Noi e la mafia: mezze verità. “Bombe, ladroni e omertà”
“Per non dire che era stato commesso un omicidio, a Palermo è stato inventato il neologismo “ammazzatina”: si uccidevano tra loro dunque non era un vero assassinio”
Il primo morto ammazzato Davide Enia l’ha visto a otto anni, mentre tornava a casa da scuola. “A Palermo è successo a tutti. E se non l’hai visto tu, è capitato a tuo fratello o a tuo cugino… C’è stata una prossimità con la morte così forte che ci mancavano le parole adatte per raccontarla. La reazione era inventarle”, spiega il regista, in libreria con Autoritratto (Sellerio), il testo del suo ultimo spettacolo, in scena da stasera al 17 aprile al Piccolo Teatro Grassi di Milano. È un lavoro a metà tra l’autoanalisi e una potente orazione civile che racconta l’impatto di Cosa Nostra sulla vita dei siciliani. “Ho cercato di fare i conti con il grande rimosso generazionale che è il rapporto nevrotico avuto con la mafia”.
Perché nevrotico?
Perché l’elemento che ci crea la nevrosi noi lo banalizziamo fino a rimuoverlo o lo mitizziamo. Comunque non lo affrontiamo per quello che è. Altrimenti dovremmo iniziare a comprendere pure le affinità che ci legano a quell’elemento.
A proposito di affinità: racconta che la sua prima amicizia alle elementari nasce quando un ragazzino si fa la pipì addosso e lei non lo dice alla maestra. Lealtà o omertà?
È tutto quello che compi dopo che riempie di significato i tuoi gesti. Certo la dottrina del silenzio la impariamo da subito.
In Sicilia, alle elementari, a un certo punto Buscetta non era più il nome del pentito, ma un aggettivo dispregiativo: un’offesa.
Siamo cresciuti con la dottrina del silenzio, che serve soltanto a mantenere posizioni di potere. Infatti proprio Buscetta diceva che Cosa Nostra è il regno dei discorsi incompiuti. Viviamo in un Paese che continua sempre a secretare tutto: ancora oggi non abbiamo la verità su Ustica.
Sempre quel suo compagno di scuola, dopo la strage di Capaci, dice: “Ma crediamo che ci diranno la verità?”. Le giro la domanda: ce l’hanno detta tutta la verità?
Ci sono tante domande che non hanno avuto risposta. Ancora oggi non sappiamo chi quel giorno avvertì i mafiosi che Falcone avrebbe preso l’aereo il 23 maggio. È necessario dire come sono andate le cose, che è l’unico modo per poter perdonare. Ma nel Paese delle mezze verità, non è possibile superare il trauma.
Contesta anche il fatto che spesso Cosa Nostra è stata raccontata solo come folclore. Una dinamica che riguarda anche le stragi, spesso narrate nella loro versione pacificata: i cattivi hanno perso, i buoni hanno vinto, non c’è altro da scoprire. È d’accordo?
Sono talmente d’accordo che voglio dirlo in un altro modo: i ladroni accanto a Cristo non sono lì per confermare la sua morte, ma per occultarla. È tutto rumore di fondo per non affrontare davvero qualcosa che era inevitabile accadesse. Le stragi non sono un meteorite che cade sulla Sicilia.
Se non sono un meteorite, cosa sono?
Cosa Nostra ha dei tratti come il familismo amorale che sono delle nostre famiglie. Quanta gente per proteggere un parente mente, falsifica, strumentalizza? Secondo me, è questo il principio di tutto.
Dice che il meccanismo di reazione alla morte era inventare le parole: in che senso?
Per non dire che era stato commesso un omicidio, a Palermo è stato inventato il neologismo “ammazzatina”: si uccidevano tra loro dunque non era un vero assassinio. Minimizzazione, ma anche un modo nevrotico di rifuggire a una quantità di morte ingestibile. Non avevamo le parole per nominare davvero quello che accadeva. Il vocabolario è venuto fuori solo con le bombe: quelle come fai a negarle?
Tutti ricordano dov’erano il giorno della strage di Capaci e chi non lo ricorda spesso inventa. Lei invece no.
Non è un artificio retorico: avevo 18 anni eppure non ricordo nulla. Evidentemente ho avuto un violento impatto emotivo, un trauma profondo.
Però ricorda bene il giorno in cui uccisero Borsellino: come mai?
Forse perché lo stesso meccanismo di difesa che mi ha fatto rimuovere la prima strage per la seconda mi ha imposto di fotografare ogni istante. Capaci scatena in me uno “choc hiroshimatico”, mentre via D’Amelio è Nagasaki. E poi Falcone lo ammazzano in autostrada, Borsellino invece in città. E dopo neanche due mesi.
