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Ormai, con Donald Trump, non si sa nemmeno da che parte cominciare. Con i dazi? Oppure con la Groenlandia da annettere? Cominciamo con i primi, visto che l’annuncio ufficiale è arrivato quando in Italia era ormai tarda sera. «Procederemo con i dazi del 25% permanenti su tutti i veicoli prodotti fuori dagli Usa», ha dichiarato il presidente americano dallo Studio Ovale. Non è ancora chiaro se, oltre ai veicoli finiti, il nuovo balzello si applicherà anche ai componenti (il che sarebbe un problema soprattutto per le filiere con Canada e Messico).
Secondo la Casa Bianca i dazi servono a raccogliere entrate per compensare i tagli fiscali promessi e rilanciare la manifattura nazionale. «Ma per l’industria automobilistica – compresa quella Usa – l’impatto rischia di essere pesante – scrive Giuliana Ferraino -. Anche le case statunitensi dipendono dalle catene di fornitura globali. Il risultato potrebbe essere un aumento dei prezzi al consumo, un rallentamento delle vendite e un danno per gli stessi produttori americani. Con un inevitabile impatto su investimenti e crescita. Cox Automotive stima che, senza esenzioni, un’auto prodotta negli Usa costerebbe 3 mila dollari in più, e un’auto prodotta in Canada o Messico fino a 6 mila dollari in più».
I dazi scatteranno il 2 aprile, «il giorno della liberazione» come l’ha ribattezzato Trump. Ursula von der Leyen, però, non si arrende. Pur dichiarandosi «profondamente rammaricata», la presidente della Commissione europea, afferma che «l’Ue continuerà a cercare soluzioni negoziate, salvaguardando al contempo i suoi interessi economici», ribadendo che «le tariffe sono tasse: cattive per le imprese, peggio per i consumatori ugualmente negli Stati Uniti e nell’Unione europea». Peraltro, l’auto potrebbe essere solo un assaggio. Il commissario Ue per il commercio, Maroš Šefcovic, che è appena stato in missione a Washington, ha avvertito che la Casa Bianca potrebbe imporre dazi del 20% sulle importazioni da tutti i 27 Stati membri dell’Ue dalla prossima settimana. Una misura che, parole sue, «sarebbe devastante» per l’economia europea.
Alcuni effetti, peraltro, si fanno già sentire, anche in Italia, fa notare Ferraino: «È bastata la sola minaccia di dazi al 200% sul vino a paralizzare il settore, con spedizioni bloccate, ristoranti in difficoltà e milioni di bottiglie ferme nei porti. Ma la premier italiana Giorgia Meloni rassicura: «L’agroalimentare si tutela dai dazi con la diplomazia», ha detto ieri durante una visita al villaggio “Agricoltura È”, prima della partenza per il vertice di Parigi». (Delle reazioni più o meno patriottiche, in Italia e all’estero, ai dazi di Trump ha scritto Gianluca Mercuri nella nostra Rassegna)
Quanto alla Groenlandia, Donald dei Ghiacci insiste: deve diventare proprietà degli Stati Uniti. Il motivo? «Ci serve». Non un granché, come giustificazione, dal punto di vista del diritto internazionale, ma si sa quale considerazione ne abbia l’inquilino della Casa Bianca. Qualche inquietudine c’è, sul modo in cui intenda far diventare quel desiderio realtà, visto che i diretti interessati groenlandesi e danesi non sembrano – chissà perché – della sua stessa idea (all’Europarlamento, un deputato danese aveva già avuto modo di tradurre il suo no in trumpianese stretto: «Mr. Trump, fuck off»). E qualche inquietudine c’è anche sulle liste dei «ci serve» che potrebbero prossimamente arrivare da Pechino (a Taiwan qualche sospetto ce l’hanno), da Mosca (che invero ha già iniziato da un po’ a prendersi quel che pensa gli spetti), o magari dalla Turchia o da Israele.
Peraltro, proprio dalla Groenlandia, Paolo Giordano scrive che una forma di «conquista» americana, non militare ma «ibrida», è già iniziata:
La pressione americana sulla popolazione groenlandese si è accompagnata fin dall’inizio a un aumento di contenuti divisivi sul social network più diffuso, che è ancora Facebook. Per esempio è tornata in auge la viscida campagna di contraccezione che i medici danesi imposero alle donne inuit negli anni Sessanta e Settanta. Come se tutte quelle spirali impiantate con l’inganno fossero un torto da riparare adesso.
