, ndr) l’ennesima intimidazione: la badante di un’anziana parente di uno degli stupratori di mia figlia mi ha aggredito con parole irripetibili» aggiunge la donna nell’intervista a Carlo Macrì.

Le sue parole sono un atto d’accusa pesantissimo sul degrado estremo di una comunità, l’assenza delle istituzioni e la loro incapacità di difendere i cittadini dalla violenza sistematica della criminalità organizzata.

«Viviamo in un ambiente culturalmente disagiato e intriso di criminalità. Alcuni nostri amici ci hanno espresso la loro vicinanza ma solo in privato. Hanno paura di esporsi pubblicamente. “Loro”, i parenti dei condannati, sono tutti vicini ai clan della zona. La gente qui ha paura. E io li capisco» racconta la donna. «Il fratello del sindaco è uno dei violentatori. È stato condannato a cinque anni in abbreviato. Il Comune si è costituito parte civile. L’ho chiamato quando una sua parente mi ha minacciato e lui mi ha risposto che “non prende le ragioni né mie né della sua famiglia”. Per non parlare del parroco. Non ha mai detto una parola. Per questo motivo non metto più piede in una chiesa. Ci hanno abbandonato tutti».

Sembra cronaca nera, in realtà è un’emergenza democratica.

 

Le altre notizie importanti

  • Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che la Federal Reserve (la banca centrale americana) avrebbe fatto meglio a tagliare i tassi «nel momento in cui i dazi statunitensi inizieranno a entrare nell’economia». La Fed ieri, invece, li ha mantenuti invariati e il suo presidente Jerome Powell ha detto che le politiche di Trump sembrano aver rallentato l’economia e alzato l’inflazione. Trump ieri ha anche firmato un ordine esecutivo per a smantellare il Dipartimento federale dell’Istruzione, mantenendo una promessa fatta in campagna elettorale agli ultra-conservatori.

  • Dopo che diversi cittadini europei — turisti, studenti, scienziati — sono stati respinti o portati in centri di detenzione per i migranti irregolari, la Germania ha lanciato l’allarme sui rischi per chi va negli Usa. Leonard Berberi racconta quali sono e spiega che a causa della politica di Donald Trump quest’anno i viaggi internazionali verso gli Usa caleranno del 5%.

  • Israele ha iniziato una nuova offensiva di terra nel nord di Gaza, con il «pieno sostegno» di Donald Trump. Intanto il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha licenziatoRonen Bar, il capo dei servizi segreti, che stavano indagando sulla sospetta corruzione di esponenti del suo partito da parte del Qatar (ne ha scritto Gianluca Mercuri nella newsletter Rassegna).

  • Il procuratore di Algeri ha chiesto 10 anni di carcere per Boualem Sansal, l’80enne scrittore franco-algerino arrestato all’arrivo in aeroporto, il 16 novembre scorso, per aver rilasciato commenti sui confini tra Algeria e Marocco. Sansal – spiega Stefano Montefiori – viene usato come moneta di scambio nello scontro tra Francia e Algeria che dura da mesi, e che continua ad aggravarsi su Sahara occidentale, immigrazione, e accordi bilaterali post-indipendenza.

  • Migliaia di persone hanno manifestato fuori dal municipio di Istanbul per la seconda notte consecutiva contro l’arresto del sindaco della città Ekrem Imamoglu, un avversario politico del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il suo arresto con le accuse di corruzione e terrorismo è solo l’ultima stretta di Erdogan contro i dissidenti e un’ulteriore tassello nella costruzione del suo regime autocratico. Oltre a Imamoglu sono stati arrestati anche altri personaggi di spicco, tra cui due sindaci di distretto.

  • L’associazione ambientalista Greenpeace è stata condannata a pagare più di 665 milioni di dollari di danni al gestore di un oleodotto in North Dakota, negli Stati Uniti, per le proteste contro la sua costruzione. Greenpeace, che aveva denunciato il processo come un modo per «metterla a tacere», ha annunciato che farà ricorso. Se il verdetto fosse confermato, la divisione americana dell’associazione potrebbe andare in fallimento.

  • Lega, Fratelli d’Italia e 5 Stelle accusano il sindaco di Roma Roberto Gualtieri per aver sostenuto economicamente, attraverso il Comune, la manifestazione pro Europa di piazza del Popolo del 15 marzo, convocata da Michele Serra e partecipata da intellettuali, artisti, politici e gente comune. Sul caso sono stati fatti o annunciati diversi esposti alla Corte dei Conti.

  • Lucia Simeone, assistente del capo della delegazione di Forza Italia al Parlamento europeo, Fulvio Martuscielloè stata arrestata nell’ambito dell’inchiesta belga per associazione per delinquere, corruzione e riciclaggio che ha portato in carcere a Bruxelles quattro lobbisti, accusati di aver corrotto dal 2021 una quindicina di eurodeputati per favorire Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni. A inizio 2021, Martusciello aveva firmato con sette colleghi, tra cui altri quattro italiani, una lettera contro il divieto in Europa delle apparecchiature 5G cinesi.

  • I commissari dell’ex Ilva hanno dato il via libera agli azeri di Baku Steel per rilevare la fabbrica che ora si chiama Acciaierie d’Italia.

  • «Uscimmo assieme, lei s’incamminò velocemente. Poi la vidi sparire… Non l’ho uccisa io, se avessi visto qualcosa mi sarei battuta per fermare ogni tipo di aggressione. E mai ci riunimmo con altri familiari per parlarne». Così Nazia Shaheen, 52 anni, la madre di Samandurante il processo per l’omicidio della ragazza di Novellara (Reggio Emilia) uccisa, secondo le accuse, dai familiari in un barbaro delitto “d’onore”, cioè un femminicidio.

  • Il ragazzo che il primo settembre scorso, ancora minorenne, ha sterminato la famiglia in una villetta di Paderno Dugnano (Milano), era «parzialmente incapace di intendere e volere» e si rifugiava nella fantasia. È quanto emerge dalla perizia psichiatrica disposta dal gip.

  • È stata sospesa dall’impiego e dallo stipendio la maestra di una scuola cattolica dell’infanzia della provincia di Treviso, che gestisce anche un profilo sulla piattaforma per adulti OnlyFans (del caso scrive anche Massimo Gramellini nel suo Caffè). Intanto il ministero dell’Istruzione sta pensando di aggiornare il codice etico per gli insegnanti.

  • Per la prima volta dal 1894 il Comitato olimpico internazionale ha eletto una donna alla sua guida: Kirsty Coventry da Harare, Zimbabwe, 41 anni, ex nuotatrice, è la nuova presidente del Cio.

  • È finita 1 a 2 a San Siro Italia-Germania, l’andata dei quarti di finale della Nations League. Dopo il gol al nono minuto di Sandro Tonali, i tedeschi hanno rimontato con Tim Kleindienst. Poi Leon Goretzka ha segnato il gol della vittoria a 14 minuti dal termine (qui le pagelle).

