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Il Punto del Corriere della Sera a cura dell’Agenzia “Cronache”, direttore Ferdinando Terlizzi

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giovedì 27 marzo 2025
Donald dei Ghiacci (e dei dazi)
US President Donald Trump announces tariffs on auto imports in the Oval Office of the White House in Washington, DC, on March 26, 2025. Since returning to the presidency in January, Trump has already imposed tariffs on imports from major US trading partners Canada, Mexico and China -- as well as a 25 percent duty on steel and aluminum imports. The move is set to fuel tensions with trading partners ahead of further promised levies next week. (Photo by Mandel NGAN / AFP)
editorialista
di   Luca Angelini

 

Buongiorno.

 

 

Ormai, con Donald Trump, non si sa nemmeno da che parte cominciare. Con i dazi? Oppure con la Groenlandia da annettere? Cominciamo con i primi, visto che l’annuncio ufficiale è arrivato quando in Italia era ormai tarda sera. «Procederemo con i dazi del 25% permanenti su tutti i veicoli prodotti fuori dagli Usa», ha dichiarato il presidente americano dallo Studio Ovale. Non è ancora chiaro se, oltre ai veicoli finiti, il nuovo balzello si applicherà anche ai componenti (il che sarebbe un problema soprattutto per le filiere con Canada e Messico).

Secondo la Casa Bianca i dazi servono a raccogliere entrate per compensare i tagli fiscali promessi e rilanciare la manifattura nazionale. «Ma per l’industria automobilistica – compresa quella Usa – l’impatto rischia di essere pesante – scrive Giuliana Ferraino -. Anche le case statunitensi dipendono dalle catene di fornitura globali. Il risultato potrebbe essere un aumento dei prezzi al consumo, un rallentamento delle vendite e un danno per gli stessi produttori americani. Con un inevitabile impatto su investimenti e crescita. Cox Automotive stima che, senza esenzioni, un’auto prodotta negli Usa costerebbe 3 mila dollari in più, e un’auto prodotta in Canada o Messico fino a 6 mila dollari in più».

I dazi scatteranno il 2 aprile, «il giorno della liberazione» come l’ha ribattezzato Trump. Ursula von der Leyen, però, non si arrende. Pur dichiarandosi «profondamente rammaricata», la presidente della Commissione europea, afferma che «l’Ue continuerà a cercare soluzioni negoziate, salvaguardando al contempo i suoi interessi economici», ribadendo che «le tariffe sono tasse: cattive per le imprese, peggio per i consumatori ugualmente negli Stati Uniti e nell’Unione europea». Peraltro, l’auto potrebbe essere solo un assaggio. Il commissario Ue per il commercio, Maroš Šefcovic, che è appena stato in missione a Washington, ha avvertito che la Casa Bianca potrebbe imporre dazi del 20% sulle importazioni da tutti i 27 Stati membri dell’Ue dalla prossima settimana. Una misura che, parole sue, «sarebbe devastante» per l’economia europea.

Alcuni effetti, peraltro, si fanno già sentire, anche in Italia, fa notare Ferraino: «È bastata la sola minaccia di dazi al 200% sul vino a paralizzare il settore, con spedizioni bloccate, ristoranti in difficoltà e milioni di bottiglie ferme nei porti. Ma la premier italiana Giorgia Meloni rassicura: «L’agroalimentare si tutela dai dazi con la diplomazia», ha detto ieri durante una visita al villaggio “Agricoltura È”, prima della partenza per il vertice di Parigi». (Delle reazioni più o meno patriottiche, in Italia e all’estero, ai dazi di Trump ha scritto Gianluca Mercuri nella nostra Rassegna)

 

L’isola dei tesori

 

Quanto alla Groenlandia, Donald dei Ghiacci insiste: deve diventare proprietà degli Stati Uniti. Il motivo? «Ci serve». Non un granché, come giustificazione, dal punto di vista del diritto internazionale, ma si sa quale considerazione ne abbia l’inquilino della Casa Bianca. Qualche inquietudine c’è, sul modo in cui intenda far diventare quel desiderio realtà, visto che i diretti interessati groenlandesi e danesi non sembrano – chissà perché – della sua stessa idea (all’Europarlamento, un deputato danese aveva già avuto modo di tradurre il suo no in trumpianese stretto: «Mr. Trump, fuck off»). E qualche inquietudine c’è anche sulle liste dei «ci serve» che potrebbero prossimamente arrivare da Pechino (a Taiwan qualche sospetto ce l’hanno), da Mosca (che invero ha già iniziato da un po’ a prendersi quel che pensa gli spetti), o magari dalla Turchia o da Israele.

Peraltro, proprio dalla Groenlandia, Paolo Giordano scrive che una forma di «conquista» americana, non militare ma «ibrida», è già iniziata:

La pressione americana sulla popolazione groenlandese si è accompagnata fin dall’inizio a un aumento di contenuti divisivi sul social network più diffuso, che è ancora Facebook. Per esempio è tornata in auge la viscida campagna di contraccezione che i medici danesi imposero alle donne inuit negli anni Sessanta e Settanta. Come se tutte quelle spirali impiantate con l’inganno fossero un torto da riparare adesso.

 

La nuova colonizzazione sfrutta quella precedente: le responsabilità storiche della Danimarca vengono usate per dividere le persone (come tecnica non è troppo diversa dalla propaganda con cui la Russia ha preparato in largo anticipo l’invasione dell’Ucraina).

Alcuni media artici denunciano un aumento di contenuti falsi, creati con l’intelligenza artificiale e attribuiti alle loro testate. Se sei costretto a smentire una notizia falsa di solito è già tardi, significa che si è già diffusa, ed è particolarmente drammatico qui, dove le singole comunità sono piccole e interconnesse. La regia di tutta questa discordia, se esiste, è invisibile. Ma una volta che il terreno è pronto, ecco che arriva Usha Vance, «excited», «thrilled», improvvisamente curiosa delle tradizioni locali. Ed ecco che si unisce JD Vance «per non lasciarle tutto il divertimento», anche se dopo le proteste la visita si restringe a un giro delle basi militari per buttare lì altro veleno, il sospetto che negli ultimi anni la Groenlandia non sia stata protetta come meritava. Ma protetta da chi precisamente?

(Qui la scheda di Chiara Barison sul perché la Groenlandia, per risorse e posizione, faccia gola a molti)

Qualcuno dirà, e un po’ c’è da sperarlo, che sono soltanto armi di distrazione di massa, per sviare l’attenzione dal pasticciaccio brutto del Signalgate, i piani d’attacco contro gli houthi condivisi da Vance, Waltz, Hegseth e compagnia in una chat (peraltro in violazione dell’Espionage Act, come ha spiegato Massimo Gaggi) nella quale era stato inserito per errore anche il direttore dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg. Ma, come i dazi fanno danni anche se solo minacciati – citofonare Wall Street – gli sbandamenti, anche soltanto verbali, del Paese che si vorrebbe principale custode dell’ordine liberale fondato sulle regole (per quanto imperfetto sia sempre stato), fanno danni perché portano acqua al mulino dei tanti che quell’ordine tentano da anni di smantellarlo. Per sostituirlo con cosa? Con un altro basato sul «chi è abbastanza forte per farlo, si prenda quel che gli serve, evitiamo soltanto di pestarci i piedi» (tu chiamala, se vuoi, nuova Yalta).

Dunque, per quanto lo riguarda, come Trump ha detto in un’intervista con il podcaster conservatore Vince Coglianese, la Groenlandia «è un’isola che da una posizione difensiva e anche offensiva ci serve, specialmente per com’è il mondo oggi, e dobbiamo averla».

Peraltro, a leggere quel che una ricercatrice britannica, in Groenlandia da sei anni, dice a Paolo Giordano, vien da pensare che, sotto sotto, non l’annessione, ma un’escursione nell’isola di ghiaccio, a The Donald potrebbe persino fare bene: «L’esperienza della Groenlandia ti rende umile», dice. Temiamo però dipenda dall’ego di partenza.

Ma chissà che, a proposito della visita dei coniugi Vance di venerdì, abbreviata per timori di proteste, non abbia ragione Il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen: è vero che il vicepresidente Usa ha annunciato a sorpresa di seguire nel viaggio la moglie Usha, ma sarebbe «una mossa da maestro per far apparire come escalation quella che in realtà è una de-escalation». Non ci dovrebbero infatti essere nella delegazione (come invece inizialmente previsto) il segretario per l’Energia Chris Wright e il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz.

Ci sarebbe, infine, da parlare del Trump «pacificatore». Ma, su quel che si profila in Ucraina, lasciamo la parola all’editoriale di Paolo Mieli:

È ormai evidente che gli Stati Uniti si accingono ad imporre all’Ucraina un iniquo «accordo» con l’aggressore. A dispetto della lodevole insistenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, del presidente della Conferenza episcopale Matteo Zuppi e di molti leader europei sul tema della «pace giusta», Donald Trump e Vladimir Putin lasciano intendere in tutti i modi possibili e all’unisono d’essere alla ricerca di un’intesa che preveda un trattamento punitivo per l’Ucraina. Accompagnata da un’umiliazione, fin dove è possibile, dell’Europa tutta. (…) Sappiamo benissimo che anche le paci del passato contenevano dosi di ingiustizia (che tra l’altro hanno poi provocato ulteriori guerre). Ma la pace predatoria, ostentatamente punitiva nei confronti di chi si sta battendo da oltre tre anni e di chi, come l’Europa su quella resistenza ha investito più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti, non offre alcun affidamento di stabilità.

Quanto all’accordo sulle risorse minerarie ucraine che Washington vorrebbe ottenere da Kiev, Federico Fubini scrive che, da quel poco che se ne sa, contemplerebbe anche «”meccanismi di compensazione dei rischi associati alla legge marziale e all’instabilità economica“. In altri termini, se dopo una tregua la Russia tornasse a bombardare, l’Ucraina dovrebbe indennizzare le imprese americane nel caso in cui queste fossero costrette a interrompere o rallentare lo sfruttamento minerario del Paese. Se qualcuno al Cremlino decidesse di attaccarlo, il contribuente ucraino dovrebbe dunque pagare l’azionista americano: un codicillo da pace cartaginese».

Non stupisce che in Russia, come riporta l’inviato Marco Imarisio, prevalga l’euforia sull’andamento dei negoziati (che pure Mosca continuerà con tutta probabilità a tirare per le lunghe). Né che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, da ieri sera a Parigi – dove oggi i leader di 30 Paesi (compresa Giorgia Meloni per l’Italia, che ribadirà il no a nostre truppe sul terreno, se non sotto l’egida Onu) si riuniscono a Parigi per discutere di nuovo su quale forma possa prendere la «coalizione dei volenterosi» alla quale lavorano da settimane soprattutto Francia e Regno Unito – abbia concordato con Emmanuel Macron sulla necessità di una “diplomazia basata sulla forza” nei confronti di Mosca. Quanta forza l’Europa saprà mettere in campo (e per quanto tempo) resta da vedere. Intanto, però, Macron ha annunciato un nuovo aiuto francese a Kiev di due miliardi di euro in «missili Mistral, carri AMX e munizioni».