La nuova colonizzazione sfrutta quella precedente: le responsabilità storiche della Danimarca vengono usate per dividere le persone (come tecnica non è troppo diversa dalla propaganda con cui la Russia ha preparato in largo anticipo l’invasione dell’Ucraina).
Alcuni media artici denunciano un aumento di contenuti falsi, creati con l’intelligenza artificiale e attribuiti alle loro testate. Se sei costretto a smentire una notizia falsa di solito è già tardi, significa che si è già diffusa, ed è particolarmente drammatico qui, dove le singole comunità sono piccole e interconnesse. La regia di tutta questa discordia, se esiste, è invisibile. Ma una volta che il terreno è pronto, ecco che arriva Usha Vance, «excited», «thrilled», improvvisamente curiosa delle tradizioni locali. Ed ecco che si unisce JD Vance «per non lasciarle tutto il divertimento», anche se dopo le proteste la visita si restringe a un giro delle basi militari per buttare lì altro veleno, il sospetto che negli ultimi anni la Groenlandia non sia stata protetta come meritava. Ma protetta da chi precisamente?
(Qui la scheda di Chiara Barison sul perché la Groenlandia, per risorse e posizione, faccia gola a molti)
Qualcuno dirà, e un po’ c’è da sperarlo, che sono soltanto armi di distrazione di massa, per sviare l’attenzione dal pasticciaccio brutto del Signalgate, i piani d’attacco contro gli houthi condivisi da Vance, Waltz, Hegseth e compagnia in una chat (peraltro in violazione dell’Espionage Act, come ha spiegato Massimo Gaggi) nella quale era stato inserito per errore anche il direttore dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg. Ma, come i dazi fanno danni anche se solo minacciati – citofonare Wall Street – gli sbandamenti, anche soltanto verbali, del Paese che si vorrebbe principale custode dell’ordine liberale fondato sulle regole (per quanto imperfetto sia sempre stato), fanno danni perché portano acqua al mulino dei tanti che quell’ordine tentano da anni di smantellarlo. Per sostituirlo con cosa? Con un altro basato sul «chi è abbastanza forte per farlo, si prenda quel che gli serve, evitiamo soltanto di pestarci i piedi» (tu chiamala, se vuoi, nuova Yalta).
Dunque, per quanto lo riguarda, come Trump ha detto in un’intervista con il podcaster conservatore Vince Coglianese, la Groenlandia «è un’isola che da una posizione difensiva e anche offensiva ci serve, specialmente per com’è il mondo oggi, e dobbiamo averla».
Peraltro, a leggere quel che una ricercatrice britannica, in Groenlandia da sei anni, dice a Paolo Giordano, vien da pensare che, sotto sotto, non l’annessione, ma un’escursione nell’isola di ghiaccio, a The Donald potrebbe persino fare bene: «L’esperienza della Groenlandia ti rende umile», dice. Temiamo però dipenda dall’ego di partenza.
Ma chissà che, a proposito della visita dei coniugi Vance di venerdì, abbreviata per timori di proteste, non abbia ragione Il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen: è vero che il vicepresidente Usa ha annunciato a sorpresa di seguire nel viaggio la moglie Usha, ma sarebbe «una mossa da maestro per far apparire come escalation quella che in realtà è una de-escalation». Non ci dovrebbero infatti essere nella delegazione (come invece inizialmente previsto) il segretario per l’Energia Chris Wright e il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz.
Ci sarebbe, infine, da parlare del Trump «pacificatore». Ma, su quel che si profila in Ucraina, lasciamo la parola all’editoriale di Paolo Mieli:
È ormai evidente che gli Stati Uniti si accingono ad imporre all’Ucraina un iniquo «accordo» con l’aggressore. A dispetto della lodevole insistenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, del presidente della Conferenza episcopale Matteo Zuppi e di molti leader europei sul tema della «pace giusta», Donald Trump e Vladimir Putin lasciano intendere in tutti i modi possibili e all’unisono d’essere alla ricerca di un’intesa che preveda un trattamento punitivo per l’Ucraina. Accompagnata da un’umiliazione, fin dove è possibile, dell’Europa tutta. (…) Sappiamo benissimo che anche le paci del passato contenevano dosi di ingiustizia (che tra l’altro hanno poi provocato ulteriori guerre). Ma la pace predatoria, ostentatamente punitiva nei confronti di chi si sta battendo da oltre tre anni e di chi, come l’Europa su quella resistenza ha investito più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti, non offre alcun affidamento di stabilità.