Da ascoltareNel podcast «Giorno per giorno», Francesca Basso analizza le decisioni in materia di difesa prese dal Consiglio europeo a Bruxelles. Sara Gandolfi racconta la sentenza di un tribunale del Nord Dakota che condanna Greenpeace a pagare 660 milioni di dollari per il sostegno alle battaglie dei nativi americani contro la costruzione di un oleodotto. Valentina Santarpia parla della vicenda della maestra d’asilo che ha aperto un profilo sul sito OnlyFans.Da leggereLa Cinebussola di Paolo Baldini con le prime visioni da guardare al cinema e le novità delle piattaforme digitali: «Biancaneve», «The Alto Knights – I due volti del crimine», «Le donne al balcone – The Balconettes», «The Monkey», «Hit Man – Killer per caso», «A Different Man», «Berlino, estate ’42», «U.S. Palmese», «Nosferatu», «Borderlands»Il Caffè di Gramellini

La maestra è su OnlyFansIl caso Elena Maraga, la giovane maestra d’asilo del Trevigiano attiva su OnlyFans, provoca certamente un disagio, ma suscita anche riflessioni che ne creano uno d’altro genere. Abbiamo teorizzato per anni che ogni bisogno è un diritto, respingendo qualsiasi limitazione in nome dell’autenticità e costruendo un’etica e un’epica «me-stessista» in cui tutto ruota intorno al libero dispiegarsi della personalità individuale. Abbiamo affermato in fior di convegni che concetti come decoro e prestigio sono ormai relativi, soggettivi, superati. Però questo impianto «illuminato» è destinato improvvisamente a spegnersi davanti a un unico, gigantesco tabù: il sesso. La maestra sarebbe infatti autorizzata a chiederci: «Se tutti possono essere e fare quello che vogliono, perché solo a me vorreste impedire di arrotondare il magro stipendio con un’attività che svolgo al di fuori dell’orario di lavoro e che non dà fastidio né toglie o aggiunge niente a nessuno? Se partecipassi a un Gay o a un Etero Pride, o riempissi i social con dei video in cui ballo una danza esotica, nessuno si sognerebbe di sanzionarmi, a condizione che non imponessi i miei gusti agli alunni, giusto? Quindi è solo il fatto di guadagnare dei soldi col sesso che mi rende inadatta a insegnare? Non è che vi date tante arie da progressisti, ma nell’intimo siete rimasti dei bigotti?».Sinceramente avrei qualche difficoltà a risponderle che ha del tutto torto. Ma si accettano suggerimenti.

Grazie per aver letto Prima Ora, e buon venerdì(Le mail della Redazione Digital: gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it)