Il no alla sfiducia a Nordio

Per il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, la mozione di sfiducia contro di lui per il caso Almasri (il torturatore libico, ricercato dalla Corte penale internazionale, arrestato a Torino a gennaio e subito rilasciato e riaccompagnato in Libia con un volo di Stato) era soltanto il frutto del clima «da Inquisizione» scatenato dalle opposizioni sulla riforma della giustizia, con al cuore la separazione delle carriere fra giudici e pm, voluta dal governo. «Non vacilleremo. La riforma andrà avanti. Più violenti e più sciatti saranno gli attacchi e più noi saremo forti e determinati. Se voi farete del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio» ha detto concludendo ieri il suo intervento in Parlamento. La sfiducia non è passata (215 no e 119 sì). Ma la segretaria del Pd, Elly Schlein, parla di «pagina vergognosa». E Maria Elena Boschi (Iv) accusa il ministro di mentire: «Lei è l’unico a pensare che Almasri sia stato liberato per un cavillo».

Sullo specifico del caso Almasri, Giovanni Bianconi scrive: «Nella richiesta della Procura presso la Cpi di deferire l’Italia al Consiglio di sicurezza dell’Onu per aver liberato il ricercato Almasri, è scritto in maniera esplicita: “Anche supponendo che le questioni critiche esistessero, il che non è vero, l’Italia non si è consultata con la Corte per risolverle“. Non solo: “L’Italia non ha menzionato l’esistenza di alcun problema quando le è stato specificamente richiesto dalla Corte”. Conclusione dei pubblici ministeri dell’Aia: “Se l’Italia avesse consultato la Corte come richiesto dalla legge, le presunte questioni individuate sarebbero state chiarite e risolte il 20 gennaio 2025 (quando il ricercato era ancora detenuto nel carcere di Torino, ndr). Il ministero della Giustizia avrebbe avuto il tempo di trasmettere le richieste al procuratore generale di Roma, e la Corte d’appello avrebbe potuto ordinare nuovamente la detenzione di Najeem Almasri”Su questo punto-chiave il Guardasigilli non ha detto nulla né nel suo intervento del 5 febbraio scorso alla Camera né ieri; e di fronte alle richieste della Cpi di avere una giustificazione della mancata interlocuzione con la Corte stessa, ha preso tempo invocando il segreto istruttorio per via dell’inchiesta penale in corso davanti al tribunale dei ministri. A conferma che si tratta del tema centrale, per l’Italia davanti ai giudici dell’Aia e per lui davanti a quelli del tribunale dei ministri».

Sulla questione più generale della riforma della giustizia scrive invece Massimo Franco nella sua Nota: «La situazione rimane tesa, con un conflitto istituzionale difficilmente eludibile. E il referendum promette di aggravarlo. Il fatto che al vertice dell’Anm sia approdato Cesare Parodi, esponente di Mi, la componente moderata, non ha cambiato le cose. Significa che la contrarietà del potere giudiziario alla riforma è trasversale e unitaria; e che il governo ha rinunciato al dialogo, perché le posizioni sono troppo distanti: sebbene a parole gli uni e gli altri assicurino di essere pronti a venirsi incontro».

Le proteste a Gaza contro Hamas

Centinaia di palestinesi hanno protestato contro il governo di Hamas e contro la guerra. I video diffusi in rete mostrano circa 100 residenti di Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, e cartelli con la scritta «Stop alla guerra». Tra i cori: «Fuori Hamas», «Terroristi di Hamas», «La gente vuole rovesciare Hamas» e «Sì alla pace, no alla guerra in corso». Slogan che evocano il movimento Bidna N’eesh («Vogliamo vivere»), emerso durante le proteste economiche di Gaza del 2019 e che si ribellano contro il gruppo, al potere a Gaza da quando cacciò l’Autorità nazionale palestinese dal territorio quasi due decenni fa.

«Che sia Fatah a sostenere le manifestazioni difficile dirlo – scrive l’inviata Marta Serafini – dato lo scarso accesso alle fonti sul campo (ai giornalisti internazionali dopo 17 mesi di guerra è ancora impedito l’accesso). In uno dei raduni di fronte all’ospedale Indonesiano, alcuni dimostranti hanno issato bandiere bianche». «Ho preso parte per dire basta con la guerra e perché non abbiamo più cibo», spiega un manifestante al Corriere, aggiungendo di aver visto «le forze di sicurezza di Hamas in abiti civili disperdere la protesta».

 

 

Intanto il premier israeliano Benjamin Netanyahu continua a minacciare di annettersi parti di Gaza se Hamas non dovesse rilasciare gli ostaggi e il gruppo minaccia di uccidere gli ostaggi se non dovessero cessare i raid. La situazione nella Striscia resta tragica, con oltre 50 mila vittime denunciate dalle autorità sanitarie locali controllate da Hamas. Secondo indiscrezioni della stampa internazionale, l’esercito israeliano ha pronti piani per un’operazione militare su vasta scala che porterebbe di fatto all’occupazione militare della Striscia, compresa la gestione degli aiuti umanitari.

Le altre notizie

  • «Mi sento responsabile, ma non colpevole.

    Sentivo il peso allora e lo sento oggi. A crollare è stato un ponte monitorato, sul quale i lavori erano continui, cantieri infiniti, una grande società d’ingegneria aveva scritto che le procedure di controllo erano adeguate. Ma questo non cancella quello che è successo: il ponte è caduto e non doveva cadere». A sette anni dal crollo del ponte Morandi di Genova ha parlato in aula per 5 ore  Giovanni Castellucci, ex ad di Autostrade per l’Italia. «Mai risparmiato sulla manutenzione e dai tecnici nessuna segnalazione», ha detto. Rabbia dei parenti delle vittime.

  • Cinque giorni dopo la gran baruffa dell’Auditorium, Romano Prodi  riconosce di aver «commesso un errore» con la cronista di Mediaset, Lavinia Orefici. Del resto, il video mandato in onda l’altra sera da Giovanni Floris su La7, durante la puntata di DiMartedì, non lascia dubbi: ripreso da un’altra angolazione il Professore, sabato scorso, la ciocca di capelli dell’inviata di Quarta Repubblica — dopo aver ascoltato la domanda sul Manifesto di Ventotene — l’ha afferrata e tirata leggermente, mentre lui a caldo aveva parlato solo di «una mano sulla spalla». Così ieri, in due momenti diversi, l’ex premier dell’Ulivo è voluto tornare sull’argomento: non tanto per chiedere scusa («Non c’è proprio niente da chiarire») quanto per dirsi dispiaciuto e difendere la sua storia.

  • Udienza rinviata al 20 maggio e, scrive Luigi Ferrarella, “ buon compleanno al procedimento sulla truffa aggravata allo Stato. Perché il 20 maggio, quando in Tribunale a Milano si tornerà in aula per l’udienza preliminare ieri slittata di altri due mesi per il cambio di uno dei due avvocati della ministra del Turismo Daniela Santanchè, saranno appunto passati già 12 mesi”. Un anno senza che ci si sia spostati dalla richiesta di rinvio a giudizio del 3 maggio 2024 per l’imprenditrice-senatrice di Fratelli d’Italia, indiziata di aver indebitamente percepito 126.468 euro erogati in 20.117 ore di cassa integrazione Covid tra il 2020 e il 2022 a 13 dipendenti delle sue società Visibilia Editore spa e Concessionaria srl. Nel frattempo la prossima settimana la ministra del Turismo, le cui società avevano già ridato all’Inps tutti i 126 mila euro in contestazione, si è impegnata a bonificare all’istituto altri diecimila euro per risarcire i danni da esercizio e circa altri 40 mila per risarcire i danni di immagine all’Inps, che annuncia il ritiro della costituzione di parte civile.

  • Dopo la Corte dei conti, anche la procura di Roma ha avviato per i circa 270 mila euro (più Iva) che il Comune di Roma avrebbe speso per l’allestimento della manifestazione pro Europa del 15 marzo scorso. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri aveva presentato un esposto ipotizzando il reato di peculato.

  • La fotografia dell’Istat nel suo rapporto sulle «Condizioni di vita e reddito delle famiglie – anni 2023-2024» è impietosa: nel 2024 in Italia 13 milioni 525 mila persone sono state a rischio di povertà o esclusione sociale. Il 23,1% della popolazione è stato in una delle tre condizioni fissate dagli indicatori di Europa 2023: a rischio di povertà; in grave deprivazione materiale e sociale; a bassa intensità di lavoro. Quasi tre milioni (2 milioni e 710 mila) le persone in grave privazione materiale e sociale, che significa, secondo gli indicatori, non potersi permettere un pasto adeguato tutti i giorni, non riuscire a pagare le bollette, l’affitto, il mutuo, non poter riscaldare la propria casa. A rischio povertà sono oltre 11 milioni di individui, il 18,9% dei residenti in Italia: hanno un reddito equivalente netto sotto i 12.363 euro. (Ne ha scritto anche Elena Tebano nella nostra Rassegna). Il magazzino dei crediti fiscali in riscossione, intanto, è arrivato a 1.272 miliardi di euro, solo 568 dei quali teoricamente ancora riscuotibili, secondo la Commissione incaricata dal Mef di valutare il fenomeno. Secondo l’Ufficio di Bilancio, però, i crediti realmente esigibili ammonterebbero ad appena 100 miliardi.

  • La proroga del termine di fine marzo per l’assicurazione obbligatoria delle imprese contro le calamità naturali ci sarà. Possibile l’estensione del bonus elettrodomestici, ma nessuna speranza di rinvio per il nuovo regime fiscale per le auto aziendali concesse in uso promiscuo ai dipendenti.

  • MediaForEurope rompe gli indugi e lancia una scalata «al minimo» su Prosiebensat. Dopo mesi di indiscrezioni, il gruppo ex-Mediaset ha annunciato l’intenzione di promuovere un’offerta pubblica di acquisto sul gruppo media tedesco. L’obiettivo di Mfe è aumentare la sua partecipazione oltre l’attuale 29,9% in modo da poter influire maggiormente sui piani di Prosiebensat. «Serve un cambio di passo prima che sia troppo tardi», ha detto Pier Silvio Berlusconi, ad di Mfe, che da tempo esorta il broadcaster bavarese a concentrarsi sulle attività televisive, vendendo le altre controllate.

  • Dopo trent’anni di incarico, da ieri Emanuela Maccarani non è più allenatrice della Nazionale, direttrice delle farfalle azzurre e dell’Accademia della Ritmica di Desio. La decisione presa dal nuovo consiglio della Federginnastica è stata ratificata dal presidente Andrea Facci. A due anni dalle accuse di maltrattamenti da parte delle ex azzurre Corradini e Basta, per Maccarani è stata richiesta l’imputazione coatta dal Gip di Monza (la decisione sul rinvio a giudizio è attesa a breve) mentre non sono noti i tempi del nuovo processo sportivo.