Quanto all’accordo sulle risorse minerarie ucraine che Washington vorrebbe ottenere da Kiev, Federico Fubini scrive che, da quel poco che se ne sa, contemplerebbe anche «”meccanismi di compensazione dei rischi associati alla legge marziale e all’instabilità economica“. In altri termini, se dopo una tregua la Russia tornasse a bombardare, l’Ucraina dovrebbe indennizzare le imprese americane nel caso in cui queste fossero costrette a interrompere o rallentare lo sfruttamento minerario del Paese. Se qualcuno al Cremlino decidesse di attaccarlo, il contribuente ucraino dovrebbe dunque pagare l’azionista americano: un codicillo da pace cartaginese».
Non stupisce che in Russia, come riporta l’inviato Marco Imarisio, prevalga l’euforia sull’andamento dei negoziati (che pure Mosca continuerà con tutta probabilità a tirare per le lunghe). Né che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, da ieri sera a Parigi – dove oggi i leader di 30 Paesi (compresa Giorgia Meloni per l’Italia, che ribadirà il no a nostre truppe sul terreno, se non sotto l’egida Onu) si riuniscono a Parigi per discutere di nuovo su quale forma possa prendere la «coalizione dei volenterosi» alla quale lavorano da settimane soprattutto Francia e Regno Unito – abbia concordato con Emmanuel Macron sulla necessità di una “diplomazia basata sulla forza” nei confronti di Mosca. Quanta forza l’Europa saprà mettere in campo (e per quanto tempo) resta da vedere. Intanto, però, Macron ha annunciato un nuovo aiuto francese a Kiev di due miliardi di euro in «missili Mistral, carri AMX e munizioni».
Il no alla sfiducia a Nordio
Per il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, la mozione di sfiducia contro di lui per il caso Almasri (il torturatore libico, ricercato dalla Corte penale internazionale, arrestato a Torino a gennaio e subito rilasciato e riaccompagnato in Libia con un volo di Stato) era soltanto il frutto del clima «da Inquisizione» scatenato dalle opposizioni sulla riforma della giustizia, con al cuore la separazione delle carriere fra giudici e pm, voluta dal governo. «Non vacilleremo. La riforma andrà avanti. Più violenti e più sciatti saranno gli attacchi e più noi saremo forti e determinati. Se voi farete del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio» ha detto concludendo ieri il suo intervento in Parlamento. La sfiducia non è passata (215 no e 119 sì). Ma la segretaria del Pd, Elly Schlein, parla di «pagina vergognosa». E Maria Elena Boschi (Iv) accusa il ministro di mentire: «Lei è l’unico a pensare che Almasri sia stato liberato per un cavillo».
Sullo specifico del caso Almasri, Giovanni Bianconi scrive: «Nella richiesta della Procura presso la Cpi di deferire l’Italia al Consiglio di sicurezza dell’Onu per aver liberato il ricercato Almasri, è scritto in maniera esplicita: “Anche supponendo che le questioni critiche esistessero, il che non è vero, l’Italia non si è consultata con la Corte per risolverle“. Non solo: “L’Italia non ha menzionato l’esistenza di alcun problema quando le è stato specificamente richiesto dalla Corte”. Conclusione dei pubblici ministeri dell’Aia: “Se l’Italia avesse consultato la Corte come richiesto dalla legge, le presunte questioni individuate sarebbero state chiarite e risolte il 20 gennaio 2025 (quando il ricercato era ancora detenuto nel carcere di Torino, ndr). Il ministero della Giustizia avrebbe avuto il tempo di trasmettere le richieste al procuratore generale di Roma, e la Corte d’appello avrebbe potuto ordinare nuovamente la detenzione di Najeem Almasri”. Su questo punto-chiave il Guardasigilli non ha detto nulla né nel suo intervento del 5 febbraio scorso alla Camera né ieri; e di fronte alle richieste della Cpi di avere una giustificazione della mancata interlocuzione con la Corte stessa, ha preso tempo invocando il segreto istruttorio per via dell’inchiesta penale in corso davanti al tribunale dei ministri. A conferma che si tratta del tema centrale, per l’Italia davanti ai giudici dell’Aia e per lui davanti a quelli del tribunale dei ministri».