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giovedì 20 marzo 2025
Parlare di carcere, la tecnodestra avanza, il nuovo inferno di Gaza, in nome del petrolio
La rivincita dei «bulli del petrolio»Le proteste in Nord Dakota che hanno portato alla condanna di Greenpeace
editorialista di   Luca Angelini
Bentrovati.Parlare di carcere Oggi, alla Camera, c’è stata la seduta straordinaria sul carcere. Forse, come molti dibattiti, non è servita a nulla. Però parlare serve sempre e Alessandro ci racconta alcune cose interessanti che hanno a che fare con la pallavolo, Gianni Alemanno ed Enzo Tortora.Tutto il potere ai server Qualcuno la chiama «tecnodestra», ma sono i soliti noti: Thiel, Musk, il vicepresidente Usa J.D. Vance. Predicano un futuro digitale all’insegna di una libertà parente stretta della licenza e dell’assenza di regole. Come rispondere?La guerra senza fine È quella di Gaza, ripresa dopo due mesi di tregua, con oltre 700 morti in 48 ore. Un nuovo round senza giustificazioni, osservano gli analisti, se non le priorità politiche del premier israeliano Netanyahu. Sullo sfondo, resta l’ipotesi choc della cacciata in massa dei palestinesi, tra «Riviera» di Trump e mire dei coloni. Ne parla Gianluca.Petrolio in bocca Alla vigilia della sentenza, il Financial Times aveva scritto che sarebbe stato un test per la libertà di parola nell’America di Trump. Adesso che Greenpeace è stata condannata a una multa pesantissima per le proteste del 2016-17 contro un oleodotto che «tagliava» una riserva di nativi americani in Nord Dakota, Sara Gandolfi ha scritto (nella sua newsletter Mondo Capovolto: ci si iscrive qui) che è «la rivincita dei bulli del petrolio».Mal d’Africa Nel suo settimanale appuntamento con la Rassegna, il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, ci parla delle gravi violazioni dei diritti umani in Niger dopo il colpo di Stato del 2023.Di cognome ma non di fatto Secondo gli studi di un genetista belga, la percentuale di figli nati da padri che non corrispondono a quelli registrati all’anagrafe è vicina all’1%, con picchi nei periodi di grandi cambiamenti sociali. Un caso famoso riguarda la famiglia Beethoven. Ce ne parla Alice Scaglioni.La Cinebussola Secondo Paolo Baldini, il film che il 78enne Benoît Jacquot ha tratto da un romanzo di Simenon è «il noir più intrigante della stagione».Buona lettura!gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it
Rassegna penitenziaria
Di cosa parliamo quando parliamo di carcere
editorialista
Alessandro Trocino
Non so se qualcuno dei lettori ha mai ascoltato per intero un dibattito in Parlamento, a parte gli spezzoni che ci propongono i tg. Si trovano agevolmente e integralmente sui siti istituzionali o sul sito di Radio radicale. In un’Aula semideserta ci sono dei parlamentari che parlano ognuno per cinque o dieci minuti. Qualcuno sbadiglia. A volte i dibattiti durano ore e sono parecchio noiosi. Cosa dicono? A cosa servono? Spesso a niente. Prendiamo la seduta straordinaria sul carcere, chiesta dalle opposizioni, che si è svolta oggi alla Camera. Cambierà qualcosa nello stato delle carceri? Ci saranno meno sovraffollamento e meno suicidi? Ci saranno novità? No. Eppure, conviene guardarle queste sedute, ogni tanto. Ascoltarli questi deputati. Perché si scopre chi sono, per chi votiamo. Gente svogliata, che ripete slogan o formulette ideologiche. Ma anche deputati appassionati, informati, colti. Forse non serve a niente. Forse un’eco lontana di quelle parole arriverà, da qualche parte.Chissà se dal governo qualcuno ha ascoltato questi discorsi sul carcere. Lì in Aula, in verità, non si è presentato nessuno. Non c’era il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sempre impegnatissimo. Non c’erano i sottosegretari alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove e Andrea Ostellari. Erano sostanzialmente assenti i gruppi di Fratelli d’Italia e della Lega. Nessun esponente di questi due partiti ha preso la parola in prima battuta. Solo un deputato di Forza Italia, Tommaso Calderone.Per l’opposizione hanno parlato deputati poco noti. Nessun big. Peccato. Schlein o Conte potrebbero sporcarsi le mani, ogni tanto, e impugnare la bandiera. Preferiscono delegare. Non sono temi decisivi, anzi, rischiano di far perdere voti. E così per il Pd parlano Paolo Ciani, Mauro Berruto, Michela Di Biase, Rachele Scarpa. Per i 5 Stelle Stefania Ascari, Raffaele Bruno. Poi ci sono i soliti noti, i pochi che si occupano a tempo pieno, o quasi, di questi temi, come Riccardo Magi e Roberto Giachetti. Solo in sede di dichiarazione di voto, in pratica obbligati, parlano Jacopo Morrone (Lega) – «Con questo governo abbiamo fatto grandissimi passi avanti» – e Alessandro Palombi (Fdi).Cosa chiedevano le opposizioni? Di parlarne. Di parlare del sovraffollamento che aumenta: «È il 132 per cento ma un anno fa era il 117 per cento», dice Scarpa. Perché? Perché cambiano le leggi, come dice Ciani: «La dottrina del governo è nota: più reati, più pene, più carcere». Riassumere le posizioni è facile. Pd e Iv chiedono meno detenuti, più agenti, più assistenti sociali, più mediatori culturali, più medici, più lavoro, più attività. Non l’amnistia o l’indulto (non ci sono i numeri ma ormai sono troppo impopolari e neanche il Pd li voterebbe). Piuttosto la liberazione anticipata speciale, proposta da Giachetti. Far uscire prima qualche migliaio di detenuti a fine pena. Su questo il Movimento, su posizioni più giustizialiste, è contrario, anche se concorda con il resto delle richieste del Pd. Quanto a Fdi e Lega, la posizione è chiara: edilizia. Bisogna costruire più carceri. Forza Italia è più attenta alle posizioni garantiste, si preoccupa di chi è in misura cautelare (15 mila su oltre 60 mila) e non esclude un rafforzamento delle misure alternative per i condannati.Ma, per una volta, evitiamo la conta di quel che non va e di quel che bisognerebbe fare. E diamo tre spunti, tratti dal dibattito.Giachetti segnala la lettera di due detenuti, pubblicata ieri dall’Unità, che invita la destra – in vista della seduta straordinaria sul carcere di oggi – a non riproporre il «logoro argomento securitario». Uno è Fabio Falbo. L’altro si chiama Gianni Alemanno, a Rebibbia dal 31 dicembre per aver violato gli obblighi per l’affidamento ai servizi sociali e avere incontrato un pregiudicato. È stato sindaco di destra di Roma. In gioventù missino, rautiano e segretario del Fronte della Gioventù. Non proprio un «buonista» di sinistra, insomma. Eppure dice no al «logoro argomento securitario». Se non fosse finito dietro le sbarre, se avesse continuato a fare interviste e interventi da politico in libertà, avrebbe detto le stesse cose? Si è logorato in cella «l’argomento securitario»?Mauro Berruto è un deputato dem, ma è stato anche un famoso allenatore di pallavolo. Racconta un aneddoto che riporta quasi a «Qualcuno volò sul nido del cuculo»: «Nel 2008 allenavo una squadra a Montichiari, Brescia. Vicino c’era un Ospedale psichiatrico giudiziario, Castiglione delle Stiviere, ora li hanno chiusi. Alcuni medici della struttura mi proposero di lavorare insieme, attraverso lo sport. Visitai l’Opg. È un ricordo agghiacciante, uno dei posti più terribili che abbia mai visto. Dissi che non c’erano le condizioni per lavorare là dentro, con la pallavolo. Però se convincevano un giudice a fare svolgere ai detenuti un’attività fuori, potevo far allestire il palasport di Montichiari e andarci nel mio giorno libero. Il giudice disse sì. La collaborazione durò sei mesi, fu straordinaria e molto divertente. La peggior squadra che avessi mai allenato. Finì in modo quasi hollywoodiano, ci fu una partita contro una squadra di diciottenni e noi vincemmo un set. Sembrava Fuga per la vittoria. I medici tornarono da me con un foglio excel e mi fecero vedere: quelle persone nel periodo in cui giocavano avevano consumato la metà degli psicofarmaci che assumevano. Da quel giorno è cambiato il mio modo di vedere lo sport: è uno strumento straordinario di reinserimento sociale e i dati dimostrano che dove si pratica sport, nelle carceri, i suicidi diminuiscono».Infine, Enrico Costa, deputato di Forza Italia, uno dei più attenti e sensibili al tema dei diritti e delle garanzie: «Il 30 agosto del 1983, Enzo Tortora scrisse dal carcere una lettera a mio papà, suo caro amico ed esponente del Partito liberale. Ascoltatemi e ditemi cos’è cambiato da allora». Scriveva così, Tortora: «Ciò che mi indigna – a parte la stregonesca, medievale, iniquità del rito -, è questa giustizia in ferie come una rivendita di gelati, è questa spazzatura umana, tale è la considerazione del cittadino per certi giudici, lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri, piena di disperati, di non interrogati, di sventurati e di innocenti, come me. Fate qualcosa, ve ne prego».
Rassegna politico-tecnologica
Thiel, Musk, Vance e noi: libertà, regole e potere ai tempi della tecnodestra
editorialista
Luca Angelini
«Quando è entrato al Grand Palais di Parigi per il summit mondiale voluto da Macron – ha ricordato Mario Garofalo sul Corriere – J.D. Vance ha detto chiaramente che cosa pensa dell’intelligenza artificiale: che debba crescere senza troppi «tormenti» per la sicurezza. E d’altra parte uno dei primi atti compiuti da Trump è stato quello di cancellare l’ordine esecutivo di Biden che metteva un minimo di paletti agli algoritmi, perché la rivoluzione tecnologica in atto promette novità mirabolanti ma presenta anche rischi: con un’AI fuori controllo si possono fabbricare fake news, compiere crimini, hackerare sistemi finora impenetrabili. L’intelligenza artificiale secondo Donald è invece piuttosto sregolata, un modello esattamente opposto a quello seguito dall’Europa con l’AI Act».Del tema si era occupato anche Andrea Venanzoni, su Le Grand Continent, in un articolo intitolato «Tecnodestra e sicurezza imperiale: le radici del Lebensraum algoritmico nell’America di Trump». Che cos’è la tecnodestra? Un primo nucleo coincide, grosso modo, con la «PayPal Mafia», come da articolo di Fortune del 2007 (concetto poi ribadito dalla stessa rivista nel luglio scorso), nata attorno a uno dei fondatori di PayPal, Peter Thiel – l’altro era Elon Musk – un concentrato di cervelli tech e imprenditoriali che ha sfornato Palantir Technologies, Tesla, SpaceX, Affirm, Yelp, YouTube, LinkedIn e altro ancora.Primo appunto di Venanzoni da segnare: «La Palantir Technologies di Thiel e Alexander Karp è una società leader nella realizzazione di complessi sistemi software per la analisi massiva di dati, per la profilazione a fini di sicurezza nazionale e di sorveglianza e può vantare commesse statali che compongono il 60% complessivo dei suoi introiti». Secondo appunto: «La società ha mutuato il proprio nome dalle pietre veggenti de Il Signore degli Anelli, di cui Thiel, come pure Musk, è più che un semplice, per quanto grandissimo, appassionato» (e che, peraltro, affascina da sempre anche la premier italiana Giorgia Meloniqui un articolo di Wired). Terzo appunto, che aggiungiamo noi: Thiel è stato il grande sponsor dell’ascesa politica di JD Vance (altro fan di Tolkien, quando si dicono le affinità elettive), che ha avuto anche come dipendente in una delle sue società, Mithril Capital.Alla PayPal Mafia si è poi aggiunto Marc Andreessen, il re dei venture capitalist californiani. «Marc Andreessen, proprio come Peter Thiel, non si limita ai pur rilevanti affari e ha una sua visione filosofica – spiega Venanzoni -. Nell’ottobre 2023, ha pubblicato online un Manifesto del Tecno-Ottimismo, al cui interno si rinvengono fonti concettuali disparate, dall’accelerazionista Nick Land a Vilfredo Pareto, da Nietzsche a Thomas Sowell, dal teorico anarco-capitalista David Friedman al futurista Filippo Tommaso Marinetti e che tradiscono un caotico eclettismo che però, quando poi scende nel campo delle decisioni e delle scelte, si tramuta in granitico pragmatismo visionario. Visionario, perché come Thiel, Andreessen reputa che il vero successo consista nell’aprire nuove rotte, per seguire strade mai aperte prima da altri. Pragmatico, perché Andreessen snocciola i nemici della crescita economica, della vocazione alla potenza e della difesa della libertà: teorici della decrescita, integralisti del green, amanti della iper-regolazione, responsabilità sociale delle imprese contro cui già Milton Friedman aveva tuonato, il woke, autentico cavallo di Troia dei nemici dell’Occidente. Individua del pari la strada da percorrere, che va assemblata giustapponendo ciottoli rappresentati da investimenti su intelligenza artificiale, robotica, nucleare, rimettendo l’uomo al vertice dell’ecosistema e puntando soprattutto sulla sinergia tra innovazione capitalistica e interesse nazionale. Una visione di un impero della libertà da puntellare, rafforzare, espandere, attraverso la sicurezza, che sintetizzi tra loro modulazione disruptive dell’alta tecnologia e dei suoi demiurghi privati e fisionomia degli apparati statali».

 

Concetti che si ritrovano anche e soprattutto nel libro del già citato Karp, La repubblica tecnologica (la versione italiana sarà pubblicata da Silvio Berlusconi Editore). Venanzoni li sintetizza così: «La posta in gioco è esplicitata in maniera cristallina; il futuro dell’Occidente. E questo futuro, non per caso, passa anche attraverso il potere duro, quello della sicurezza, quello degli eserciti e quello della tecnologia al servizio dell’interesse nazionale. E cosa dice Karp? Sostiene, echeggiando Thiel, che innovazione tecnica, progresso culturale e volontà di rischiare siano elementi fondamentali per salvare l’Occidente dalla stagnazione e dalla deriva in cui è ormai piombato. Un clima, questo, che potrebbe essere agevolmente utilizzato dai nemici della libertà e dell’interesse nazionale americano».