Da leggere e ascoltare

L’intervento del premio Nobel della Letteratura Orhan Pamuk che, sulle proteste nella sua Turchia dopo l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, scrive: «Da un decennio a questa parte, la Turchia non è più una vera democrazia, ma solo una democrazia elettorale: si può votare per il proprio candidato preferito, ma non esiste libertà di parola né di pensiero. Il governo turco ha infatti cercato di ridurre la popolazione a un’uniformità forzata. Nessuno osa parlare nemmeno dei molti giornalisti e funzionari pubblici che sono stati arrestati arbitrariamente negli ultimi giorni, sia per dare maggior peso e credibilità alle accuse di corruzione contro Imamoglu, come pure nella convinzione che, con tutto quello che sta succedendo, nessuno ci farà caso. Ora, con l’arresto del politico più popolare del Paese, il candidato che avrebbe sicuramente ottenuto la maggioranza dei voti alle prossime elezioni nazionali, persino questa forma limitata di democrazia è giunta al capolinea. Tutto questo è inaccettabile e profondamente insopportabile, ed è il motivo che spinge un numero sempre maggiore di persone a partecipare alle recenti proteste. Per il momento, nessuno può prevedere che cosa ci riserva il futuro».

L’intervista di Daniele Sparisci alla trionfatrice della stagione di sci alpino femminile, Federica Brignone, che rivela: «Testa e velocità sono i miei segreti».

Il retroscena di Monica Guerzoni «Più confronti tra i vicepremier, così Meloni detta le regole per la tregua dopo i duelli».

L’analisi di Giorgio La Malfa «Una strada per la difesa nucleare Ue».

Il corsivo di Luigi Ippolito «Libertà di parola da tutelare: multa all’università».

La rubrica di Danilo Taino, oggi sulle «purghe» di Xi che fanno paura a Taiwan.

L’intervista di Candida Morvillo allo scrittore Walter Siti: «Se fossi rimasto solo un critico letterario mi sarei ucciso».

Il podcast Giorno per giorno, in cui si parla di Ucraina, Signalgate e caso Maccarani con Lorenzo Cremonesi, Marilisa Palumbo e Marco Bonarrigo.

Il Caffè di Gramellini
La borsa dell’apocalisse

Dopo aver seguito il video in cui la commissaria europea per la gestione delle crisi Hadja Lahbib illustra in tono ilare come affrontare le prime 72 ore di un’eventuale emergenza continentale, mi sento molto più sereno. Siamo in ottime mani. Dalla borsetta della commissaria spuntano coltellini svizzeri, carte da gioco, caricatori per telefonini e barrette energetiche. Le prime cose che verrebbero in mente a tutti, nel caso in cui ci arrivasse addosso un missile o un’altra pandemia, ma era giusto ricordarcele. Per esempio: nella mia lista di preparativi per la fine del mondo in 72 ore (non una di più), i caricatori c’erano, e anche le carte, ma le barrette no. Avevo messo i wafer, però li tolgo subito: è l’Europa che me lo chiede. Mi piace tantissimo essere trattato a sessant’anni come un bambino, anche perché oggi nessun bambino si lascerebbe trattare così. Se la commissaria avesse fatto uscire dalla borsa una maglietta della salute, sarei scoppiato in lacrime per la commozione. Eh sì, queste trovate alla Mary Poppins scaldano il cuore di gratitudine. Se avesse parlato di rifugi antiatomici, difese satellitari e potenziamento delle terapie intensive negli ospedali, mi sarei tanto spaventato. Invece un’ipotetica catastrofe ridotta alle dimensioni di un pigiama party fa meno paura, vero?

E poi adesso abbiamo finalmente le idee più chiare sul piano di riarmo europeo. Spaventeremo Putin agitandogli in faccia dei coltellini da campeggio.

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mercoledì 26 marzo 2025

Poveri italiani, patriottismo progressista, la rivincita dei carnivori (e quella della «manosfera»), le donne sul balcone

Poveri italiani, la rivincita dei carnivori (e quella della «manosfera»), le donne sul balconeTrump con gli hamburger per i suoi ospiti alla Casa Bianca, nel 2019

editorialista

di   Elena Tebano

Bentrovati. Nella Rassegna di oggi:

Poveri italiani Dall’ultimo rapporto Istat sui redditi delle famiglie emerge un quadro molto preoccupante. Quasi un quarto degli italiani è a rischio di povertà o di esclusione sociale. E le famiglie con figli sono quelle che rischiano di più la precarietà economica. Un problema di cui la politica si occupa troppo poco.

Trump fa bene ai progressisti Almeno ai loro leader più accorti, dal Canada al Messico, dalla Francia alla Gran Bretagna. Tutti efficaci, spiega Gianluca, nel rispondere allo choc trumpaino con un patriottismo concreto. Che, nel caso degli europei, ha mosso pure qualcosa sul fronte della difesa comune. I sovranisti invece…

La rivincita dei carnivori Fino a qualche tempo fa si pensava che l’avanzata di vegetariani e vegani fosse inarrestabile. E invece in America stanno tornando alla grande l’hamburger e la bistecca. Sostenuti da un battage politico della destra, che promuove proteine e testosterone. Lo racconta Alessandro.

E quella della «manosfera» In una lunga intervista a El Pais, l’autrice ambientalista e femminista Rebecca Solnit spiega che l’amministrazione Trump è l’espressione di un’ondata internazionale di misoginia. Elisa Messina l’ha letta per noi.

La Cinebussola Le donne al balcone – The Balconettes di Noémie Merlant è una commedia al femminile che vira inaspettatamente verso il thriller e addirittura l’horror. Ma è più profonda di come possa apparire a prima vista: non è un caso, nota Paolo Baldini, che la sceneggiatura sia dell’acclamata regista italo-francese Céline Sciamma.

Buona lettura!

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Rassegna sociale

Poveri italiani. Quasi uno su 4 è a rischio povertà o esclusione sociale

editorialista

Elena Tebano

Hanno un reddito familiare di mille euro al mese (o più basso); sono rimasti indietro con l’affitto o il mutuo, oppure non possono permettersi pasti adeguati o non riescono ad affrontare spese impreviste, o hanno lavorato meno di 73 giorni in un anno. Secondo l’Istat, hanno vissuto almeno una di queste condizioni oltre 13 milioni e mezzo di italiani: quasi uno su quattro, che nel 2024 erano quindi a rischio di povertà o esclusione sociale (il 23,1% in leggero ma inesorabile aumento rispetto all’anno precedente, quando erano al 22,8%).

La situazione è ancora più grave per le famiglie che hanno almeno un figlio minore, per le quali il tasso di povertà/esclusione sociale sale al 25,5%: una su quattro. E il rischio aumenta con il numero dei figli. Non bisogna sorprendersi se in Italia la natalità è in calo quando per almeno un quarto delle famiglie avere un figlio significa scivolare verso la povertà.

Dal rapporto dell’Istat «Condizioni di vita e reddito delle famiglie. Anni 2023-2024», pubblicato oggi, emerge anche che un lavoratore su dieci tra i 18 e i 64 anni è a rischio di povertà lavorativa (in lieve crescita rispetto al 2023) e che i redditi reali continuano a diminuire. Nel 2023 il reddito medio annuale delle famiglie italiane era di 37.511 euro, in aumento rispetto all’anno prima se si considera la cifra assoluta (+4,2%), ma più basso in termini reali, cioè se si misura rispetto all’aumento dei prezzi  (-1,6%).

Il calo dei redditi in termini reali è particolarmente pesante nel Nord-Est (-4,6%) e nel Centro (-2,7%), mentre sono rimasti pressoché stabili nel Mezzogiorno (-0,6%) e nel Nord-ovest (+0,6%). Rispetto al 2007, i redditi reali delle famiglie sono scesi del 13,2% nel Centro, -11,0% nel Mezzogiorno, -7,3% nel Nord-Est e -4,4% nel Nord-Ovest. Significa che in media, per guadagnare la stessa cifra in termini reali bisogna lavorare un mese in più all’anno. Il calo dei redditi reali è ancora più pesante per le famiglie dei lavoratori autonomi (-17,5%) o dipendenti (-11,0%). Le uniche famiglie ad aver visto un aumento reali dei redditi sono quelle che vivono delle loro pensioni o di trasferimenti pubblici (+ 5,5%).

L’Italia è il grande Paese europeo che ha gli stipendi reali più bassi. Negli ultimi trent’anni, come spiega Federico Bruni su lavoce.info, ha visto anche aumentare la quota di ricchezza nazionale dovuta alle eredità, un sintomo di diseguaglianza sociale. «Il valore totale delle eredità e delle donazioni in rapporto al Pil è cresciuto dall’8,4 per cento nel 1995 al 15,1 per cento nel 2016 e oggi sfiora il 20%: più che in molti Paesi avanzati. Per dare un ordine di grandezza, la cifra rappresenta più del doppio della spesa sanitaria pubblica e privata in Italia» nota Bruni. E dal 1990 le diseguaglianze sono aumentate: c’è sempre più distanza tra i pochi che stanno molto bene e quelli che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese (anche nel 2024 l’indice di Gini che misura le diseguaglianze è aumentato).

Le percentuali con i loro numeri sono astratte. Ma le conseguenze sono molto concrete: l’Italia è diventata un Paese più povero. Francesi, spagnoli, tedeschi a parità di lavoro possono permettersi più cose di noi. Le nuove generazioni della classe media hanno prospettive peggiori di quelle dei loro genitori. Per non parlare di quel quarto della popolazione che vive in precarietà economica. Eppure è  un tema che sembra quasi scomparso dalla discussione politica. Anche per questo non sorprende che gli italiani abbiano sempre meno fiducia nella politica.

 

 

Rassegna geopolitica

Il patriottismo progressista alimentato da Trump (e il vetero-sovranismo che non sa che fare)

editorialista

Gianluca Mercuri

In attesa di capire davvero gli effetti del ciclone Trump sull’America e sugli equilibri mondiali – e prendendo atto che gli indizi sparsi nei suoi primi due mesi non sono tranquillizzanti – si può cominciare a dire a chi abbia fatto bene il suo irruente ritorno alla Casa Bianca: ai leader mondiali di orientamento progressista. Si può anzi affermare che l’aggressività del trumpismo-bis abbia mostrato con chiarezza la differenza tra sovranismo e patriottismo, e che con altrettanta evidenza abbia svelato, se mai ce ne fosse bisogno, che il patriottismo progressista non è per niente un ossimoro. Anzi: forse (forse), in questa fase complicata, è la forma più efficace di patriottismo.

Gli esempi concreti hanno riempito le cronache di queste settimane.

  • In Canada, l’attacco di Trump alla sovranità stessa del Paese – la sua pretesa che diventi il 51° degli Stati Uniti – ha letteralmente salvato i liberali, che sembravano ormai spacciati. L’ex premier Justin Trudeau, cui Donald si rivolgeva chiamandolo governatore per umiliarlo e ribadire la sua minaccia annessionista, ha fatto in tempo a impugnare con fermezza la bandiera con la foglia d’acero e a cominciare la risalita nei sondaggi, completata dal suo successore Mark Carney. Un tecnocrate, Carney, già governatore (lui sì) della Banca del Canada e anche della Banca d’Inghilterra, che ha saputo scaldare i cuori e interrompere l’ascesa di Pierre Poilievre, leader dei conservatori, allineatissimo alla destra Maga (Make America Great Again, il trumpismo puro e duro). A gennaio, complice il carovita, Poilievre staccava Trudeau di 24 punti nei sondaggi, ora Carney ha colmato il gap e può affrontare le elezioni del 28 aprile da favorito. Motivo: il 43% dei canadesi pensa che sia il più attrezzato ad affrontare Trump, contro il 34% che crede nel rivale. Decisivo anche il profilo tecnocratico del neo premier, che sa di cosa parla quando deve occuparsi di dazi e controdazi.