Sulla questione più generale della riforma della giustizia scrive invece Massimo Franco nella sua Nota: «La situazione rimane tesa, con un conflitto istituzionale difficilmente eludibile. E il referendum promette di aggravarlo. Il fatto che al vertice dell’Anm sia approdato Cesare Parodi, esponente di Mi, la componente moderata, non ha cambiato le cose. Significa che la contrarietà del potere giudiziario alla riforma è trasversale e unitaria; e che il governo ha rinunciato al dialogo, perché le posizioni sono troppo distanti: sebbene a parole gli uni e gli altri assicurino di essere pronti a venirsi incontro».
Le proteste a Gaza contro Hamas
Centinaia di palestinesi hanno protestato contro il governo di Hamas e contro la guerra. I video diffusi in rete mostrano circa 100 residenti di Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, e cartelli con la scritta «Stop alla guerra». Tra i cori: «Fuori Hamas», «Terroristi di Hamas», «La gente vuole rovesciare Hamas» e «Sì alla pace, no alla guerra in corso». Slogan che evocano il movimento Bidna N’eesh («Vogliamo vivere»), emerso durante le proteste economiche di Gaza del 2019 e che si ribellano contro il gruppo, al potere a Gaza da quando cacciò l’Autorità nazionale palestinese dal territorio quasi due decenni fa.
«Che sia Fatah a sostenere le manifestazioni difficile dirlo – scrive l’inviata Marta Serafini – dato lo scarso accesso alle fonti sul campo (ai giornalisti internazionali dopo 17 mesi di guerra è ancora impedito l’accesso). In uno dei raduni di fronte all’ospedale Indonesiano, alcuni dimostranti hanno issato bandiere bianche». «Ho preso parte per dire basta con la guerra e perché non abbiamo più cibo», spiega un manifestante al Corriere, aggiungendo di aver visto «le forze di sicurezza di Hamas in abiti civili disperdere la protesta».
Intanto il premier israeliano Benjamin Netanyahu continua a minacciare di annettersi parti di Gaza se Hamas non dovesse rilasciare gli ostaggi e il gruppo minaccia di uccidere gli ostaggi se non dovessero cessare i raid. La situazione nella Striscia resta tragica, con oltre 50 mila vittime denunciate dalle autorità sanitarie locali controllate da Hamas. Secondo indiscrezioni della stampa internazionale, l’esercito israeliano ha pronti piani per un’operazione militare su vasta scala che porterebbe di fatto all’occupazione militare della Striscia, compresa la gestione degli aiuti umanitari.
Le altre notizie
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«Mi sento responsabile, ma non colpevole.
Sentivo il peso allora e lo sento oggi. A crollare è stato un ponte monitorato, sul quale i lavori erano continui, cantieri infiniti, una grande società d’ingegneria aveva scritto che le procedure di controllo erano adeguate. Ma questo non cancella quello che è successo: il ponte è caduto e non doveva cadere». A sette anni dal crollo del ponte Morandi di Genova ha parlato in aula per 5 ore Giovanni Castellucci, ex ad di Autostrade per l’Italia. «Mai risparmiato sulla manutenzione e dai tecnici nessuna segnalazione», ha detto. Rabbia dei parenti delle vittime.
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Cinque giorni dopo la gran baruffa dell’Auditorium, Romano Prodi riconosce di aver «commesso un errore» con la cronista di Mediaset, Lavinia Orefici. Del resto, il video mandato in onda l’altra sera da Giovanni Floris su La7, durante la puntata di DiMartedì, non lascia dubbi: ripreso da un’altra angolazione il Professore, sabato scorso, la ciocca di capelli dell’inviata di Quarta Repubblica — dopo aver ascoltato la domanda sul Manifesto di Ventotene — l’ha afferrata e tirata leggermente, mentre lui a caldo aveva parlato solo di «una mano sulla spalla». Così ieri, in due momenti diversi, l’ex premier dell’Ulivo è voluto tornare sull’argomento: non tanto per chiedere scusa («Non c’è proprio niente da chiarire») quanto per dirsi dispiaciuto e difendere la sua storia.