 

 

Quanto alle ramificazioni internazionali, Venanzoni aggiunge che «la tecnodestra, le cui radici sono in America, ha però interessi interconnessi tra diversi Paesi, e parla per questo il linguaggio della libertà in luogo dell’uso esplicito di singoli interessi nazionali. I discorsi, i libri, i manifesti della tecnodestra utilizzano la locuzione “Occidente”, non solo come spazio da conquistare ma da preservare e da difendere da invasioni, decadenza, stagnazione». Per portare avanti questa ambiziosa agenda diventa essenziale costituire una rete internazionale di aree non semplicemente vassalle ma connesse da una visione comune che sappiano utilizzare la tecnologia statunitense».

 

 

Della PayPal Mafia e del libro di Karp parla anche padre Paolo Benanti – teologo francescano che il governo Meloni ha scelto come presidente della commissione Intelligenza artificiale per l’informazione (ma il suo lavoro, pensa un po’, non sembra piacere a Andrea Stroppa, l’uomo di Musk in Italia: qui una videoanalisi di Antonio Polito) – nell’intervista con Walter Veltroni per il Corriere: «Peter Thiel, il vero ideologo di questa combriccola, nei suoi discorsi cita René Girard, che insegnava a Stanford, e la sua idea dell’esistenza di una natura competitiva di fondo. Per Girard la grazia non è per tutti e siccome c’è chi è salvato e chi è sommerso, c’è un’idea di dannazione globale che per lui diventa anche modello economico. Lui sostiene fin dagli anni Novanta il concetto di sovranità individuale, e accusa la cultura woke, la teoria dell’inclusione, di essere sostanzialmente il male. Chi ha successo ha la grazia e ha una dignità, chi non ce l’ha può invece essere sommerso, escluso, eliminato» (a noi viene in mente la critica del filosofo Michael Sandel nel libro La tirannia del merito).

 

 

Quanto al libro di Karp, Benanti fa notare che il ceo di Palantir «non usa mai la parola democrazia, ma usa la Repubblica, rifacendosi a Platone. Auspica che a governare siano tutte persone laureate in filosofia o in scienze politiche. Perché chi governa è, deve essere, una nuova classe illuminata. E quindi un modello che sta tra l’estremo individualismo, che si appoggia su sottostanti strutture tecnologiche, e un governo delle élite, perché più efficiente e meno lento della tradizionale democrazia».

 

 

Se questo è il quadro e se l’obiettivo è quello di ottenere uno «spazio vitale algoritmico», nuove praterie per i progetti di intelligenza artificiale (non crediamo che Venanzoni usi a caso il termine Lebensraumdi hitleriana memoria), si inizia a capire meglio perché l’Unione europea sia la nemica giurata di Thiel, Musk, Vance e soci. Venanzoni lo spiega così: «L’ambizione europea di divenire un regolatore universale, e unilaterale, sull’onda montante del sempre più complesso framework normativo che assomma ormai Digital Services Act (Dsa), Digital Markets Act (Dma), Artificial Intelligence Act, e della modellazione di un mercato unico digitale europeo che finirebbe per essere impermeabile all’ingresso e alla espansione dell’influenza della tecnodestra, viene ormai da questa percepita come una minaccia, come una deriva ostile, una falla nella costruzione dell’arcipelago turrito della sicurezza imperiale. In questa chiave vanno letti il sostegno a formazioni politiche euro-scettiche che sembrano promettere una ridefinizione radicale degli assetti istituzionali euro-unitari e le minacce di Trump di dazi selettivi che risparmierebbero però l’Italia. In questo senso, vanno le parole di Mark Zuckerberg, il quale, pur non direttamente parte del dispositivo della tecnodestra, è amico e compagno di affari di Thiel sin da quando Thiel finanziò la Facebook degli albori; Zuckerberg ha detto, esplicitamente, che si attende che Trump ripristini le libertà americane, tra cui quella di espressione, minacciata dalla normativa europea» (anziché, par di capire, dalle continue ritorsioni contro chi osa criticare il manovratore: qui il più recente esempio, ma ne abbiamo parlato anche nella Rassegna del 7 marzo).

 

 

(Per inciso, a proposito di libertà di espressione e partiti, padre Benanti fa notare che «se una piattaforma digitale non si limita a trasmettere, ma seleziona alcuni contenuti per alcuni utenti, è ovviamente un’attività editoriale e dovrebbe essere almeno sottoposta per analogia alle regole di chi fa attività di informazione. È evidente l’uso di alcune di queste piattaforme per il sostegno esplicito di alcuni partiti nello scenario europeo e quello che accade nei risultati elettorali ci dice che non è solo una teoria, ma un uso pratico spregiudicato che una volta avrebbe avuto un nome molto chiaro: influenza esterna sui processi democratici interni a un Paese»).

 

 

La cura proposta da Venanzoni in chiusura della sua analisi ci sembra, però, pur se condivisa da altri, meno convincente della diagnosi. Preoccupato che l’Europa possa passare dalla padella della tecnodestra americana alla brace del «Dragone di silicio», ossia al mondo digitalizzato con caratteristiche cinesi, Venanzoni conclude: «Così come è oggi l’Unione Europea, ombelicalmente rinchiusa nella sua considerazione di poter governare l’accelerazione tecnologica privilegiando la norma a discapito dell’innovazione, in un frangente in cui il mercato si connette alla potenza degli eserciti, non suscita alcuna attrazione, né può davvero esercitare un ruolo di autentica influenza nello scacchiere planetario. È certo questa l’occasione per un radicale ripensamento della architettura istituzionale dell’Unione, dei suoi meccanismi decisionali, della sua stessa filosofia di fondo. Privilegiando, in una fase tanto delicata a livello globale, finalmente innovazione, competitività, riducendo in maniera draconiana stock e flusso di normazione, rigettando la ideologizzazione ambientalista che ha contraddistinto l’agenda green, cogliendo la sfida della tecnodestra americana come proposta di una alleanza, paritaria, prima che sia troppo tardi».

 

 

Ben diverso è stato il suggerimento di Ferruccio de Bortoli dalle pagine dell’Economia del Corriere: «C’è una sottile linea rossa che l’Unione europea non dovrebbe mai abbandonare nel difendersi dalle decisioni unilaterali degli Stati Uniti. (…) Con la Casa Bianca si può e si deve trattare su tutto. Ma non su quelle regole di responsabilità delle piattaforme racchiuse nel Digital service act (Dsa) e nel Digital market act (Dma) che sono espressione della nostra civiltà giuridica. Tutt’altro che liberticide. Anche se a volte troppo barocche. Basti pensare solo alla tutela dei minori. La libertà d’espressione si esercita nella responsabilità delle opinioni e dei contenuti, non nella viltà dell’anonimato. E nel rispetto del diritto di ogni cittadino ad essere correttamente informato. In una giungla priva di norme, il cosiddetto free speech rischia di essere anche e soprattutto l’arbitrio del più forte, di colui che, tronfio del suo potere economico e politico, sceglie chi far parlare e chi silenziare. E arriva addirittura a cambiare i fatti se non gli aggradano. Ovvio che stiamo parlando dei principi, non di dettagli operativi o di modalità applicative. Se si dovesse rinunciare a questa “sottile linea rossa”, la nostra controparte americana avrebbe qualche ragione nel ritenere che regole di carattere generale siano solo il frutto di una scelta squisitamente politica, di convenienza tattica. No. Quelle norme, per quanto perfettibili e anche discutibili, sono il precipitato di valori costituzionali intrinseci all’identità europea».

 

 

Oreste Pollicino, docente di diritto costituzionale all’Università Bocconi, sottolineava all’Economia che «ovviamente nell’America di Trump ci troviamo di fronte a una interpretazione più estrema, rispetto al passato, del cosiddetto free speech». «Ma anche – aggiungeva de Bortoli – ed è questo un altro punto estremamente importante, alla difesa a spada tratta degli interessi economici delle principali piattaforme. Il business viene prima di tutto». E in quel business rientra anche (o soprattutto, vedi l’intervista di Viviana Mazza al segretario Usa al Commercio Howard Lutnick) la lotta ai tentativi dell’Ue di far pagare ai colossi di Big Tech le tasse eluse. In proposito, de Bortoli concludeva: «L’Unione europea avrebbe uno strumento di contrasto ai dazi americani assolutamente efficace, proprio sul terreno in cui gli Ott (Over the top, ossia i giganti del tech, ndr) non sembrano avere rivali. Il nodo centrale è costituito dagli interessi delle grandi multinazionali del web. L’obiettivo degli attacchi di J.D. Vance a Monaco era proprio questo, difendere i loro interessi. La polemica sul free speech, che l’Europa soffocherebbe, era solo un pretesto. È il segno dei tempi. Una ragione in più per non recedere da quella “sottile linea rossa”».