  • In Messico, la presidente di sinistra Claudia Sheinbaum ha subito messo in chiaro le cose, rifiutando di ribattezzare il Golfo del Messico «Golfo d’America», come da pretesa trumpiana. Dopodiché, nell’affrontare l’offensiva dell’ingombrante vicino yankee, ha mostrato un approccio ben distante dal velleitarismo e tutto improntato al sangue freddo. Quindi, niente controdazi precipitosi e, semmai, misure di contenimento dell’immigrazione clandestina e del narcotraffico nella direzione sollecitata da Trump, che non a caso è arrivato a definirla «una donna meravigliosa». Abile, Sheinbaum, anche a nascondere le difficoltà economiche sotto la coperta della guerra commerciale minacciata un giorno sì e l’altro pure da Donald. «Trump è una manna dal cielo per giustificare un’economia sottotono», ha detto l’analista Carlos Ramírez al Financial Times. Il risultato è che la presidenta è all’85% nel gradimento dei messicani.

  • L’Ucraina è il caso più drammatico. Lì era ed è letteralmente una questione di sopravvivenza. Volodymyr Zelensky non è catalogabile tra i leader «progressisti» ma conferma i vantaggi dell’essere bersagliato da Trump: da lui si è sentito dire di tutto, «dittatore impopolare» che non fa votare gli ucraini e perfino responsabile della guerra. Da Trump e dal suo vice è stato anche clamorosamente umiliato in mondovisione. Ma ha confermato la sua statura da leader, abbozzando nel modo più giusto: del sostegno dell’America ha un bisogno vitale, dunque sì a tutte le proposte di tregua di Trump e sì alle sue pretese sui minerali ucraini, perché e purché non interrompa i rifornimenti militari, le comunicazioni satellitari e lo scambio di intelligence. Risultato: anche i suoi oppositori non si sono prestati al gioco trumputiniano di cercare un sostituto, e questo leader forgiato dalle e nelle condizioni più drammatiche ha i sondaggi migliori dell’ultimo anno e mezzo.

Ma i casi che ci interessano di più, da europei, sono quello francese e quello britannico.

  • In Francia, Emmanuel Macron era ormai descritto come un leader finito, un’anatra paralizzata più che zoppa. Era davvero impopolare. Ma nei due mesi trumpiani è risalito negli indici di gradimento ai livelli delle Olimpiadi parigine, mentre la sua rivale di destra Marine Le Pen è calata.

  • In Gran Bretagna, Keir Starmer era già stato crocifisso dopo pochi mesi a Downing Street. Ma anche lui ha stravolto tutto in poche settimane, riportando un Paese auto-emarginato al centro della scena mondiale. Ha dato una prova di leadership eccezionale, capendo subito l’aleatorietà della special relationship Usa-GB sotto Trump, e la irreversibilità del dato geografico-culturale che rende gli inglesi inevitabilmente europei a dispetto di qualsiasi isterismo (inglese o europeo). Anche lui è schizzato in alto nei sondaggi dopo essere stato dato precocemente per spacciato.

Nota bene: sia Macron sia Starmer sono resuscitati con prove di leadership straordinariamente serie. Non hanno sfidato Trump con un patriottismo velleitario, non hanno vellicato gli istinti nazionalisti. Hanno replicato a tutte le sortite aggressive del presidente americano, difendendo la Groenlandia, la Danimarca e soprattutto l’Ucraina, ma senza polemizzare con lui. Sono anzi andati prontamente alla Casa Bianca, lo hanno riverito omaggiato e blandito. Hanno ribadito più volte la sacralità concreta, la necessità assoluta del legame tra America ed europei.

Ma nel frattempo si sono mossi, eccome.

Sono stati i primi a rispondere all’appello disperato di Mario Draghido something, e hanno fatto qualcosa. Hanno convocato un vertice dopo l’altro nelle rispettive capitali e messo in piedi la «coalizione di volenterosi» che non rinuncia a sostenere l’Ucraina e a respingere le irricevibili pretese russe già avallate da Trump. La loro disponibilità immediata a creare un contingente di europei a trazione franco-britannica come forza di interposizione in Ucraina ha avuto una valenza politica enorme: ha appunto mostrato che ci sono europei pronti a muoversi e a rischiare, e a farlo subito, e questo è il messaggio che resta al di là della praticabilità del piano. Ha costretto tutti gli altri a confrontarsi con questa disponibilità e a immaginare alternative.

Soprattutto, nell’innestarsi sui primi propositi, se non piani, di riarmo europeo, ha ribadito che l’Europa è un concetto molto meno sterile di come venga dipinto, e che procede per accelerazioni proprio per la sua mancanza di rigidità, che ne è il limite ma anche la forza. Il motore franco-britannico, unito al ritorno di una leadership tedesca forte, ha rilanciato la nozione di difesa comune europea, la sua necessità improrogabile, ribadendo che le svolte si fanno con passi progressivi, con iniziative anche estemporanee e sperimentali.

Un pragmatismo che contrasta e può sconfiggere l’euroscetticismo perenne di chi sentenzia che senza uno Stato unico europeo non ci può essere una difesa comune, e che quindi non ci sarà mai. La difesa comune, invece, si costruisce concretamente con forme di collaborazione e integrazione politica, militare e industriale sempre più varie e sempre più avanzate, anche prima e anche senza gli Stati Uniti d’Europa. Confrontandosi, discutendo, ma facendo qualcosa, e sempre di più.

In poche parole: l’Europa ribadisce a sé stessa che si fa e si rafforza procedendo con chi ci sta, le famose due velocità, le geometrie così variabili che all’improvviso fanno riscoprire una Gran Bretagna vicinissima e co-interessata all’Europa, e la Brexit sembra lontanissima.

Ecco gli effetti della risposta di leadership patriottiche, e straordinariamente dignitose, allo sconvolgimento trumpiano. L’Italia e la sua leadership sovranista hanno scelto invece una risposta diversa, una non risposta, nell’illusione di farsi «ponte» con Washington e nella tentazione di sfruttare le affinità ideologiche col trumpismo per costruire un’egemonia culturale globale finalmente di destra. Da qui l’evidente fastidio per le mosse degli altri europei, e le proposte senza basi come l’estensione all’Ucraina della protezione Nato anche se non può entrare nella Nato, fingendo di non sapere che se nessuno vuole l’Ucraina nella Nato è proprio per non impegnarsi alla sua protezione automatica. E poi, la ripetizione ossessiva della necessità di mantenere il legame tra le due sponde dell’Atlantico, come se questa necessità fosse negata dagli altri europei e non calpestata da Trump. E la contraddizione del dirsi trumpiani senza rispondere al richiamo più giusto di Trump: è ora di badare a noi stessi. Il primo modo per rispondere era dire sì all’idea di andare in Ucraina da europei, e non boicottarla per il timore che fosse davvero un primo passo per quell’integrazione che la destra ha sempre aborrito.

Ci sono leader che hanno insomma subito individuato una dimensione patriottica e un interesse nazionale supremo in iniziative europee comuni. E altri che hanno sperato invece di poter rispondere al richiamo della foresta sovranista. Scoprendo che il sovranista più sovranista di tutti preferisce la giungla.

Rassegna gastronomica

La rivincita dei carnivori e la destra americana a caccia di testosterone

editorialista

Alessandro Trocino

Un tempo il simbolo del maschio forzuto era Braccio di Ferro, che mangiava scatolette di spinaci a raffica, con il ferro che gli gonfiava i bicipiti, mentre il maschio bolso e sovrappeso, Poldo, si ingozzava di hamburger, tanto da diventare il simbolo di una catena di fast food (Wimpy). Negli ultimi anni la retorica del maschio forzuto sembrava essersi appannata, insieme al consumo di carne. Ma eccoci ancora qui. Decenni di allarmi sui danni della carne, e degli allevamenti intensivi, campagne su campagne per nobilitare gli erbivori e promuovere i cibi vegetali, sembrano già dimenticati. Make America healthy Again è miseramente fallita. E sì, c’entrano anche loro – sembra che non si possa più fare a meno di citarli – Donald Trump e Elon Musk.

I dati sono chiari: in dieci anni, dal 2014 al 2024, il consumo annuale pro capite di carne è aumentato di quasi 28 libbre, l’equivalente di circa 100 petti di pollo a testa. Quello che è venuto meno, e la disinvoltura etica dei Maga ha dato una grossa mano, è il senso di colpa. Che male c’è a mangiare tanta carne? Molto male, come abbiamo detto, ma sembra che non importi più a nessuno. Quelli che ancora si dichiarano vegani o vegetariani, dice una ricerca citata da The Atlantic, in realtà non disdegnano di mangiare prosciutti e tacchini, all’occorrenza. C’è stato un disaccoppiamento, non tra Russia e Cina, ma tra la percezione di sé e la realtà.

Perché sta succedendo? C’entra l’ossessione per le diete, che di recente ha messo sul trono le proteine. Lo snack più venduto a livello nazionale sono bastoncini di carne essiccata, gli Slim Jim. McDonald’s e Carl’s Jr che avevano introdotto menu a base di vegetale, alternativi alla carne, li hanno dismessi (un po’ come i Dei, le politiche del personale antidiscriminatorie). Ma c’è poi, soprattutto la questione politica, come scrive Yasmin Tayag su The Atlantic: «L’abbraccio della carne non riguarda solo il cibo, ma anche ciò che la carne rappresenta: tradizione, forza, predominio, muscoli, valori sostenuti dalla destra. C’è una ragione per cui “soy boy” è un comune dispregiativo per descrivere i liberal non sufficientemente mascolini. I conservatori hanno cercato a lungo di trasformare la carne in un fronte nelle guerre culturali, suggerendo persino che i democratici “vogliono portarvi via gli hamburger“. L’anno scorso, il governatore della Florida Ron DeSantis ha emesso un divieto preventivo sulla vendita di carne coltivata in laboratorio nel suo Stato, descrivendolo come parte del “piano dell’élite globale per costringere il mondo a mangiare carne coltivata in una capsula di insetti».

E qui si potrebbe fare una digressione/comparazione con i sovranisti nostrani che odiano quella che chiamano carne artificiale (ma è coltivata), mentre non fanno un plissé sugli allevamenti intensivi, nei quali giacciono animali morti e pieni di malattie. E un parallelo ci sta anche con il richiamo alla tradizione, che propugnano sia la destra americana sia quella italiana. Il New Yorker parla della «rivincita della steakhouse americana» che «per alcuni rispristina il giusto ordine». La tradizione è quella, almeno quella inventata, come tutte le tradizioni. Inutile aggiungere che gli uomini erano cacciatori in origine e oggi mangiano più carne delle donne. Le statistiche dimostrano che gli uomini più attaccati alla tradizione (eufemismo per maschilisti) mangiano più carne di tutti.