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Udienza rinviata al 20 maggio e, scrive Luigi Ferrarella, “ buon compleanno al procedimento sulla truffa aggravata allo Stato. Perché il 20 maggio, quando in Tribunale a Milano si tornerà in aula per l’udienza preliminare ieri slittata di altri due mesi per il cambio di uno dei due avvocati della ministra del Turismo Daniela Santanchè, saranno appunto passati già 12 mesi”. Un anno senza che ci si sia spostati dalla richiesta di rinvio a giudizio del 3 maggio 2024 per l’imprenditrice-senatrice di Fratelli d’Italia, indiziata di aver indebitamente percepito 126.468 euro erogati in 20.117 ore di cassa integrazione Covid tra il 2020 e il 2022 a 13 dipendenti delle sue società Visibilia Editore spa e Concessionaria srl. Nel frattempo la prossima settimana la ministra del Turismo, le cui società avevano già ridato all’Inps tutti i 126 mila euro in contestazione, si è impegnata a bonificare all’istituto altri diecimila euro per risarcire i danni da esercizio e circa altri 40 mila per risarcire i danni di immagine all’Inps, che annuncia il ritiro della costituzione di parte civile.
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Dopo la Corte dei conti, anche la procura di Roma ha avviato per i circa 270 mila euro (più Iva) che il Comune di Roma avrebbe speso per l’allestimento della manifestazione pro Europa del 15 marzo scorso. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri aveva presentato un esposto ipotizzando il reato di peculato.
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La fotografia dell’Istat nel suo rapporto sulle «Condizioni di vita e reddito delle famiglie – anni 2023-2024» è impietosa: nel 2024 in Italia 13 milioni 525 mila persone sono state a rischio di povertà o esclusione sociale. Il 23,1% della popolazione è stato in una delle tre condizioni fissate dagli indicatori di Europa 2023: a rischio di povertà; in grave deprivazione materiale e sociale; a bassa intensità di lavoro. Quasi tre milioni (2 milioni e 710 mila) le persone in grave privazione materiale e sociale, che significa, secondo gli indicatori, non potersi permettere un pasto adeguato tutti i giorni, non riuscire a pagare le bollette, l’affitto, il mutuo, non poter riscaldare la propria casa. A rischio povertà sono oltre 11 milioni di individui, il 18,9% dei residenti in Italia: hanno un reddito equivalente netto sotto i 12.363 euro. (Ne ha scritto anche Elena Tebano nella nostra Rassegna). Il magazzino dei crediti fiscali in riscossione, intanto, è arrivato a 1.272 miliardi di euro, solo 568 dei quali teoricamente ancora riscuotibili, secondo la Commissione incaricata dal Mef di valutare il fenomeno. Secondo l’Ufficio di Bilancio, però, i crediti realmente esigibili ammonterebbero ad appena 100 miliardi.
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La proroga del termine di fine marzo per l’assicurazione obbligatoria delle imprese contro le calamità naturali ci sarà. Possibile l’estensione del bonus elettrodomestici, ma nessuna speranza di rinvio per il nuovo regime fiscale per le auto aziendali concesse in uso promiscuo ai dipendenti.
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MediaForEurope rompe gli indugi e lancia una scalata «al minimo» su Prosiebensat. Dopo mesi di indiscrezioni, il gruppo ex-Mediaset ha annunciato l’intenzione di promuovere un’offerta pubblica di acquisto sul gruppo media tedesco. L’obiettivo di Mfe è aumentare la sua partecipazione oltre l’attuale 29,9% in modo da poter influire maggiormente sui piani di Prosiebensat. «Serve un cambio di passo prima che sia troppo tardi», ha detto Pier Silvio Berlusconi, ad di Mfe, che da tempo esorta il broadcaster bavarese a concentrarsi sulle attività televisive, vendendo le altre controllate.