 

 

Perfino uno non certo sospettabile di simpatie per l’Europa delle regole, come Giulio Tremonti, sugli interessi delle grandi multinazionali e la tassazione dei giganti del web ha invitato, sul Sole 24 Ore, a non piegarsi ed avere più coraggio: «Si tratta, a fronte dei dazi americani, di riequilibrare la politica commerciale che è di competenza esclusiva della Ue. Non si agisce dunque più solo in termini fiscali, ma “commerciali”, identificando un quantum di ricchezza che è prodotto in Europa e che dunque può essere oggetto di risposta ai dazi americani».

 

 

Padre Benanti è sulla stessa linea di de Bortoli: «Lo spirito del tempo identifica la regolamentazione come profonda distruzione dell’esistenza e dell’autonomia dell’individuo. È forse la prima volta che ciò accade con questa potenza ed è qualcosa che ha il potere di corrodere non solo la fiducia nelle istituzioni, ma lo stesso scopo e senso delle istituzioni. (…) Il modello economico che stiamo conoscendo ricorda tanto l’economia feudale, dove c’era il Landlord che ci consentiva di coltivare la sua terra in cambio di un pezzo di provento. Oggi abbiamo il Datalord e noi siamo i feudatari del suo parco dati. Questa cosa è accaduta nel primo decennio di questo secolo, quando si è passati dal web 1 al web 2. Con il primo web ognuno si faceva il proprio sito web. Sembrava libertà. Quando è nato il web 2.0, dove le capacità per mettere a terra un servizio erano molto più alte, si è imboccata la strada che porta a questi supernodi che concentrano potere (a proposito: non perdete la serie di articoli su come è cambiata, in peggio, la Rete, che Riccardo Luna sta pubblicando per Loginndr)».

 

 

In un intervento sul Corriere, firmato assieme a Sebastiano Maffettone, padre Benanti era stato ancora più esplicito: «Si potrebbe pensare così che sempre più la parte tecno funge — come aveva anticipato un filosofo quale Michel Foucault — da supporto per un insieme di dispositivi di regolamentazione e controllo da parte delle grandi compagnie. Trasformando il tecno-libertarianismo in una sorta di tecno-fascismo». «Il punto è – dice ancora a Veltroni – visto che non è solo digitale, ma anche economia reale, come dovremo comportarci nei confronti di questo processo?».

 

 

La risposta di Thiel, Musk, Vance e soci la conosciamo: «Lasciate fare a noi». E la nostra?

 

Rassegna della guerra
L’incomprensibile nuovo round della guerra a Gaza. O comprensibilissimo
editorialista
Gianluca Mercuri

 

Dunque è ricominciata la guerra a Gaza, più di 700 morti in 48 ore, tantissimi bambini, un migliaio di feriti, il bilancio totale delle vittime che si avvia verso i 50 mila, qualche capo minore di Hamas ucciso perché quelli veri sono già stati eliminati. Destino degli ostaggi di nuovo in bilico, migliaia di israeliani che tornano a protestare in piazza. Un Paese abituato a guerre lampo, che si chiudevano in poche settimane o giorni, la più strabiliante addirittura sei, si ritrova da 532 giorni nella forever war che Benjamin Netanyahu aveva solo interrotto perché Donald Trump aveva bisogno di esibire un successo diplomatico. Ora il presidente Usa gli ha dato di nuovo carta bianca, e il premier israeliano ha ripreso i raid. Il nuovo capo di Stato maggiore Eyal Zamir lo diceva da giorni: il 2025 sarà un anno di guerra. E guerra è.

Una guerra di routine ormai.
 Ordini di evacuazione dei civili, attacchi, carri armati. L’ex capo di Stato maggiore, Herzl Halevi, è stato fatto fuori perché ritenuto troppo molle, eppure, scrive Yossi Melman su Haaretz, «la realtà è che sotto il comando di Halevi, l’esercito ha combattuto – almeno nelle prime settimane – una guerra di vendetta, causando la morte di migliaia di gazesi innocenti e la distruzione deliberata di edifici residenziali e infrastrutture civili». La guerra giusta scaturita dal massacro del 7 ottobre ’23 si è trasformata rapidamente in qualcos’altro, la guerra di Netanyahu per non rispondere personalmente di quel tragico fallimento, per sospendere il Paese in uno stato di mobilitazione perenne, senza più confini, quelli fisici e quelli tra presente e futuro, ormai indistinti nella nebbia della guerra. Un Paese unito e sostenuto inizialmente dalla solidarietà internazionale nella sua inevitabile risposta al terrore, è di nuovo diviso e malvisto dal mondo. I 300 mila riservisti fanno fatica a integrare di continuo i ranghi regolari, poco più della metà. In molti non rispondono ai richiami per gli addestramenti, la sensazione di combattere non una guerra esistenziale ma una guerra politica li fa sentire traditi, come pure l’esenzione dalla leva degli ultraortodossi, tuttora un tema tabù per Netanyahu che senza il sostegno dei partiti religiosi cadrebbe. Sul futuro di Gaza, nessun piano ufficiale del governo, nessun pronunciamento del premier se non la «vittoria totale» su Hamas. La Riviera pretesa per sé da Trump si alterna alle mire costanti dei coloni, ma i due progetti potrebbero sposarsi. Il piano arabo per una graduale riconsegna della Striscia all’Autorità nazionale palestinese e la sua ricostruzione ad opera delle potenze del Golfo, del tutto ignorato.

 

 

La chiarezza di Melman colpisce: «In questo round, è difficile trovare anche solo uno straccio di giustificazione per la decisione di rinnovare la guerra. Da qualsiasi punto di vista, questa è una guerra di scelta. Non è una guerra per la sopravvivenza. È una guerra politica, resa possibile dal cieco sostegno di Trump a Israele e a Netanyahu. Ancora una volta, la giustificazione demagogica e falsa di Netanyahu per il lancio della guerra è che Hamas si è rifiutato di rilasciare gli ostaggi e, quindi, di infliggergli un colpo finale». La verità deve spiegare ancora una volta questo analista come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, è che il premier aveva bisogno che il partito più estremista, quello di Itamar Ben-Gvir, rientrasse nella coalizione abbandonata perché era stata accettata la tregua: i suoi voti servono per far approvare il bilancio, «e anche, sotto la copertura della guerra, per continuare l’accelerazione legislativa volta a indebolire ancora una volta le istituzioni democratiche tradizionali di Israele e i suoi organismi di controllo». Si punta a cambiare il capo dello Shin Bet perché il servizio segreto interno sta indagando sul Qatargate locale, i soldi qatarini che sarebbero finiti nelle tasche di membri dell’entourage di Netanyahu quando il piccolo ma influentissimo Paese foraggiava Hamas d’accordo con Netanyahu: il premier si illudeva che gli islamisti di Gaza si sarebbero accontentati dei soldi, e di poter continuare a fingere di non avere interlocutori per la pace – l’ostracismo per l’Anp era inossidabile – e mantenere in freezer la questione palestinese.

 

 

Ora, anche la nuova operazione viene lanciata senza un obiettivo strategico, oltre la distruzione di Hamas. Riaffiora allora il timore di conseguenze sconvolgenti: «Se dovesse diventare un’invasione di terra su larga scala, potrebbe esserci un obiettivo ancora più nascosto: innescare una reazione a catena. Infliggere a Gaza una distruzione così massiccia da portare alla pulizia etnica o al trasferimento volontario. In questo scenario, centinaia di migliaia di residenti non potranno più vivere sul territorio, nemmeno in tendopoli o in rifugi di fortuna. Ignoreranno gli avvertimenti e si precipiteranno verso il confine egiziano e nel Sinai. Se, per carità, qualcuno in Israele concepisse un’idea così mostruosa, potrebbe allinearsi perfettamente con il piano di Trump di trasferire 2,2 milioni di gazesi in Egitto e Giordania, per fare spazio alla “Riviera di Gaza”».