 

Helen Rosner, sul New Yorker, non pare stupita dal ritorno della steakhouse: «Mi sembra che ci sia coerenza tra quello che succede. L’ascesa delle mogli tradizionali, la fine del vaccino antinfluenzale, il lusso silenzioso, il ritorno della poliomielite, il ritorno di Donald Trump e del suo gusto, tra le altre cose dubbie, per la carne ben cotta».

L’hamburger è popolarissimo tra i fan di Trump e tra gli influencer che lo usano per contestare la «falsa mascolinità della sinistra» e per invitare a mangiare testicoli di manzo crudi per aumentare il testosterone. Il noto anchorman Maga Tucker Carlson preferisce interiora di animale e uova crude. Il podcaster di destra Joe Rogan già che c’è nega, o ridimensiona, l’allarme sul clima degli allevamenti intensivi e Elon Musk gli dà ragione: «Puoi mangiare tutta la carne che vuoi». Eat, baby, eatIl ministro della Salute Robert F. Kennedy Jr., intanto, invita tutti (seguito da diverse catene di fast food) a sostituire l’olio di semi (accusato falsamente di causare malattie) con il sego di manzo.

Insomma, testi come «Il dilemma dell’onnivoro» di Michael Pollan o «Se niente importa» di Jonathan Safran Foer e documentari come «Food Inc.» sono sostanzialmente dimenticati. Gli americani, tutti assieme appassionatamente, hanno ricominciato a mangiare carne, senza troppi sensi di colpa. In linea con il grande perdono collettivo impartito dai nuovi sacerdoti del potere, che invitano a fregarsene del clima, delle pandemie, del benessere animale e dello stato del pianeta. In definitiva, degli altri. Come ha scritto il filosofo Peter Singer: «La maggior parte delle persone continuerà tranquillamente a fare qualcosa che ritiene sbagliato, finché ha molta compagnia».

Rassegna dei diritti

La rivincita della «manosfera», grazie a Trump

editorialista

Elisa Messina

L’ultima giornata internazionale della donna avrebbe potuto essere, negli Stati Uniti, la prima con una donna presidente. E invece le americane hanno dovuto digerire il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, un 78enne bianco, noto per le sue uscite misogine, finito più volte al centro di scandali sessuali, che ogni giorno, con una retorica elementare, demolisce e minaccia di demolire diritti e conquiste che la società civile americana aveva dato per acquisiti, a partire da quelli delle donne, come quello all’aborto. E che si fa paladino di una fetta consistente di elettorato che non si limita a ribadire che i generi sono solo due (come ha fatto il presidente nel suo discorso inaugurale) ma che, in nome di un America più bianca e virile, difende la visione tradizionale dei ruoli maschili e femminili e giudica eccessiva l’autonomia delle donne.

È sul ritorno di questa America virile, anzi, mascolina, che riflette Rebecca Solnitin un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais e lo fa con lo stile che la contraddistingue, ovvero con l’ironia e i paradossi. Intellettuale e femminista, Solnit è una prolifica autrice di saggi non solo sul femminismo. Arguta osservatrice della società, prima ancora che attivista, registra fenomeni che diventano oggetto di dibattito e generano modi di dire. Come il concetto di «mansplaining», scaturito dal suo divertente libro «Gli uomini mi spiegano cose», ed entrato poi nel lessico femminista. Per tradurre “mansplaining” bisogna ricorrere a una perifrasi: quel vizio degli uomini di voler dare spiegazioni non richieste alle donne (che non ne hanno bisogno) in quanto le giudicano poco autorevoli.

Proprio con quel gusto di pennellare espressioni, nell’intervista Solnit rinomina gli Usa, «United states of amnesia», Stati Uniti dell’amnesia, per descrivere il fatto che l’opinione pubblica americana ha una memoria molto corta ed è facilmente influenzabile; il che, per lei, spiega la vittoria di Trump e più generale della visione reazionaria della società portata avanti da lui, dal vicepresidente J.D. Vance e dal «consulente» governativo Elon Musk.

«Sono rimasta molto colpita – racconta Solnit – da uno studio uscito dopo le elezioni che affermava che più eri disinformato su criminalità, immigrazione ed economia, più eri incline a votare per Trump. Il presidente è il sintomo di una malattia di disinformazione e le cause sono da una parte i social media – uno manipolato da Elon Musk (X) e l’altro da Mark Zuckerberg (Facebook – Meta) – e dall’altra i media di destra. Ho avuto la sensazione che i media tradizionali e generalisti abbiano fatto un lavoro orribile nel coprire Trump l’anno scorso, normalizzandolo, minimizzando le minacce molto evidenti che stava facendo e che ora sta attuando». Insomma, per usare un’espressione cara al mondo femminista, parlando del Trump II non si può dire che «non l’hanno visto arrivare». E ora il presidente sta semplicemente mettendo in pratica quello che ha promesso.

Tra le minacce realizzate c’è, per esempio, la decisione di cancellare qualsiasi traccia delle politiche Dei (diversità. equità e inclusione) da tutte le istituzioni pubbliche americane (dalle scuole alle Forze armate) perché giudicate dalla nuova amministrazione «discriminatorie». Il risultato sono svolte ai limiti del grottesco come quelle che ha raccontato Velia Alvich sul Corriere: dal sito del Pentagono è scomparsa la foto del bombardiere di Hiroshima Enola Gay perché contiene la parola «gay» (che in quel caso è un cognome). Ed è stata rimossa anche la pagina «Women’s History Month: All-female crew supports warfighters» (Mese della storia delle donne: Un equipaggio tutto al femminile supporta i combattenti). Obbedienti ai diktat trumpiani anti Dei anche i funzionari della Nasa che hanno modificato le parole del programma Artemis che ha l’obiettivo di riportare l’uomo sulla Luna: spariti dal testo i riferimenti a donne e persone di colore.

Solnit parla di un consenso costruito sull’ignoranza, sulla memoria corta, sul maschilismo, e sull’odio: «Hanno creato un culto di persone che diventano incredibilmente obbedienti quando si tratta di odiare e avere paura di qualsiasi cosa venga detto loro di temere questa settimana. Per esempio, nessuno la pensava così dei ragazzi trans cinque anni fa. Non ricordo chi odiavano allora, ma so che 10 anni fa odiavano i musulmani. Sembra proprio la realizzazione dell’Orwelliano “Odio della settimana”. Questo ci ricorda che chiunque è manipolabile».

Quanto alla misoginia del presidente americano e della sua base elettorale la studiosa ricorda un termine, poco trattato sui nostri media generalisti, quello di «manosfhere», manosfera (da «man», uomo) ovvero quella comunità maschile fatta di siti, blog e podcast che in rete porta avanti teorie e visioni anti donne, maschiliste e a volte apertamente violente. Una comunità eterogenea e trasversale per età che ha i suoi guru e i suoi influencer e che coinvolge diverse «tribù», dagli Mra (Attivisti per i diritti degli uomini) ai Pua (uomini che insegnano come sedurre le donne a prescindere dal loro consenso) agli incel (celibi involontari). Quello della manosfera è un mondo virtuale che usa un linguaggio violento e nel quale finiscono invischiati anche i giovanissimi con la conseguenza che questa violenza da virtuale diventa, purtroppo reale, come mostra bene una serie tv britannica di cui si parla molto in questi giorni, “Adolescence” (qui la recensione di Maurizio Porro).

Che alla comunità dei maschi violenti e frustrati della manosfera Trump debba molti voti lo si è capito quando il presidente ha autorizzato il rientro negli Usa dalla Romania dei fratelli Andrew e Tristan Tate (38 e 36 anni): ex kickboxer da svariati milioni di follower su X e noti per le loro posizioni antifemministe e razziste, i Tate erano agli arresti domiciliari in Romania con le accuse di violenza sessuale e tratta di esseri umani (cioè prostituzione forzata) quando il presidente americano è intervenuto sul governo romeno perché revocasse il divieto di allontanamento imposto ai due.

Solnit ricorda il caso dei Tate ma sottolinea che la comunità di «uomini che odiano le donne» non è un fenomeno solo americano: «Un’ondata internazionale di misoginia guidata da quella che chiamiamo la manosfera e la parte più reazionaria dei cibernauti respingono i diritti trans, i diritti gay, la giustizia razziale. È come se loro ci stessero dicendo: “Avete cambiato il mondo in un modo che non ci piace e vogliamo ribaltare il risultato”. Stanno letteralmente cercando di far tornare indietro la storia. È terribile, è miserabile, è spaventoso, ma allo stesso tempo può essere preso come il promemoria che abbiamo realizzato molto».

Quel “molto” sono le conquiste del femminismo, in termini di equità, degli ultimi 60 anni: «Sono nata nel 1961 e a quell’epoca la società non solo era priva di molti di quei diritti che le donne hanno ora, non avevamo nemmeno un linguaggio per parlare della disuguaglianza tra uomini e donne, ci era negato l’accesso al potere, ci erano negati ruoli nella vita pubblica, non c’era l’uguaglianza nel matrimonio o sul posto di lavoro, nell’istruzione o nel sistema legale. Il femminismo ha fatto un lavoro sorprendente nella mia vita per cambiare tutto questo. Ma negli Stati Uniti dell’Amnesia, è difficile far ricordare alla gente cose di due settimane fa, figuriamoci di due o tre decenni fa».

Ad amplificare la visione misogina e di conseguenza il parterre dei sostenitori di Trump hanno contribuito, dice Solnit, i social e l’atteggiamento assunto dagli stessi guru della Silicon Valley: Marc Zuckerberg, per esempio, ospite nel podcast di Joe Rogan, uno dei più seguiti a livello mondiale anche da giovanissimi, ha detto che le aziende dovrebbero avere «più energia mascolina». Per loro Solnit non ha parole tenere: «La Silicon Valley è sempre stata fatta di tizi con scarse capacità sociali, per dirla in modo educato. Lì c’è una storia di discriminazione per sesso e razza. Questa nuova ossessione per la mascolinità che vediamo in Jeff Bezos e Mark Zuckerberg è il segno che queste persone che manipolano le informazioni vengono anche manipolate da esse». In questo gorgo di manipolazione reciproca online finiscono anche tanti giovani della generazione Z: «In generale, genitori, educatori e le persone che hanno un ruolo nei media, non sono riusciti a parlare in modo adeguato e significativo della radicalizzazione online – dice Solnit. – Nel 2016 (dopo la prima vittoria di Trump ndr) un’esperta di sicurezza informatica mi spiegò che nello stesso modo in cui l’Isis stava reclutando online (che era una grande notizia all’epoca), la destra stava reclutando giovani uomini online tramite podcaster, influencer e videogiochi. Internet può essere tossico per chiunque». Valeva nel 2016, vale anche oggi, soprattutto oggi, nell’era del Trump II.

A questo proposito, vale la pena leggere gli articoli di Riccardo Luna sull’evoluzione (o forse sarebbe meglio dire involuzione?) di Facebook da chat per ritrovare vecchi amici a potente arma di diffusione di fake news e catalizzatore di rabbia e odio capace di orientare il voto.

