Scandalo
scàn-da-lo
Significato Profondo turbamento della sensibilità pubblica dovuto a un comportamento, a un discorso, a un atto contrario alla moralità comune; il comportamento, il discorso, l’atto che suscita tale turbamento; clamore, chiasso, risonanza indesiderata; eccesso
Etimologia voce dotta recuperata dal latino ecclesiastico scandalus, ‘impedimento’, dal greco skándalon ‘trappola, insidia, ostacolo’.
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«Si è presentato senza invito, uno scandalo!»
È una parola più complicata di quel che pare. Nella sua storia attraversa dei passaggi concettualmente profondi, e il modo in cui arriva al significato di ‘pubblico turbamento’ non è affatto scontato. Sarà un’occasione per capirla meglio nella sua intelligenza — bella occasione, visto che è molto a buon mercato e circola parecchio.
Dobbiamo partire dal greco skándalon, che significa ‘trappola’. L’etimologia ulteriore è dibattuta e incerta, e non offre grandi spunti, quindi la lasciamo stare. Ad ogni modo, tutto sarebbe filato tranquillo e lontano dai riflettori, per lo skándalon, se non fosse stato usato nel greco neotestamentario come calco dell’ebraico mikšol, col significato di ‘tentazione, invito, occasione di peccato’ — la trappola estesa a tentazione.
Vediamo quindi che l’ostacolo, l’impedimento, l’insidia di ordine morale (significati presenti nello scandalus del latino ecclesiastico) sono la base del concetto di ‘scandalo’. Lo scandalo allora è innanzitutto un fatto: ciò che dà — o rischia di dare — occasione di peccato.
È per un’estensione, che fa della tentazione un fatto da tenere in spregio, che lo scandalo diventa ciò che suscita sdegno, riprovazione — comportamento, discorso, accadimento che sia. Quindi, arriva al turbamento della coscienza, specie pubblico, dovuto a un atto contrario alla morale — quello del ‘dare scandalo’. Il nome dell’atto biasimevole si fa nome dello sconvolgimento della sensibilità etica.
È una parabola ascendente complessa: dal fatto materiale, al fatto morale, alla sua considerazione, alla reazione generale. Peraltro ha anche la sua fase discendente, perché lo scandalo da turbamento grave diventa il chiasso, la chiacchiera, la risonanza indesiderata — o anche solo l’eccesso.
Così possiamo parlare dello scandalo della corruzione nell’istituzione, della gente che grida allo scandalo abboccando all’ennesima provocazione, della relazione che desta scandalo, dello scandalo che la persona in vista, pagando, cerca di evitare, del conto finale che è uno scandalo.
Violazione, abuso, clamore si intrecciano — ma non dobbiamo trascurare il valore positivo e fertile dello scandalo. Perturbando può stracciare un tessuto morale liso, può essere una forza sfacciata di rinnovamento — e anzi questa, così trasgressiva, è un’idea tradizionalissima.
Prendiamo la locuzione ‘pietra dello scandalo’, ad esempio, che indica chi o ciò che è causa di scandalo e discordia (e che adesso, avendo visto l’etimologia, ci si profila come pietra d’inciampo). Risalendo alla sua origine biblica, la troviamo fra l’altro nella Prima lettera di Pietro, dov’è usata per indicare… il Cristo. E potremmo parlare dello scandalo del perdono da parte della vittima, di una generosità che suscita scandalo, dello scandalo di un amore senza conferme e riscontri.
C’è scandalo e scandalo, si direbbe: è un concetto da considerare con larghezza, lontano da significati asfittici
Mercuriale
mer-cu-rià-le
Significato Listino di prezzi correnti di certe merci; mercorella comune; preparato farmaceutico che contiene mercurio; scaltro, vivace, veloce
Etimologia voce dotta recuperata dal latino mercurialis, da Mercurius, ‘Mercurio’.
«Ha un modo di fare mercuriale, si cava da ogni impiccio con una disinvoltura straordinaria.»
È una parola che nei suoi significati più interessanti e incisivi è piuttosto rara, ma quando è usata si fa intendere e apprezzare. Dopotutto, fa parte di un manipolo di parole — dal marziale al venereo, dal gioviale al saturnino — che significano delle qualità a partire da un paradigma mitologico e astrologico la cui narrazione è diffusa, di antico prestigio, e accessibile.
Naturalmente si parte parlando di Mercurio, divinità del pantheon romano. Messaggero divino, rapido e scaltro, è patrono dei commerci, dei viaggi, dell’eloquenza. Carico di elementi iconografici che ne figurano le caratteristiche, è anche una divinità psicopompa, cioè che accompagna le anime dei defunti.
Ora, la quantità di tempo che la nostra cultura e le sue fasi precedenti hanno passato con l’idea simbolica di Mercurio è enorme — anche perché in effetti e omologo di altre divinità, da esse è mutuato e le continua: pensiamo al Turms etrusco, se non all’Ermes greco. Quindi l’esplorazione linguistica intorno a Mercurio ha avuto modo di acquisire un’estensione notevole, e oggi abbiamo diversi ‘mercuriali’.