 

 

Di certo, Netanyahu non si discosta dal mantra della guerra perpetua, e va detto che è un mantra coltivato con successo: più dura la guerra più è certo di restare al potere. per la semplice ragione che la maggior parte degli israeliani accetta il concetto di «non agitare la barca quando siamo nel mezzo di una tempesta».

 

 

L’altra Israele possibile sta tornando in piazza. Che serva è certo; che basti, non proprio.

 

Mondo Capovolto
La rivincita dei «bulli del petrolio» in Nord Dakota
editorialista
Sara Gandolfi

 

Il fatto non è accaduto nel Global South, ma nel Nord Dakota dell’era Trump. Eppure la durissima sentenza emessa ieri negli Stati Uniti riguarda, e minaccia, la tutela di una popolazione fragile, i nativi d’America – quel «Sud» sempre presente all’interno del nostro ricco «Nord» – e un principio che è alla base della democrazia: la libertà di parola e di espressione.

La giuria popolare era composta da nove persone, nel tribunale della contea di Morton, a meno di un’ora dalla riserva Sioux. Dopo due giorni di deliberazioni, ha stabilito che Greenpeace dovrà risarcire con oltre 660 milioni di dollari la società di oleodotti Texas Energy Transfer, che aveva citato in giudizio la ong ambientalista per il suo ruolo nelle proteste del 2016 e 2017 contro la discussa Dakota Access Pipeline. Il britannico Guardian sottolinea che «più della metà dei giurati selezionati per il caso aveva legami con l’industria dei combustibili fossili e la maggior parte aveva opinioni negative sulle proteste anti-oleodotto o sui gruppi che si oppongono all’uso di combustibili fossili».

Tre entità di Greenpeace sono state citate nella causa: Greenpeace Inc., il braccio del gruppo che organizza campagne pubbliche e proteste, con sede a Washington, Greenpeace Fund e Greenpeace International, l’organo di coordinamento di 25 gruppi indipendenti nel mondo, che ha sede ad Amsterdam. Al centro del processo sono state principalmente le azioni di Greenpeace Inc., che ora rischia la bancarotta: addestramento alle tattiche di protesta, invio di un camion a pannelli solari per fornire energia ai manifestanti e altre forniture.

I fatti 

 

 

Per mesi, tra il 2016 e il 2017, migliaia di persone si accamparono intorno alla riserva Sioux di Standing Rock per protestare contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access che tagliava la terra sacra degli indigeni e minacciava l’approvvigionamento idrico della riserva. È considerato il più grande raduno di nativi americani in oltre un secolo, con membri di più di 100 tribù rappresentate. Le proteste sfociarono in atti di violenza e vandalismo, che hanno alienato le già scarse simpatie della locale comunità bianca nei confronti degli abitanti della riserva. Gli addetti di compagnie private di sicurezza attaccarono i manifestanti con i cani e la polizia usò proiettili di gomma, taser e cannoni ad acqua. Dopo mesi di proteste, l’allora presidente Barack Obama fermò la costruzione dell’oleodotto, ma la decisione venne annullata dal successore Donald Trump e gli accampamenti furono smantellati con la forza. Trump aveva ricevuto più di 100.000 dollari in donazioni elettorali dall’amministratore delegato di Energy Transfer Partners ed era lui stesso un investitore nella società.

L’accusa 

 

 

Energy Transfer ha accusato Greenpeace di finanziare e sostenere le proteste che hanno ritardato la costruzione del gasdotto, aumentato i costi e macchiato la reputazione della società, quantificando i danni in 340 milioni di dollari. Da parte sua, Greenpeace international sostiene solo di aver firmato una lettera aperta insieme ad altri 500 firmatari e ha definito il processo una «causa Slapp» (in inglese, Strategic Lawsuits Against Public Participation), termine per le cause che attraverso costose battaglie legali puntano ad ostacolare la libertà di parola.

 

E ora? 

 

L’oleodotto sotterraneo di 1.172 miglia, il cui percorso è stato poi deviato, è operativo dal 2017, ma è in attesa dei permessi finali per una piccola sezione in cui attraversa il territorio federale sotto il lago Oahe sul fiume Missouri, vicino a Standing Rock. La tribù sta ancora cercando di chiudere l’oleodotto in un’altra causa. Greenpeace International ha contro-denunciato Energy Transfer nei Paesi Bassi, invocando una nuova direttiva dell’Unione Europea contro le cause Slapp. «I bulli delle grandi compagnie petrolifere di tutto il mondo continueranno a cercare di mettere a tacere la libertà di parola e le proteste pacifiche, ma la lotta contro la causa Slapp senza merito di Energy Transfer non è finita». E i Sioux? A loro nome ha parlato Natali Segovia, direttrice del Water Protector Legal Collective, nato dalle proteste di Standing Rock: il processo, ha detto, «è stata una guerra per procura contro la sovranità indigena utilizzando un’organizzazione ambientale internazionale».

 

Il Punto con Amnesty International
Le violazioni dei diritti umani in Niger dopo il colpo di Stato
editorialista
Riccardo Noury

 

In un rapporto pubblicato il 18 marzo, Amnesty International ha reso nota una lunga ricerca sul Niger nel periodo successivo al colpo di stato militare perpetrato nel luglio 2023 dal Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp). Il 28 di quel mese, i militari al potere hanno annullato la Costituzione del 2010 e sospeso le attività dei partiti politici. Il deposto presidente Mohamed Bazoum e sua moglie, Hadiza Mabrouk, sono stati posti agli arresti, isolati in un’ala del palazzo presidenziale. Bazoum, cui nel 2024 è stata tolta l’immunità dai procedimenti giudiziari, è accusato di «alto tradimento» e di «complotto contro la sicurezza dello Stato». Invano le Nazioni Unite chiedono da tempo la loro scarcerazione. Idem per quanto riguarda sette ministri dell’ex governo civile, a loro volta agli arresti per «danno alla sicurezza nazionale».

 

 

A chi non era al potere prima del colpo di Stato, comprese persone critiche nei confronti del precedente governo, è andata anche peggio. Nel gennaio 2024 la Casa della stampa, una coalizione di 32 mezzi di comunicazione, è stata smantellata e sostituita da un comitato per l’informazione diretto dal ministero dell’Interno. Le sedi di corrispondenza di alcuni media internazionali sono state chiuse e giornalisti locali sono finiti in carcere. Ousmane Toudou, già addetto stampa del presidente Bazoum, è stato arrestato il 13 aprile 2024 per «tradimento» e «complotto contro la sicurezza dello Stato». La data del processo non è stata ancora fissata. Il 24 aprile il direttore del quotidiano L’inchiestaSoumana Maiga, è stato arrestato per aver pubblicato la notizia di una stazione d’ascolto collocata da agenti russi nei palazzi del potere. Il 9 luglio è stato posto in libertà provvisoria in attesa del processo, che lo vede imputato di «danno alla sicurezza nazionale» per il quale rischia fino a dieci anni di carcere.

 

Stessa sorte per gli esponenti di primo piano della società civile. Nel dicembre 2024 Moussa Tchangari, segretario generale dei Cittadini per uno spazio alternativo, è stato arrestato per «danno alla sicurezza nazionale» e «collusione con Stati nemici». Anche lui potrebbe essere condannato a dieci anni.

 

Se le cose resteranno così, dato che le autorità hanno annunciato che il «periodo di transizione» potrebbe durare cinque anni, rinnovabili, la situazione dei diritti umani in Niger potrebbe precipitare ulteriormente.

 

Rassegna scientifica
L’1% dei bambini in Europa ha un padre biologico diverso da quello registrato
Alice Scaglioni
L'1% dei bambini in Europa ha un padre biologico diverso da quello che viene registrato all'anagrafe. Il caso van Beethoven

 

 

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testata

giovedì 20 marzo 2025
I Paesi più felici del mondo
I Paesi più felici del mondo
editorialista
di   michele farina

 

A tutti/e sarà capitato di voler fuggire, magari sotto una tendina in Finlandia: oggi cominciamo da lassù, dal Paese che per l’ottavo anno consecutivo è arrivato primo nella lista del Paesi più felici del globo, la nostra cavalcata tra le bellezze e le brutture della cronaca umana, tra ironie e stranguglioni. Dica 33, dicevano una volta i dottori ai pazienti, perché essendo ricca di suoni dentali e vibranti la parola trentatré permette di produrre le onde sonore che facilitano il lavoro del medico che deve scoprire possibili problemi alle vie aeree. Basteranno le nostre 33 cartoline di oggi a darvi un’idea del mondo che c’è?