Ma da cosa si sentono minacciati questi maschi trumpiani? «Il punto è che interpretano male il femminismo – risponde Solnit, – lo vedono come un gioco a somma zero, ovvero, pensano che se c’è di più per le donne, sicuramente significa che c’è di meno per me. Ci manca un movimento maschile che esamini tutti i modi in cui il patriarcato è, in realtà, distruttivo e miserabile per gli uomini. Porta alla solitudine, all’infelicità, alla morte violenta, alla mancanza di relazioni strette, ai problemi di salute, ma pensiamo solo alla miseria di chi è costretto sempre a dimostrare di essere un uomo vero!».

Solnit qui la dà per scontata, ma forse vale la pena ricordare la definizione di femminismo a cui fa riferimento. E lo facciamo prendendo a prestito le parole di un’altra pensatrice americana, Bell Hooks: femminismo «è quella teoria in grado di liberare la società dalla violenza delle sue gerarchie, di condurci verso una cultura di reciprocità e giustizia», In una parola, cerca la parità, non la supremazia di un genere sull’altro.

 

Nonostante ammetta che il suo Paese è in una crisi profonda Solnit non perde però la speranza. Ma ci tiene a sottolineare che avere speranza non significa essere ottimisti: «La speranza, per me, è radicalmente diversa dall’ottimismo. L’ottimismo è la sensazione che tutto andrà bene. La speranza è la sensazione che ci sono delle buone possibilità e, che, se le cogliamo, se facciamo del nostro meglio, potremmo essere in grado di realizzarle». E, paradossalmente, quasi “ringrazia” Trump e la manosfera: «Il femminismo (e gli altri movimenti per i diritti) hanno cambiato il mondo, hanno fatto molto, hanno ottenuto successi che a loro non piacciono. I nostri nemici ci prendono sul serio anche quando noi non ci prendiamo sul serio…».

 

La Cinebussola

Una commedia-thriller al femminile (scritta da Céline Sciamma)

editorialista

Paolo Baldini

I film sulle donne hanno un calore emotivo particolare. Figuriamoci poi se sono ambientati in una bollente Marsiglia di piena estate, con il termometro sopra i 40 gradi e gli inquilini di un condominio popolare en plein soleil prigionieri di un’afa soffocante. La cinepresa scende dall’alto verso i balconi di tre ragazze, amiche e sodali. Un volo ellittico che porta lo spettatore nelle case delle balconettes: l’attrice Elise (Noémie Merlant), in piena crisi sentimentale, l’aspirante scrittrice Nicole (Sandra Coreanu), chiusa nelle sue nevrosi, la disinvolta cam-girl Ruby (Souheila Yacoub).

Nicole mangia troppi dolci per combattere l’ansia. Ruby è una sex worker in apparenza felice, che però soffre le attenzioni feticiste dei clienti. Nicole non ha occhi che per l’affascinante dirimpettaio (Lucas Bravo), un fotografo pseudo-artista che esibisce i muscoli dopo la doccia e fa gli occhi dolci alla spiona.

Nell’appartamento accanto, la matura Denise (Nadège Beausson-Diagne) ha ucciso il marito dopo anni di abusi, e quando lo racconta a Nicole le scappa da ridere. Da Parigi sta tornando Elise, ancora con indosso la parrucca da finta Marilyn con cui ha girato un pessimo telefilm e con il morale a pezzi: ha perso l’amore del compagno, che pure la rincorre, e non sa come orientare la sua vita. Quando il vicino di casa invita le balconettes a bere qualcosa nel suo appartamento, scatta un’infantile eccitazione.

Le tre donne si trovano di fronte a un maschio alfa, narcisista e misogino. Pensano di poterlo fronteggiare. Invece fanno male i conti, anche perché il giovanotto ha un segreto impensabile. Il film a questo punto vira bruscamente, e un po’ si scombicchera: da commedia di caratteri, frizzante affresco di costume sul sentire comune delle donne, diventa un thriller surreale, con divagazioni pulp e persino horror. C’è un cadavere da nascondere e ci sono i sospetti dei vicini da tenere a bada.

Intanto arrivano i fantasmi insieme ai sensi di colpa. Solo una ritrovata sorellanza salverà le ragazze dal grosso guaio in cui si sono cacciate. Il cielo è azzurrissimo, il condominio è una tavolozza di colori accesi, le balconettes si muovono su un panorama survoltato, dove tutto è eccessivo: le parole, le reazioni, le aspirazioni e le delusioni. In discussione, ancora una volta, il ruolo della donna in una società patriarcale che finge benevolenza ma in realtà aspetta soltanto che passi la tempesta delle rivendicazioni per tornare al vecchio tran-tran.

 

La riflessione di Noémie Merlant (Ritratto della giovane in fiamme, Lee Miller) è più profonda di quanto non appaia in partenza. Noémie ha il merito di non frenare l’impeto femminista sicché l’ingranaggio si muove al massimo dei giri. Non ci sono reticenze o concessioni morali nel mostrare le donne e i loro corpi in piena luce.

 

Le tre badgirl fanno il diavolo a quattro per sedare le coscienze in tumulto, ma senza rimpianti. Certo, l’accostamento tra generi diversi, dalla commedia al giallo, è brusco e il film talvolta ne soffre, guadagnando tuttavia in spessore simbolico. Esce una sorta di trattato sulla violenza di genere: e la firma di Céline Sciamma sulla sceneggiatura è una conferma delle migliori intenzioni dell’opera. L’allegria della rappresentazione di quel microcosmo femminile affacciato al balcone cede il passo a un noir almodovariano, dove le donne sognano indipendenza e chiedono rispetto, si sentono sorelle e fanno squadra, ma sono ancora prigioniere del maschilismo. Donne al balcone procede con il ritmo di una partitura musicale, come un racconto senza punteggiatura. Un temporale purificatore chiude l’odissea di Elise, Nicole e Ruby. Ma forse non per sempre.

LE DONNE AL BALCONE – THE BALCONETTES di Noémie Merlant
(Francia, 2024, durata 103’, Officine UBU)

con Noémie Merlant, Souheila Yacoub, Sandra Codreanu, Lucas Bravo, Nadège Bausson-Diagne, Christophe Montenez
Giudizio: 3 su 5
Nelle sale

testata

mercoledì 26 marzo 2025

Benvenuti nel «Signalgate»

Il giornalista incluso per errore nelle chat: «Hegseth sta mentendo, discutevano i piani di guerra»Da sinistra: Trump, Vance, Hegseth e Waltz nello Studio Ovale (Afp)

editorialista

di   federico thoman

Prima l’errore: il direttore dell’Atlantic Goldberg viene aggiunto per sbaglio in una chat sull’app Signal in cui a scriversi, con tanto di dettagli militari e opinioni molto trancianti sull’Europa («parassiti») sono membri di spicco dell’amministrazione Usa. Poi, quando il caso monta fino a esplodere, il segretario alla Difesa Hegseth prova a replicare in evidente stato di disagio accusando il giornalista di mentire. Infine arriva l’opinione più importante di tutte, quella del presidente Trump: perdona serenamente i suoi e ribadisce che anche per lui noi europei siamo degli scrocconi. In ormai 48 ore il «Signalgate» ha già dato materiale a sufficienza per saggi storiografici, analisi politologiche ma anche film o serie tv.

 

 

Russia e Ucraina, con la complicata mediazione in tavoli separati degli americani, provano intanto a cercare una via per un cessate il fuoco. Ieri sembrava essere stata trovata una piccola intesa per una tregua almeno sul Mar Nero, ma i russi la notte hanno bombardato il porto di Mykolaiv quindi, li accusa il presidente ucraino Zelensky, «non vogliono la pace». E il sospetto sale, vedendo anche i messaggi del Cremlino e le reazioni delle persone per le strade di Mosca raccontate dal nostro inviato.
Buona lettura

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1. Donald difende tutti: Hegseth, Waltz e Vance

editorialista

viviana mazza

corrispondente da New York

 

La Casa Bianca ha cercato ieri di gettare acqua sul fuoco del «Signalgate»(come lo chiamano ora alcuni media americani), dopo la clamorosa rivelazione del direttore della rivista The AtlanticJeffrey Goldberg, di essere stato incluso per sbaglio in una chat su Signal dove ha assistito alla discussione dei piani di attacco contro gli Houthi in Yemen, qualche giorno prima dei bombardamenti del 15 marzo.

 

US President Donald Trump meets with US Ambassadors in the Cabinet Room of the White House in Washington, DC, on March 25, 2025. (Photo by Mandel NGAN / AFP)

Il presidente americano Donald Trump (Afp)

 

Trump ha detto ieri in un’intervista con Nbc di avere fiducia in Mike Waltz, il consigliere per la Sicurezza nazionale che avrebbe aggiunto per sbaglio il giornalista alla chat: «Ha imparato la lezione, è un brav’uomo. È l’unico problema tecnico in due mesi e non è grave». La colpa viene attribuita a un membro dello staff di Waltz. Dietro le quinte, secondo Politico, ci sono state discussioni sull’opportunità o meno che Waltz si dimetta.

 

Ma alla fine la strategia adottata dalla Casa Bianca è stata di negare che siano state condivise informazioni classificate, ribadire che l’operazione contro gli Houthi non è stata compromessa e che si potrà rivalutare l’uso di Signal e tentare di screditare il giornalista. Non c’è dubbio che questo sia un momento di grande imbarazzo per la Casa Bianca: per Waltz e Hegseth soprattutto, ma anche per Vance scoperto a contraddire Trump e per le parole sull’Europa «patetica» e «scroccona». Parole condivise da Trump, che ieri ha difeso Vance: «Volete che risponda? Credo che siano dei parassiti». Contemporaneamente, il vicepresidente annunciava un viaggio in Groenlandia con la moglie Usha, missione che già prima della sua aggiunta era diventata un caso.

 

2. Goldberg, il giornalista incluso nella chat: «Pensavo fosse uno scherzo, poi con le emoji ho capito»

 

(dalla nostra corrispondente a New York Viviana Mazza) «Il 15 marzo gli Stati Uniti bombardarono gli Houthi in Yemen intorno alle 13.45. Io lo sapevo dalle 11.44 del mattino», spiega Jeffrey Goldberg, il direttore dell’Atlantic. Il caso della sua inclusione in una chat con i leader dell’intelligence, i ministri e il vicepresidente Usa dove venivano preannunciati «piani di guerra» è diventato uno scandalo. Così il direttore della rivista ha deciso di rispondere a una serie di domande ieri sul sito.

 

FILE - Jeffrey Goldberg, the editor in chief of The Atlantic, smiles while participating in a Q&A session with House Speaker Nancy Pelosi of Calif., in Washington, Sept. 24, 2019. (AP Photo/Alex Brandon, File)

Jeffrey Goldberg, direttore dell’Atlantic (Ap)

 

 

Goldberg dice alla Cnn che il capo del Pentagono Pete Hegseth «mente» quando nega che i messaggi nella chat contenessero «piani di guerra» («Dicevano quando, chi e come sarebbe stato colpito») e afferma di non aver pubblicato per intero il testo perché considera parte delle informazioni «troppo confidenziali e tecniche e temo che possano mettere a rischio il personale militare statunitense». Adesso però sta prendendo in considerazione se rivelare tutto. «I miei colleghi, io e le persone che ci stanno consigliando dobbiamo parlarne. Il fatto che loro siano stati irresponsabili con quel materiale non significa che lo sarò anch’io» (leggi sul sito del Corriere l’articolo completo).