A cosa serve oggi la memoria?
Da sempre è un’operazione soggettiva di ricalibrazione delle tracce del passato per giustificare o attaccare il presente. Prima, però, la memoria richiederebbe studio. Ma quasi nessuno studia più.
Rischia di diventare un alibi?
Sì, per non approfondire davvero gli accadimenti. Come facciamo oggi a parlare di memoria in una Regione che ha un’evasione scolastica così alta? È tutto drammaticamente collegato.
Quanto è lontana la fine?
Servono cinque secoli.
Addirittura.
Il trauma per essere superato ha bisogno di essere nominato. È necessaria una rivoluzione linguistica che ancora non si intravede all’orizzonte.
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Laurea Calderone, Sergio Rizzo: “Il Paese è assuefatto alle porcherie, i media proteggono i potenti”
“‘La Casta’ non avrebbe lo stesso effetto. Gli scandali non fanno neanche notizia”

“La società è come narcotizzata, non ci si indigna neanche più”. Sergio Rizzo è tra i più noti giornalisti italiani e, insieme a Gian Antonio Stella, nel 2007 ha scritto un libro (La Casta) che provocò un sentimento di forte sdegno nei confronti dei privilegi e dell’arroganza della politica. Secondo Rizzo, oggi quel libro così dirompente “non avrebbe lo stesso effetto”. Lo si deduce da come gli scandali di questo governo (la vicenda per nulla opaca della laurea della ministra Calderone, ma pure il caso Santanchè) non scalfiscono gli interessati, che non solo restano al loro posto, ma liquidano le domande come un inutile fastidio.
Sergio Rizzo, che idea si è fatto della vicenda Calderone?
Ripercorre un’abitudine che abbiamo già visto in diversi personaggi di potere, i quali sperano sempre che i giornali non ficchino il naso nel proprio curriculum. Quando poi accade, spesso si limitano ad accusare i giornali stessi, senza dare troppe spiegazioni.
Anche l’impatto sull’opinione pubblica però non sembra più quello di un tempo. Ci si è abituati agli scandali politici?
Ci sono vari problemi che creano questa condizione. Innanzitutto, gran parte dei giornali non fa più il proprio mestiere, rinunciando cioè a esercitare una funzione di controllo sul potere. Se questa funzione viene meno o comunque diventa sporadica, si scoprono molte meno cose ed è più facile silenziare quelle che si scoprono, perché magari qualche giornale preferisce non riprendere lo scoop fatto da un altro, così magari il ministro di turno non si irrita. Poi c’è un altro tema: il potere non vuole essere sindacato. Ritengono di aver ragione senza doversi mettere in discussione, senza rendere conto.
È storia recente?
Non è un fatto nuovo, ma si inserisce in una società molto cambiata, perciò l’effetto è un ribaltamento dei codici che regolano il rapporto tra democrazia e potere.
Che cosa intende?
Questo Paese è in stato di narcolessia. La gente non va più a votare, non c’è più interesse per la politica e quindi anche lo scandalo sul ministro o il sottosegretario è considerato quasi normale. I cittadini sono assuefatti a questa situazione: siccome la politica fa schifo, allora qualunque porcheria esca fuori non ha chissà quali effetti. È molto grave che sia così.
L’ultimo suo libro si chiama Io so’ Io. Ai potenti basta dire: “Ci hanno votato, andiamo avanti”?
Chi vince le elezioni ritiene di avere un mandato assoluto. Considerano la cosa pubblica come casa propria. Ma nessuno si chiede di che maggioranza stiamo parlando? Alle elezioni politiche del 2022 è andato a votare il 63 per cento e per governare basta ottenere una maggioranza relativa. Però sentiamo sempre parlare della “maggioranza degli italiani”.
Nel 2007, quando uscì La Casta, lei e Stella trovaste una coscienza civile diversa?
Molto diversa. Noi ce ne siamo resi conto fino in fondo soltanto dopo, ma quella era una società che si aspettava un cambiamento, che aspettava di rovesciare il tavolo. Era un Paese che aveva delle speranze e in quel contesto montò una sollevazione popolare. Di recente invece ho visto un sondaggio di Nando Pagnoncelli secondo cui il 46,5 per cento degli italiani potrebbe non andare a votare. È passato il messaggio che la politica è tutta uguale e perciò gli scandali sono normali. Questo messaggio però non lo hanno indotto i giornalisti con le loro inchieste, semmai è conseguenza delle politiche degli ultimi anni e della percezione che ne hanno avuto i cittadini.