 

 

Buona lettura!

La newsletter America-Cina è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.

 

1. Felici e infelici (l’Italia quarantesima)
editorialista
irene soave

Ogni anno dal 2012 un centro di ricerca dell’università di Oxford, la multinazionale di statistica Gallup, e un network delle Nazioni Unite insieme pubblicano il World Happiness Report: un rapporto mondiale sulla felicità basato sulle risposte di migliaia di persone in tutto il mondo a un’unica domanda, che ne misura la felicità. La lettura del rapporto è destinata a governi, politici, accademie: a chi, insomma, sarebbe per vocazione o per Costituzione, come negli Stati Uniti, tenuto a perseguire la felicità come scopo nazionale. Ma anche per i comuni mortali è possibile interpellare il rapporto, 260 pagine compresa un’appendice di soli dati, come un oracolo – e trarne le lezioni che riteniamo.

 

Per l’ottavo anno consecutivo, la Finlandia è il Paese più felice del mondo. Alla ricerca delle ragioni di questa felicità era andato, nel 2019 anteguerra, il curatore della newsletter di oggi, scoprendone alcuni ingredienti; nel frattempo la Finlandia ha una guerra alle porte, è entrata nella Nato, e non può dirsi in riarmo solo perché rispetto ai tempi dell’Urss alle porte non si è mai demilitarizzata. La felicità dei suoi abitanti, comunque, sembra perdurare.

 

Immune alla guerra sembra anche la felicità degli israeliani, all’ottavo posto in classifica. Gli abitanti dello Stato di Palestina, così sono stati interpellati, sono un po’ meno immuni alla guerra, e si collocano al posto 108. Per nulla immune alla guerra la felicità del vicino Libano, terzultimo nella classifica mondiale e appena sopra Sierra Leone e Afghanistan.

 

I luoghi comuni sul meteo che ogni italiano rimasto in patria snocciola a chi si è trasferito all’estero («Londra? Non potrei mai, piove sempre») non reggono troppo: ai primi 7 posti della classifica, con l’eccezione del numero 6, la Costa Rica, i Paesi più felici sono tutti gli scandinavi e l’Olanda. L’Italia è quarantesima. Altro luogo comune che salta, quello degli italiani brava gente: una parte della ricerca misura la «benevolenza», cioè l’inclinazione ad aiutare il prossimo in sei diversi modi, dal volontariato alla beneficienza. L’Italia è a metà classifica, mentre prima tra i generosi è l’Indonesia… (qui l’articolo completo).

 

2. Il tempo delle scelte: siamo nel 1936
editorialista
danilo taino

«L’era del procrastinare, delle mezze misure, degli espedienti rassicuranti e incomprensibili, dei rinvii sta arrivando alla fine. Al suo posto, stiamo entrando in un periodo di conseguenze». Era il 12 novembre 1936, a parlare era Winston Churchill davanti al Parlamento britannico: tre anni e mezzo prima di diventare il primo ministro che impedirà a Hitler la conquista dell’Europa. Un leader.

Winston Churchill

 

 

Anche oggi siamo entrati in un «periodo di conseguenze», in una fase di sconvolgimenti di grande rilievo. Siamo ancora al 1936. In una situazione del mondo forse più complicata da decifrare di quella di allora… (qui l’articolo completo).

 

3. Dagli schiaffoni ai sorrisi
editorialista
lorenzo cremonesi
inviato a Kiev

 

Dagli schiaffoni ai sorrisi. È andata bene la telefonata di un’ora ieri tra Donald Trump e Volodymyr Zelenskycerto nulla a che vedere con lo scontro frontale alla Casa Bianca il 28 febbraio scorso. «Una telefonata molto buona», ha commentato a caldo il presidente americano. «Una conversazione positiva, molto concreta e franca». Avviene 24 ore dopo le oltre due ore di conversazione telefonica tra Trump e Vladimir Putin, a sua volta definita «molto positiva» dalle due parti, anche se in buona sostanza il presidente russo ha rifiutato la tregua totale di 30 giorni voluta da Trump, che le delegazioni ucraina e statunitense avevano concordato in Arabia Saudita una settimana fa. 

 

Prigionieri liberati

 

Adesso si stanno discutendo le modalità per la messa in pratica della controproposta russa, accettata ieri da Zelensky durante la telefonata: ovvero una tregua minimalista, limitata soltanto alle infrastrutture energetiche e solo queste, perché in un primo tempo era stata interpretata come se valesse senza distinzione per ogni tipo di infrastruttura… (qui l’articolo completo).

 

4. «Putin pasteggia con la cotoletta alla Kiev»
editorialista
marco imarisio

 

«Seduti a tavola ci sono solo Russia ed AmericaNel menù: antipasti leggeri, come i cavoletti di Bruxelles, pesce britannico con patatine fritte, e galletto parigino. Il piatto principale è naturalmente la cotoletta alla Kiev. Buon appetito!».

 

Vladimir Putin con il procuratore generale Igor Krasnov ieri a Mosca (Alksei Nikolsky/Afp)

 

 

Sono giorni in cui persino l’abituale pensata mattutina dell’ex presidente Dmitry Medvedev contiene qualche spunto di riflessione. Almeno per una volta, la sua iperbole riflette un pensiero molto diffuso nelle elite russe: alla fine, sostengono più o meno tutti, sta avendo ragione lui. Ancora l’11 febbraio, poche ore prima della sua telefonata iniziale con Donald Trump, Vladimir Putin era un reietto, un paria della comunità internazionale, inseguito dal mandato di cattura emesso dal tribunale dell’Aia, e in buona sostanza nella stessa condizione si trovava il Paese da lui guidato in questi ultimi 25 anni… (qui l’articolo completo).

 

5. Bambini deportati, il database d’accusa è stato cancellato?

 

(Michele Farina) Non lo sapevano, ma avevano degli angeli che vegliavano sul loro destino. Custodi satellitari, che anche dallo spazio registravano gli spostamenti forzati, le case o gli istituti dove erano stati rinchiusi, in spregio a ogni spirito di umanità e alle Convenzioni internazionali. Con un clic, con un ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti, gli angeli sono stati «spenti». E la loro memoria forse cancellata per sempre. Per anni i ricercatori dello Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale hanno seguito a distanza 30 mila bambini ucraini deportati e spediti in 21 regioni della Russia.

 

 

Hanno usato mezzi di intelligence, immagini satellitari, strumenti di geolocalizzazione, documenti russi e dritte ucraine. Hanno inviato report alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, che nel marzo 2023 ha emesso mandati di cattura per Vladimir Putin e per il braccio destro Maria Lvova-Belova, per il loro ruolo nella deportazione di minori ucraini dalle aree conquistate. Portati via da famiglie, istituti, orfanotrofi, caricati su pullman e aerei militari, dati in adozione a famiglie o affidati a centri di «rieducazione».

 

 

A gennaio Donald Trump ha tagliato i fondi per il Laboratorio di Ricerca Umanitaria di Yale. Nei giorni scorsi, 17 parlamentari Usa hanno scritto al segretario di Stato Marco Rubio, «avendo ragione di ritenere che il database» sui bambini rapiti «è stato cancellato in maniera definitiva», puntando il dito sulla Mitre Corporation, azienda di contractor che lavorano per le agenzie di intelligence Usa e che possiedono la piattaforma su cui il Lab raccoglieva le informazioni. Il database si chiama Cesare, un nome che s’intona a una presidenza imperiale e a storie di congiura. Possibile che, nella telefonata con l’amico zar, Trump abbia concordato anche la morte di Cesare?