 

3. L’aiuto di Musk tra realtà e propaganda

editorialista

guido olimpio

 

Donald Trump e i suoi collaboratori, appena possono, trovano giustificazioni per la presenza di Elon Musk in un’infinità di campi. L’ultimo esempio lo abbiamo dal commento del consigliere per la Sicurezza nazionale, Mike Waltz, sulla fuga di notizie a proposito delle operazioni nello Yemen. Dopo aver ammesso «imbarazzo» ed essersi assunto la responsabilità, il funzionario ha offerto la soluzione: «Con lui (Musk, ndr) abbiamo la migliore tecnologia a disposizione per capire cosa è successo». Come se nel gigantesco parco di agenzie dello spionaggio statunitense non ci siano esperti…

 

Elon Musk looks on as US President Donald Trump hosts a cabinet meeting in the Cabinet Room of the White House on March 24, 2025, in Washington, DC. (Photo by Brendan SMIALOWSKI / AFP)

Elon Musk all’ultima riunione di gabinetto alla Casa Bianca due giorni fa (Afp)

 

 

Il team presidenziale è consapevole che una parte dell’elettorato non ha molta simpatia per il miliardario della Tesla. Ed allora ogni occasione è buona per difenderne il ruolo.
Effetti collaterali. Il premier canadese Mark Carney, intervenendo sul clamoroso errore sulla sicurezza, ha invitato gli altri partner occidentali a fare da soli per quanto riguarda l’intelligence e ad essere meno dipendenti dagli Usa. In sostanza ha ribadito la crescente sfiducia verso gli apparati di Washington. Il primo ministro si è rivolto in particolare ai membri dei Five Eyes, il gruppo composto da Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.

 

4. Anche Vance andrà con la moglie Usha in Groenlandia (ma solo in una base)

 

(Redazione Esteri) Niente gara di cani da slitta per JD Vance e la moglie Usha. Il vicepresidente degli Stati Uniti e la consorte hanno cambiato il programma della loro visita in Groenlandia, in agenda venerdì 28 marzo, presumibilmente con l’intento di non esacerbare le tensioni sorte con le autorità danesi nelle ultime settimane. Inizialmente, solo la second lady avrebbe dovuto prendere parte al viaggio sull’isola, che prevedeva tra gli appuntamenti anche la presenza della delegazione statunitense a una popolare gara di slitte trainate da cani. Ieri il governo danese aveva espresso le proprie rimostranze e parlato, in un comunicato, di «pressioni inaccettabili» da parte di Washington sulla Groenlandia e su Copenhagen.

 

JD e Usha Vance in Groenlandia: «Ma visiteranno solo una base militare statunitense»

Il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance e, alle sue spalle, la moglie Usha (Afp)

 

 

In tutta risposta, poche ore dopo, la Casa Bianca ha annunciato che alla delegazione si sarebbe aggiunto anche JD Vance. Poi, un piccolo passo indietro: il viaggio si farà, ma i due Vance e gli altri inviati americani si limiteranno a visitare la U.S. Space Base di Pituffik, nella Groenlandia nordoccidentale (leggi qui l’articolo completo).

 

5. Un accordo sull’acqua: i punti di un’intesa ancora tutta da trovare tra Russia e Ucraina

editorialista

lorenzo cremonesi

da Kiev

Come possono dialogare ucraini e russi? Dopo 10 anni di guerra e almeno tre seri tentativi di negoziato con mediatori internazionali per giungere a un accordo, russi e ucraini non hanno alcuna fiducia gli uni degli altri. Oggi Trump riesce a portarli al tavolo delle trattative perché nessuno dei contendenti vuole apparire come il vero responsabile del fallimento della mediazione americana. Ma alla base non c’è un’autentica volontà di pace e i fondamentali della guerra restano più vivi che mai.

Mourners kneel down as Ukrainian soldiers carry the coffin of Ukrainian serviceman and Hospitallers Oleksandr Oliinyk, callsign "Bohush" during the funeral ceremony in Kyiv on March 25, 2025, amid the Russian invasion of Ukraine. (Photo by Tetiana DZHAFAROVA / AFP)

Commozione ieri a Kiev per i funerali del militare Oleksandr Oliinyk, nome di battaglia «Bohush» (Afp)

 

Quali sono gli obiettivi dei due contendenti? Putin è convinto che l’Ucraina sia parte integrante del mondo russo e concepisce questa guerra come il completamento della sua missione storica. Il presidente russo farà di tutto per minare la sovranità di Kiev, per esempio insistendo per limitare le sue capacità militari ed evitare che possa essere garantita dalla Nato o comunque da un «ombrello» di forze militari occidentali. Zelensky ne è ben consapevole e dunque fa esattamente l’opposto: lavora per rafforzare la sovranità e l’indipendenza del suo Paese dal mondo russo. L’effetto boomerang dell’invasione voluta da Putin tre anni fa è stato quello di velocizzare l’«ucrainizzazione» di regioni che altrimenti avrebbero continuato a ruotare nell’universo russofono (leggi qui l’analisi completa)

6. Rotte, commercio e flotte: il valore strategico del Mar Nero dall’inizio del conflitto

 

(da Kiev Lorenzo Cremonesi) Dall’aspirazione russa al monopolio sul traffico marittimo del Mar Nero, con l’intenzione di occupare tutti i porti e le coste dell’Ucraina meridionale, all’affondamento di almeno il 20 per cento della propria flotta militare e la prospettiva per Mosca di perdere una delle grandi vie commerciali dell’economia nazionale. Non è strano che oggi Vladimir Putin ai negoziati in Arabia Saudita abbia accettato il cessate il fuoco sulle acque del Mar Nero.

 

La flotta russa umiliata nel Mar Nero, Kiev ha forzato il blocco militare: di qui passa l’80% del suo export

Il Mar Nero  a Odessa sulla costa ucraina con filo spinato e l’avvertimento di mine sotto la sabbia (Getty)

 

 

Il monitoraggio potrebbe fornirlo la Turchia, che tre anni or sono fu centrale per mediare l’«accordo sul grano». Ma oggi Recep Tayyip Erdogan è assorbito dalla crisi interna e difficilmente potrebbe avere un ruolo. E così, dati alla mano, per la Russia quella che inizialmente nel febbraio 2022 sembrava una delle campagne più semplici della guerra contro l’Ucraina si è rivelata un grande fallimento, probabilmente la sconfitta più grave, che brucia anche tre anni dopo, mentre nel Donbass le truppe russe ottengono comunque parziali successi (leggi qui l’analisi completa).

 

7. Il gioco del Cremlino e il sarcasmo per strada: «Putin non chiuderà la guerra con un brindisi»

editorialista

marco imarisio

inviato a Mosca

 

Nel mezzo della vecchia Arbat c’è la prova di quanto sarà difficile chiamarla pace. Se e quando arriverà il momento di farlo. La prima foto della mostra ritrae un monumento ai caduti dell’Armata russa durante la Seconda Guerra mondiale imbrattato con vernice rosso sangue, mentre ai suoi piedi è stata posata una targa bianca che inneggia alle «gloriose truppe dell’esercito di liberazione ucraino», composto da seguaci del collaborazionista Stepan Bandera e organico alla Wehrmacht.

 

La mostra nel cuore di Mosca che definisce «l’Europa ingrata» (foto di M. Imarisio)

 

 

La scritta che dà il titolo all’installazione inaugurata all’inizio dell’anno è l’Europa ringrazia, sormontata da un grande «Niet» rosso, che trasforma il significato in «L’Europa ingrata». Ognuno dei ventiquattro pannelli fotografici posti al centro della strada più amata dai moscoviti ha una doppia faccia. Da un lato, scene di vandalismo o devastazione di monumenti all’esercito sovietico, scattate soprattutto nei Paesi Baltici e in Ucraina, la maggioranza dei quali coperti da ampie macchie di vernice gialla e azzurra, «come la bandiera che ancora oggi sventola a Kiev» sottolinea una didascalia. Dall’altro, vecchie foto in bianco e nero che mostrano l’accoglienza trionfale delle truppe sovietiche a Praga, Sofia, Belgrado, in Polonia, soldati abbracciati e baciati dalla popolazione riconoscente, militari russi che distribuiscono il cibo agli abitanti delle città liberate. Se non fosse chiaro quale sia il concetto, in epigrafe a ogni foto c’è una celebre frase del maresciallo Zhukov, l’eroe nazionale divenuto così popolare da essere poi sgradito a Stalin, pronunciata subito dopo la presa di Berlino nel 1945, ultima tappa della vittoria sul Fronte Orientale. «Li abbiamo liberati, e loro non ce lo perdoneranno mai» (leggi qui il racconto completo).

 

8. Il report dell’intelligence Usa sulla minaccia militare cinese

editorialista

paolo salom

Staccare la Russia dalla Cina. Le grandi manovre (diplomatiche) dell’amministrazione Trump, posto che abbiano successo, serviranno a isolare il primo e più temibile avversario degli Usa. Questo perché, sostiene un rapporto dell’Intelligence americana, la Cina rappresenta la maggiore minaccia per gli interessi degli Stati Uniti a livello globale. Meglio affrontarla singolarmente.
Pechino, come è noto, sta rafforzando anno dopo anno le sue capacità militari. Il documento, intitolato «Valutazione annuale delle minacce», sottolinea dunque la «pressione» della Cina su Taiwan, che rivendica come suo territorio, e le «operazioni informatiche su larga scala contro obiettivi statunitensi». Il rapporto non classificato fornisce una panoramica delle «prospettive collettive» delle principali agenzie di intelligence statunitensi sui pericoli rappresentati da Paesi stranieri e organizzazioni criminali.

BEIJING, CHINA - MARCH 11: Chinese President Xi Jinping votes during the closing of the Third Session of the 14th National People's Congress (NPC) at the Great Hall of the People on March 11, 2025 in Beijing, China. China's annual political gathering known as the Two Sessions convenes leaders and lawmakers annually to set the government's agenda for domestic economic and social development for the year. (Photo by Lintao Zhang/Getty Images)

Il presidente cinese Xi Jinping (Ap)

 

 

«La Cina rappresenta la minaccia militare più completa e potente per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti», si legge nel documento pubblicato dall’ufficio del direttore dell’intelligence nazionale degli Stati Uniti, Tulsi Gabbard. Pechino è «l’attore che più probabilmente minaccerà gli interessi degli Stati Uniti a livello globale».

Anche se, avverte il rapporto, la Cina è più «cauta» e fa attenzione a non apparire «troppo aggressiva» rispetto ad altri paesi esaminati nel rapporto, come Russia, Iran e Corea del Nord. Oggi il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha ribadito: Pechino è pronta a confrontarsi con Washington, ma solo sulla base «dei principi di uguaglianza e di rispetto reciproco».

