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venerdì 28 marzo 2025
I dazi affondano le borse, Macron lancia la «forza di rassicurazione»
I dazi affondano le borse, Macron lancia la «forza di rassicurazione»
editorialista
di   Elena Tebano

 

Buongiorno. L’effetto dei dazi annunciati da Trump sui mercati; la risposta della Ue alla guerra commerciale americana; il vertice di Parigi sulla coalizione dei volenterosi con la loro «forza di rassicurazione», su cui l’Italia rimane scettica. Sono queste le principali notizie sul Corriere di oggi. Vediamo.

Il crollo dell’auto in Borsa

I dazi annunciati dal presidente americano Donald Trump spaventano i mercati e le imprese. Trump mercoledì ha di nuovo detto di voler imporre dazi del 25% a partire dalla prossima settimana sulle importazioni di auto, una mossa che, secondo la Casa Bianca, dovrebbe favorire la produzione nazionale e generare entrate per 100 miliardi di dollari all’anno (due cose che però si escludono a vicenda). Da Bruxelles, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha espresso «rammarico» per la decisione degli Stati Uniti di colpire le esportazioni di auto dall’Europa e ha promesso che la Ue proteggerà i consumatori e le imprese. «Le tariffe sono tasse, negative per le imprese, peggiori per i consumatori sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea», ha dichiarato in un comunicato, aggiungendo che la Commissione europea valuterà l’impatto dei dazi prima di reagire.

 

 

«Questo è un attacco molto diretto. Difenderemo i nostri lavoratori. Difenderemo le nostre aziende. Difenderemo il nostro Paese» le ha fatto eco il primo ministro canadese Mark Carney, mentre la presidente messicana Claudia Sheinbaum ha  detto di non voler prendere posizione su ogni nuova tariffa, ma che in base al patto commerciale del primo mandato di Trump «non dovrebbero esserci tariffe».

L’annuncio di Trump prefigura una guerra commerciale che spaventa le grandi case automobilistiche mondiali, visto che i consumatori americani spendono più di 240 miliardi all’anno in automobili e camion leggeri, mentre l’anno scorso sono stati importati componenti per 197 miliardi. Ieri, racconta Giuliana Ferraino, hanno chiuso in rosso i titoli della maggioranza dei produttori, comprese le tre Big americane (Stellantis, General Motors e Ford), perché quasi la metà dei veicoli venduti negli Stati Uniti sono importati, mentre proviene dall’estero quasi il 60% dei componenti di quelli assemblati negli Usa.

 

 

«L’impatto sarà davvero enorme e molto dirompente», ha commentato Sigrid de Vries, direttrice generale dell’Associazione europea dei produttori di automobili (Acea), temendo un rialzo generalizzato dei prezzi che penalizzerà anche i consumatori americani. Gli analisti prevedono un aumento medio del costo delle auto di circa 3.700 dollari. Meno esposta invece Tesla che produce tutto negli Stati Uniti, ma importa componenti (ieri il titolo della casa guidata da Elon Musk ha guadagnato l’1,61%).

I dazi sulle auto fanno parte del nuovo ordine mondiale imposto da Trump, che ha intenzione di far scattare i suoi dazi il 2 aprile, nella cosiddetta «Giornata della Liberazione dell’America». Trump ha già imposto una tassa del 20% su tutte le importazioni dalla Cina e dazi del 25% su Messico Canada (che scendono al 10% sui prodotti energetici canadesi). Parte dei dazi su Messico e Canada è stata sospesa, comprese le tasse sulle auto, dopo che le case automobilistiche si sono opposte e Trump ha risposto concedendo una tregua di 30 giorni che sta per scadere.
Il presidente ha inoltre imposto dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, eliminando le esenzioni dalle tasse sui metalli e ha previsto tasse sulle importazioni di chip per computer, farmaci, legname e rame. Per lui sono tutte tasse «reciproche», cioè  equivalenti, nella sua visione, a quelle imposte dagli altri Paesi contro gli Usa.

Il timore è che si scateni un’escalation di ritorsioni che potrebbe limitare gravemente il commercio globale, danneggiando la crescita economica e aumentando i prezzi per le famiglie e le imprese. Quando l’Unione Europea ha risposto con contro-dazi del 50% sugli alcolici statunitensi, Trump ha replicato prospettando una tassa del 200% sulle bevande alcoliche provenienti dall’Ue.

Ora l’Unione europea deve decidere il daffarsi. Spiega Francesca Basso:
Il 7 aprile al Consiglio Trade i ministri del Commercio dei Ventisette si confronteranno sui primi orientamenti. Bruxelles deve pesare l’impatto dei nuovi dazi per stabilire le contromisure. Quelle per le tariffe Usa su acciaio e alluminio Made in Eu, che dovrebbero entrare in vigore il 13 aprile, sono state stabilite in 26 miliardi di euro. Mercoledì si sono concluse le consultazioni con i portatori di interessi sulla lista di prodotti statunitensi da colpire. Ora sono in corso le consultazioni con gli Stati membri. La lista definitiva «sarà selezionata con attenzione — ha spiegato il portavoce — per massimizzare l’impatto sugli Usa e minimizzarlo sulla nostra economia europea» e sarà compilata in modo «giudizioso e ben calibrato». La Commissione dovrebbe prendere di mira, come già nel 2018, i prodotti situati in Stati politicamente sensibili (a maggioranza repubblicana), senza danneggiare l’interesse europeo. Si tratterà di beni per i quali l’Ue ritiene di avere alternative interne. 