 

6. Kuleba: «Consegnare agli Usa le centrali? Offerta sospetta»

 

(Lorenzo Cremonesi«Il nostro presidente Volodymyr Zelensky ha dimostrato intelligenza e flessibilità, direi che ha fatto benissimo ad accettare le proposte di Donald Trump», commenta a caldo Dmytro Kuleba. L’ex ministro degli Esteri ucraino — lo è stato dal marzo 2020 al settembre 2024 — ci risponde per telefono da Parigi, dove oggi è professore associato alla facoltà di Scienze Politiche.

 

Che conseguenze vede per l’Ucraina dopo la telefonata di due giorni fa tra Trump e Putin, quando il presidente russo ha stravolto a suo uso e consumo la proposta di cessate il fuoco americana?
«Consideriamo prima gli aspetti positivi. Tutto il mondo ha potuto vedere molto chiaramente che Putin non è affatto disposto ad accettare e rispettare un piano concreto di cessate il fuoco. Anzi, al contrario… (qui l’articolo completo).

7. Le mini-concessioni dello zar
editorialista
federico rampini

Trump nella sua telefonata con Putin, cercava un accordo per una cessazione totale dei combattimenti in Ucraina. Non lo ha ottenuto. Putin gli ha dato molto di meno. Una tregua limitata a 30 giorni e soprattutto limitata ai soli attacchi diretti contro le infrastrutture energetiche e le centrali elettriche. È una concessione proprio minimalista. E Putin non ha invece rinunciato affatto alle sue richieste ben più importanti, ben più esose, che vanno dalla fine degli aiuti militari occidentali all’Ucraina, fino a un disarmo dell’Ucraina, a un suo status di neutralità futura che la ridurrebbe alla condizione di uno Stato vassallo in pugno alla Russia, subordinata al controllo del potere politico russo… (qui la videorubrica completa).

8. Consiglio Europeo, riarmo, difesa, capitali
redazione politica

 

I leader Ue riuniti a Bruxelles discuteranno i dettagli del piano ReArm Europe e chiederanno a von der Leyen di accelerare «su tutti i fronti», ha detto il commissario alla Difesa Kubilius.

 

 

La posizione dell’Italia sulla difesa comune è stata espressa dal ministro Crosetto con una lettera al Corriere. La premier Meloni in Senato ha definito il piano Ue «roboante».

 

Tema competitività: la Commissione ha proposto una road map per il completamento dell’Unione del mercato dei capitali.  Non è ancora chiaro se il summit si concluderà in un solo giorno o verrà prolungato fino a domattina… (qui tutti gli aggiornamenti).

9. Trump telefona, Xi mette i guantoni

 

(Danilo TainoE la Cina? Cosa fa la Cina mentre Trump è impegnato a telefonare a Putin e a ordinare l’attacco agli Houthi filoiraniani? Come si sta muovendo il leader cinese Xi Jinping ora che la Casa Bianca è concentrata sulla Russia, ancora più che sull’Ucraina, e sul Medio Oriente? La domanda è importante perché, nell’opinione di gran parte degli esperti, la relazione tra Washington e Pechino sarà l’end-game, il capitolo finale, della politica internazionale del presidente americano… (qui l’articolo completo).

 

 

10. Pechino manda a morte quattro canadesi
editorialista
paolo salom

Quattro cittadini canadesi sono stati giustiziati in Cina, nelle scorse settimane, per reati legati agli stupefacenti. Le identità delle quattro persone, che avevano doppia cittadinanza cinese e canadese, non è stata diffusa su richiesta delle loro famiglie. La ministra degli Esteri Melanie Jolie ha condannato le esecuzioni come «irreversibili e incoerenti con la dignità umana di base» e ha riferito di «aver chiesto personalmente clemenza».

Xi Jinping con la moglie

 

Un portavoce dell’ambasciata di Pechino a Ottawa ha replicato che le prove contro i quattro individui erano «solide e sufficienti» e ha chiesto al Canada di «smetterla con i commenti irresponsabili». L’ambasciata cinese ha inoltre assicurato che Pechino ha «pienamente garantito i diritti e gli interessi dei cittadini canadesi in oggetto» e ha chiesto al governo di Ottawa di «rispettare la sovranità giudiziaria cinese».

 

 

La Cina è ritenuta il Paese dove vengono eseguite più sentenze capitali al mondo, sebbene non vengano diffusi dati in materia, e si stima che siano non meno di tremila l’anno. Per i reati legati al narcotraffico è spesso prevista la pena di morte. È però molto raro che vengano giustiziati cittadini stranieri. D’altro canto, Pechino non riconosce la doppia cittadinanza: se i condannati avevano conservato il proprio passaporto cinese, erano considerati a tutti gli effetti, e unicamente, cittadini della Repubblica Popolare.

 

 

Degno di nota, inoltre, che la ragione ufficiale dell’imposizione dei dazi Usa alla Cina, così come affermato dal presidente Donald Trump, è la scarsa collaborazione di Pechino nel contrastare l’esportazione dei precursori del fantanyl, la droga che al momento è causa del maggior numero di decessi negli Stati Uniti: secondo Washington, i componenti chimici di base vengono «facilmente» esportati dalla Cina al Messico dove, una volta lavorati, raggiungono gli Stati Uniti. Pechino ha sempre negato ogni coinvolgimento, facendo fede sulla sua politica «estremamente dura» nei confronti di ogni tipo di stupefacente.

 

11. Donald Junior a Belgrado: alberghi e politica
editorialista
francesco battistini

Un bel Trump Hotel da 500 milioni di dollari. 175 stanze e 1.500 appartamenti extralusso. Un contratto di locazione di 99 anni, senza spese. E proprio nel cuore di Belgrado, dove negli anni ’90 sorgeva il ministero della Difesa serbo, uno dei palazzi che la Nato bombardò durante la guerra del 1999. Nell’ultimo quarto di secolo, le rovine erano sempre rimaste lì in bella vista, monito perenne in una Serbia che non ha mai accettato la perdita del Kosovo, né dimenticato gli americani e quei missili che segnarono la fine delle guerre balcaniche. Ma siamo nell’era Trump e della sua diplomazia immobiliare: tutto, se non perdonato, è cancellato con un rendering.

Trump Junior con il presidente Vucic

 

E con una visita rapidissima a Belgrado di Donald Trump Junior, il figlio del presidente, imprenditore della Trump Organization, che ha incontrato il presidente serbo Aleksandar Vucic e con una stretta di mano ha siglato l’accordo: sorgerà sulla Sava il più grande hotel trumpiano in Europa. «Vogliamo espandere la nostra presenza nel vecchio continente», aveva promesso in gennaio un altro figlio di Trump, Eric: nel business è coinvolto anche un ricco costruttore degli Emirati arabi, Mohamed Alabbar, che già da anni sta edificando nella capitale serba.

 

C’è qualcosa che somiglia a un conflitto d’interessi, se si pensa che il genero di Trump, Jared Kushner, con la sua Affinity Global Development avrà l’incarico dei lavori per l’albergone. E che la trattativa per il cantiere è stata condotta da Brad Pascale, lo stratega delle campagne elettorali trumpiane, nel 2022 consulente per la rielezione dello stesso Vucic. E che il giovane Don ha approfittato dell’occasione per esprimere il sostegno politico degli Usa al governo serbo, che da quattro mesi è oggetto di gigantesche contestazioni di piazza e s’è dovuto dimettere: l’ultima, sabato scorso, ha spinto Vucic a promettere elezioni anticipate. Il viaggio in Europa di Donald Jr e della fidanzata Bettina Anderson, rivela il New York Times, è stato pagato da Pascale. “Il figlio di Trump – commenta Dragan Jonic, parlamentare all’opposizione – è venuto a Belgrado per dare una mano a Vucic. É un ovvio conflitto d’interessi, nel momento in cui Vucic cerca di restare in sella e i Trump vogliono mantenere in piedi i loro accordi immobiliari”. A protestare sono anche alcuni nazionalisti amici di Vucic: «Quel palazzo è un simbolo della resistenza di Belgrado e delle nostre tradizioni militari. É come se gli Usa cedessero West Point a una società di real estate». Il giornale americano scrive che la missione in Serbia del fi

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