 

9. L’Ue consiglia una «borsa della resilienza» in caso di guerra
editorialista
francesca basso
corrispondente da Bruxelles

 

Il punto di partenza è la relazione dell’ottobre scorso dell’ex presidente finlandese Sauli Niinistö su come «Rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare dell’Europa». Oggi la Commissione europea presenta la strategia di preparazione e gestione delle crisi, concentrandosi sulle misure civili: la «Eu Preparedness Union Strategy» prevede trenta azioni chiave per affrontare le emergenze, che vanno dal rischio di un conflitto (i timori dei Paesi confinano con la Russia sono molto elevati) alle catastrofi ambientali, dagli attacchi informatici alle pandemie.

 

Cibo e medicine per tre giorni: il piano dell'Europa in caso di guerra

La commissaria Ue per la Gestione delle crisi Hadja Lahbib (Afp)

 

 

La commissaria Ue per la Gestione delle crisi Hadja Lahbib ha spiegato in un’intervista all’Afp che «sosterremo gli Stati membri nel mettere insieme quella che chiamiamo una borsa della resilienza, in modo che tutti i cittadini siano pronti a resistere, a essere strategicamente autonomi per almeno 72 ore». Un kit di sopravvivenza che dovrà contenere una decina di prodotti ritenuti essenziali, tra cui acqua, medicinali, una torcia, documenti d’identità, fiammiferi, cibo. Un’altra proposta è quella di creare una «giornata nazionale di preparazione» per sensibilizzare sulla necessità di essere pronti a qualsiasi catastrofe nell’Ue. È prevista anche una strategia specifica per le scuole (leggi qui l’articolo completo).

 

10. A Gaza proteste anti Hamas mentre Israele prepara una nuova invasione
editorialista
marta serafini
inviata a Gerusalemme

 

Non succedeva dal 2024. Ieri centinaia di palestinesi hanno protestato contro il governo di Hamas e contro la guerra. I video diffusi in rete mostrano circa 100 residenti di Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, con alcuni dimostranti che portavano cartelli con la scritta «Stop alla guerra» e «I bambini in Palestina vogliono vivere«. Tra i cori: «Fuori Hamas», «Terroristi di Hamas», «La gente vuole rovesciare Hamas» e «Sì alla pace, no alla guerra in corso». In uno dei raduni di fronte all’ospedale indonesiano, alcuni dei dimostranti hanno issato bandiere bianche. «Ho preso parte per inviare un messaggio a nome del popolo: basta con la guerra», ha spiegato un manifestante citato dal Times of Israel, aggiungendo di aver visto «membri delle forze di sicurezza di Hamas in abiti civili disperdere la protesta». Un altro manifestante che non ha voluto fornire il suo nome completo, ha detto che «la gente è stanca». «Se la soluzione è che Hamas lasci il potere a Gaza, perché non rinuncia al potere per proteggere la popolazione?», si è chiesto. Ore dopo la prima protesta, nel campo profughi di Jabalia, nel nord di Gaza, si è tenuta un’altra manifestazione, con decine di dimostranti che hanno bruciato pneumatici al grido di «Vogliamo mangiare».

 

EDITORS NOTE: Graphic content / TOPSHOT - A woman mourns over the body of her relative, who was killed in an Israeli bombardment, at Al-Ahli Arab Hospital in Gaza City on March 26, 2025. Israel, vowing to destroy Palestinian militant group Hamas, on March 18 resumed intense bombardment of Gaza and redeployed ground troops, shattering a truce that had largely held since January 19. (Photo by Omar AL-QATTAA / AFP)Il dolore di una donna gazawi sul corpo di una persona cara morta sotto le bombe dell’Idf (Afp)

 

Le proteste sono eventi relativamente rari a Gaza, soprattutto contro Hamas, che mantiene una presa ferrea sulla Striscia da quando ha cacciato l’Autorità Nazionale Palestinese dal territorio quasi due decenni fa. La situazione nella Striscia resta tragica, con oltre 50 mila vittime a causa dei raid israeliani denunciate dalle autorità sanitarie locali controllate da Hamas, mentre le agenzie umanitarie sono sotto pressione a causa degli attacchi continui che non risparmiano nemmeno le loro sedi, come nel caso di Icrc e di Un nei giorni scorsi. Secondo indiscrezioni della stampa internazionale – Financial Times in testa ma anche Washington PostWall Street Journal e Cnn nei giorni scorsi – l’Idf ha pronti piani per un’operazione militare su vasta scala che porterebbe di fatto all’occupazione militare della Striscia, compresa la gestione degli aiuti umanitari e che spingerebbe i civili rimasti a vivere in una «bolle» al confine meridionale.

 

 

Le manifestazioni sono continuate anche a Gerusalemme dove ieri migliaia di dimostranti si sono radunati fuori dall’ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu«La pressione militare uccide gli ostaggi, la pressione militare aumenta le vittime», hanno gridato altri attivisti mentre alcuni familiari degli ostaggi hanno tenuto discorsi, tra cui la sorella di Yarden Bibas, la cui moglie e i cui due figli piccoli sono stati assassinati durante la prigionia. Fuori dal palazzo della Knesset, mentre il governo sostenuto dall’estrema destra votava la legge finanziaria, diverse centinaia di manifestanti antigovernativi, già scesi in piazza nei giorni scorsi dopo il licenziamento del capo dello Shin Bet Ronen Bar autore di indagini anti-corruzione ai danni del premier, hanno marciato, accusando il governo di tradire i valori democratici. Intervenendo dal palco principale, Nili Margalit liberata durante l’ultimo cessate il fuoco, ha implorato il governo di raggiungere un accordo per liberare gli ostaggi rimasti in prigionia. Ma, per il momento, nessun segnale lascia pensare che ci siano spiragli in questo senso. Né tantomeno che finiscano i raid sulla Striscia.

 

11. Bombardieri pronti contro gli Houthi (e un messaggio all’Iran)

 

(Guido OlimpioOceano Indiano, base di Diego Garcia: arrivati diversi bombardieri strategici americani B-1 e B-2, intensa l’attività dei rifornitori. Tutto in chiaro, come spesso accade, ben visibile in rete. La presenza dei velivoli viene interpretata in diversi modi. 1) È possibile che partecipino ai raid contro gli Houthi nello Yemen. Hanno armi in grado di colpire tunnel e gallerie dove la milizia ha nascosto il proprio arsenale. 2) Il trasferimento si aggiunge alla mobilitazione di una seconda portaerei che sarà in zona entro pochi giorni. 3) Non viene escluso un collegamento con la campagna di pressione nei confronti dell’Iran. I velivoli dovrebbero restare almeno fino al primo maggio e, notano gli esperti, il 5 maggio scade il termine fissato da Donald Trump: entro questa data Teheran deve rispondere all’offerta di aprire negoziati sul nucleare.

 

Un bombardiere B-2

 

 

Ovviamente non significa che la Casa Bianca abbia fretta di lanciare un blitz ma forse usa la «politica delle cannoniere» affidando il messaggio ai bombardieri. 4) Si conferma il ruolo importante dell’atollo. Piccolo, però sufficiente come punto d’appoggio per missioni in profondità. Gli ayatollah, per ora, hanno ipotizzato una trattativa indiretta, una posizione diversa rispetto al no totale. E sono forti le voci sulla mediazione da parte degli Emirati Arabi Uniti.

 

12. La scrittrice Temelkuran: «La Turchia all’ultimo stadio del percorso verso la dittatura»

editorialista

monica ricci sargentini

inviata a Istanbul

«Gli europei guardino la Turchia molto attentamente perché si trova alla fine del percorso che descrivo nel mio libro Come sfasciare un Paese in sette mosse, la via che porta dal populismo alla dittatura, ora Erdogan sta cercando di riprogettare la Repubblica secondo i suoi gusti e vuole sbarazzarsi di tutte le persone che non si adattano al suo regime. E la gente sta facendo qualcosa di incredibile, sta cercando di percorrere la strada a ritroso e invertire il processo». Ece Temelkuran, 51 anni, giornalista e scrittrice turca parla con il Corriere da Berlino dove vive. Si sente che ha una nostalgia profonda del suo Paese che ha lasciato nel 2016: «Si faccia una passeggiata sul Bosforo pensando a me» dice.

 

ISTANBUL, TURKEY - MARCH 25: A protester dressed as a clown stands in front of the riot police during a protest in support of arrested Istanbul Mayor Ekrem Imamoglu on March 25, 2025 in Istanbul, Turkey. The Mayor of Istanbul Ekrem Imamoglu, a member of opposition Republican People's Party (CHP) and the main challenger in the next presidential election, was jailed on corruption charges, sparking the country's largest wave of demonstrations since the 2013 Gezi Park protests. (Photo by Mehmet Kacmaz/Getty Images)Una manifestante vestita da clown ieri a Istanbul davanti alla polizia in assetto antisommossa (Getty)

A cosa dobbiamo stare attenti noi europei?
«Lo stesso percorso lo state facendo voi, solo che siete al terzo o quarto stadio, potete fare tesoro dell’esperienza che i turchi stanno vivendo».
Che sensazione ha provato a guardare le piazze di questi giorni in Turchia?
«Mi sembra che ci sia una grossa differenza con la rivolta di Gezi Park nel 2013, oggi chi scende in piazza sa a cosa va incontro ma vuole correre il rischio».
Otterranno dei risultati?
«Quello che stanno cercando di fare è qualcosa di quasi impossibile. Vogliono contenere e incanalare il movimento di strada in un obiettivo politico, cosa che non è mai riuscita prima nel mondo a un partito di opposizione convenzionale, non negli ultimi 20 anni di rivolte. Né ai movimenti Occupy o simili» (leggi qui l’intervista completa).

13. La Corea del Sud in fiamme, forse per le pulizie di un tempio

 

(Paolo Salom) La Corea del Sud affronta sgomenta un’emergenza senza precedenti nel Paese. Incendi boschivi alimentati dal vento forte e dal clima secco stanno devastando vaste aeree lungo la costa sudorientale. I roghi, che hanno finora provocato almeno 24 vittime, compreso il pilota di un elicottero dei pompieri precipitato durante le operazioni di spegnimento, sarebbero stati causati da un errore umano: la pulizia con il fuoco delle tombe di un tempio buddista di 1.300 anni – poi andato distrutto – o lavori di saldatura.

 

TOPSHOT - A wildfire is seen next to a stone lantern of family tomb in Andong on March 26, 2025. At least 18 people have been killed in one of South Korea's worst wildfire outbreaks, with multiple blazes burning and causing "unprecedented damage", the acting president said. (Photo by YASUYOSHI CHIBA / AFP)

Il fuoco ad Andong, in Corea del Sud (Afp)

 

 

È l’ultima ipotesi degli investigatori rilanciata dai media di Seul su una delle peggiori catastrofi del Paese che ha distrutto più di 200 strutture e costretto 27.000 persone a evacuare nell’area di Uiseong, provincia orientale di Gyeongsang. In fumo finora sono andati 17.520 ettari di boschi. In un discorso televisivo, il presidente ad interim Han Duck-soo ha affermato che «i danni stanno aumentando» con incendi boschivi «mai sperimentati prima. Dobbiamo concentrare tutte le nostre capacità per spegnere le fiamme nel resto della settimana».