Ad esempio, il mercuriale è un listino di prezzi correnti per certe merci: il senso è trasparente, visto il patronato dei mercanti. Si chiama mercuriale anche un umile genere di piante della famiglia delle Euforbiacee, fra cui la mercorella — dedicate al dio per motivi non chiari, forse per le proprietà erboristiche. Dopotutto Mercurio presiede anche alla farmacia, scienza di bilanciamento simboleggiata dal suo bastone araldico con due serpenti, il caduceo — da non confondere col bastone di Esculapio, simbolo della medicina, che di serpente ne ha uno solo. Anzi, restando in quest’ambito sono mercuriali anche i preparati farmaceutici che contengono mercurio.
Quindi, intanto, possiamo parlare di come nel preventivo certe cifre si discostino stranamente dal mercuriale, della mercuriale che è cresciuta in gran quantità nella vigna, dell’unguento mercuriale che usava la nonna.
Ma il mercuriale è anche lo scaltro, il vivace, il veloce: quest’accezione riattinge alla vena primaria dei caratteri del nume Mercurio. Posso parlare dell’ingegno mercuriale della studente, della trovata mercuriale del geometra durante la ristrutturazione, del carattere mercuriale dell’opera teatrale brillante, rapida, piena di rivolgimenti — ma anche della bici mercuriale con cui svicolo in città, del piglio mercuriale con cui affronto la crisi.
Il fatto che sia una parola poco battuta la rende tanto suggestiva: delinea in un modo che non ci si proietta in mente in modo troppo netto, ma alludendo molto. E lo fa secondo un riferimento che non è didascalico, squadernato in pieno sole, ma che richiede una piccola, complice decodifica, del tutto pervia. Una dinamica davvero di grande effetto.
Dimidiato
di-mi-dià-to
Significato Dimezzato; incompleto, parziale
Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo dimidiare, da dimidiatus, a sua volta derivato di dimidium ‘diviso in mezzo’, da medius ‘mezzo’ con prefisso separativo dis-.
«La sua autorevolezza ne è uscita dimidiata.»
Ma non è semplicemente un ‘dimezzato’? Sì, è un ‘dimezzato’, ma non semplicemente. E vedremo come è che torna buono.
Propriamente è participio passato del verbo ‘dimidiare’, una variante dotta di ‘dimezzare’ — un allotropo. In altre parole, il latino tardo conosceva il verbo dimidiare, un derivato di dimidiatus, che a sua volta veniva da dimidium, ‘tagliato nel mezzo’ (un derivato di medius). Da quel dimidiare, per via popolare, di bocca in bocca, è maturato l’italiano ‘dimezzare’, mentre il nostro ‘dimidiare’ è stato recuperato più tardi come prestito dal latino.
Ora, siamo intorno ai significati di ‘dividere qualcosa a metà’, o ancor di più del ‘ridurre qualcosa alla metà’ — o, se non è proprio la metà, in maniera considerevole. Il dimezzare ha la caratteristica di parlare molto chiaro: è comunissimo, squaderna il suo significato in maniera trasparente, e il riferimento alla metà è palese. Tutti pregi, si direbbe, ma questo mette un po’ di ruggine nella possibilità di ingranare significati estesi: scrollarsi di dosso l’evidenza di quel 50% non è semplice.
Lo fa, per carità. Ma se parliamo di affari dimezzati, di viabilità dimezzate, di opere dimezzate, la figura che proiettiamo nella mente di chi ci ascolta o legge (e di cui abbiamo la responsabilità) probabilmente non è quella del ridotto, dell’incompleto, del parziale: è quella letterale del ‘ridotto alla metà’. C’è un’ineludibile quantificazione.
Il dimidiato, umbratile e schivo, anche se è davvero la stessa zuppa, parla in maniera più velata — grande effetto dei latinismi, che fra l’altro rendono spesso discreti significati altrimenti spiattellati. Questo gli dà la possibilità di un destino meno numerale, e un più facile acceso a significati estensivi che non vogliano parlare precisamente di metà perse.
Se parlo di come il rivolgimento abbia dimidiato il giro di affari, di come dopo la calamità la viabilità sia ancora dimidiata, di come l’opera ci sia giunta dimidiata, come anche della segretaria di partito dimidiata dalla sconfitta elettorale, anche se alla lettera parleremmo di qualcosa ‘privato della metà’, il riferimento quantitativo viene trasceso, e il dimidiato si muove in maniera versatile nell’orizzonte del ‘fortemente ridotto’ — nella quantità sì, ma anche nella forza, nel prestigio. Peraltro lo fa in maniera elegante, sobria, senza le esagerazioni proprie di sinonimi come ‘decimare’ o ‘abbattere’ (o la falsa impressione di esagerazione del ‘falcidiare’) — ma anche in maniera più intensa rispetto al pianissimo ‘diminuire’.
Insomma, è un latinismo abbastanza inconsueto, perfino letterario, eppure ha una sfumatura insostituibile.