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Dopo trent’anni di incarico, da ieri Emanuela Maccarani non è più allenatrice della Nazionale, direttrice delle farfalle azzurre e dell’Accademia della Ritmica di Desio. La decisione presa dal nuovo consiglio della Federginnastica è stata ratificata dal presidente Andrea Facci. A due anni dalle accuse di maltrattamenti da parte delle ex azzurre Corradini e Basta, per Maccarani è stata richiesta l’imputazione coatta dal Gip di Monza (la decisione sul rinvio a giudizio è attesa a breve) mentre non sono noti i tempi del nuovo processo sportivo.
Da leggere e ascoltare
L’intervento del premio Nobel della Letteratura Orhan Pamuk che, sulle proteste nella sua Turchia dopo l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, scrive: «Da un decennio a questa parte, la Turchia non è più una vera democrazia, ma solo una democrazia elettorale: si può votare per il proprio candidato preferito, ma non esiste libertà di parola né di pensiero. Il governo turco ha infatti cercato di ridurre la popolazione a un’uniformità forzata. Nessuno osa parlare nemmeno dei molti giornalisti e funzionari pubblici che sono stati arrestati arbitrariamente negli ultimi giorni, sia per dare maggior peso e credibilità alle accuse di corruzione contro Imamoglu, come pure nella convinzione che, con tutto quello che sta succedendo, nessuno ci farà caso. Ora, con l’arresto del politico più popolare del Paese, il candidato che avrebbe sicuramente ottenuto la maggioranza dei voti alle prossime elezioni nazionali, persino questa forma limitata di democrazia è giunta al capolinea. Tutto questo è inaccettabile e profondamente insopportabile, ed è il motivo che spinge un numero sempre maggiore di persone a partecipare alle recenti proteste. Per il momento, nessuno può prevedere che cosa ci riserva il futuro».
L’intervista di Daniele Sparisci alla trionfatrice della stagione di sci alpino femminile, Federica Brignone, che rivela: «Testa e velocità sono i miei segreti».
Il retroscena di Monica Guerzoni «Più confronti tra i vicepremier, così Meloni detta le regole per la tregua dopo i duelli».
L’analisi di Giorgio La Malfa «Una strada per la difesa nucleare Ue».
Il corsivo di Luigi Ippolito «Libertà di parola da tutelare: multa all’università».
La rubrica di Danilo Taino, oggi sulle «purghe» di Xi che fanno paura a Taiwan.
L’intervista di Candida Morvillo allo scrittore Walter Siti: «Se fossi rimasto solo un critico letterario mi sarei ucciso».
Il podcast Giorno per giorno, in cui si parla di Ucraina, Signalgate e caso Maccarani con Lorenzo Cremonesi, Marilisa Palumbo e Marco Bonarrigo.
Il Caffè di Gramellini
La borsa dell’apocalisse
Dopo aver seguito il video in cui la commissaria europea per la gestione delle crisi Hadja Lahbib illustra in tono ilare come affrontare le prime 72 ore di un’eventuale emergenza continentale, mi sento molto più sereno. Siamo in ottime mani. Dalla borsetta della commissaria spuntano coltellini svizzeri, carte da gioco, caricatori per telefonini e barrette energetiche. Le prime cose che verrebbero in mente a tutti, nel caso in cui ci arrivasse addosso un missile o un’altra pandemia, ma era giusto ricordarcele. Per esempio: nella mia lista di preparativi per la fine del mondo in 72 ore (non una di più), i caricatori c’erano, e anche le carte, ma le barrette no. Avevo messo i wafer, però li tolgo subito: è l’Europa che me lo chiede. Mi piace tantissimo essere trattato a sessant’anni come un bambino, anche perché oggi nessun bambino si lascerebbe trattare così. Se la commissaria avesse fatto uscire dalla borsa una maglietta della salute, sarei scoppiato in lacrime per la commozione. Eh sì, queste trovate alla Mary Poppins scaldano il cuore di gratitudine. Se avesse parlato di rifugi antiatomici, difese satellitari e potenziamento delle terapie intensive negli ospedali, mi sarei tanto spaventato. Invece un’ipotetica catastrofe ridotta alle dimensioni di un pigiama party fa meno paura, vero?
E poi adesso abbiamo finalmente le idee più chiare sul piano di riarmo europeo. Spaventeremo Putin agitandogli in faccia dei coltellini da campeggio.
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