«Un errore madornale non pianificare un’indipendenza dell’Europa e di conseguenza dell’Italia, dai dazi minacciati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump» commenta Roberto Vavassori, presidente dell’Anfia, l’associazione che raggruppa i costruttori italiani dell’automobile. «L’Europa è un mercato composto da oltre 500 milioni di persone, maggiore di quello americano che ne conta poco più di 340 milioni, dunque può far sentire la sua voce con autorità, operando come un unico ecosistema, ossia con la massima unione. Servono fatti concreti considerando anche il settore dei ricambi Usa che vale 100 miliardi di dollari all’anno, di conseguenza anche quello della componentistica italiana può essere penalizzato duramente e indirettamente. Nei primi undici mesi del 2024, la filiera del nostro Paese ha inviato verso gli Stati Uniti oltre 1,5 miliardi» aggiunge.

Anche Francesco Mutti, ceo dell’omonima azienda di conserve alimentari e presidente di Centromarca chiede una risposta unitaria a livello europeo. «Per il settore alimentare italiano, il problema è enorme. Gli Stati Uniti sono il primo mercato per il nostro agroalimentare. Se l’Europa saprà rispondere con una voce unica, potrebbe controbilanciare la decisione statunitense. Se, invece, andremo in ordine sparso, rischiamo di cadere in una situazione di sudditanza economica» dice Mutti. «Trovo innanzitutto inconcepibile che quello che è stato un partner storico per oltre 80 anni improvvisamente decida di rompere un equilibrio internazionale di tale rilevanza. Come cittadino, sono attonito» aggiunge.

Non la vede così almeno una parte del governo: ieri il leader della Lega Matteo Salvini ha detto a Marco Cremonesi che sui dazi le strade «sono due: o andiamo con l’ombrello europeo, o scegliamo la via italiana. Io ho piena fiducia in Giorgia Meloni che ha ottimi rapporti a Washington e Bruxelles. Ma credo che se l’Unione è quella di von der Leyen e Kallas, meglio correre ai ripari e fare da soli».

In Italia i dazi e la guerra commerciale danneggeranno soprattutto le 23 mila aziende che l’Istat definisce «vulnerabili» nei confronti della domanda estera. Secondo le stime della direzione Studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, con dazi di almeno il 20%, ipotizzando una piena trasmissione sui prezzi, l’export italiano a rischio può essere quantificato in 9,6 miliardi di dollari. Sarebbero colpite soprattutto le imprese che producono macchinari e impianti, autoveicoli e altri mezzi di trasporto, farmaceutica, alimentari, chimica, bevande , abbigliamento. Qui l’approfondimento di Valentina Iorio e Bianca Caretto sui settori e sulle aziende che sarebbero più esposte.

A spiegare il senso della nuova «autarchia americana» voluta da Trump è Federico Fubini:
Dietro le azioni di Trump sembra esserci l’ossessione cinese sua e delle élite americane di questi anni. Oggi la Cina produce il 20% degli ingredienti farmaceutici, più di metà dei mercantili, delle tecnologie verdi o del ferro del mondo. Nelle auto la sua capacità è superiore alla domanda globale, fa il 95% dei container, ha il 77% del cobalto e nel complesso assicura un terzo della produzione industriale del pianeta. L’America trumpiana ha tutta l’aria di volersi preparare alla sfida strategica del prossimo decennio con la potenza emergente. E vuole farsi trovare all’appuntamento forte di un’autonomia che la liberi dalle dipendenze e le permetta di basarsi sulle sue forze sole fisiche: acciaio, rame, navi, farmaci, auto.
Ma ha senso? Lo si potesse chiedere a Vladimir Putin, nella sua intelligenza criminale il dittatore direbbe che per lui la rottura fra Washington e Bruxelles vale più della conquista dell’Ucraina. Perché indebolisce l’America, non solo l’Europa. Poi ci sono quei 5.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano, fra nuovo deficit e rinnovo del vecchio debito, che l’amministrazione deve piazzare ogni anno agli investitori di tutto il mondo per evitare tensioni. Trump vuole tagliare i ponti con il resto del mondo, ma gli Stati Uniti da esso dipendono finanziariamente, mentre il loro potere di persuasione dipende anche dal legame con l’Europa sul piano dei valori. Così il presidente fa esplodere le contraddizioni americane, invece di liberarsene in un giorno solo.

La forza di rassicurazione europea

Francia e Gran Bretagna continueranno a portare avanti i piani di dispiegamento di truppe in Ucraina per difendere un eventuale accordo di pace con la Russia, ma  vi parteciperanno solo alcune nazioni europee. Tra queste non ci sarà l’Italia, come più volte ribadito dalla premier Giorgia Meloni. È la conclusione a cui è arrivato il vertice tra i leader di quasi 30 paesi, convocato dal presidente francese Emmanuel Macron all’Eliseo. Parigi e Londra sostengono che tale forza avrebbe lo scopo di garantire un accordo di pace dissuadendo la Russia dall’attaccare nuovamente l’Ucraina. «Non abbiamo bisogno dell’unanimità per raggiungere questo obiettivo», ha dichiarato Macron.

Scrive Stefano Montefiori:
«Queste forze di rassicurazione non sono destinate ad essere forze di mantenimento della pace», ha detto il presidente Emmanuel Macron nella conferenza stampa conclusiva, «né forze presenti sulla linea di contatto, cioè al fronte, né forze che sostituiscano l’esercito ucraino», ma forze «che fornirebbero un sostegno a lungo termine e agirebbero come deterrente nei confronti di una nuova potenziale aggressione russa». I soldati franco-britannici e di altri Paesi europei interverrebbero «il giorno dopo», una volta messe a tacere le armi. Ma il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che era arrivato a Parigi la sera prima e che ieri mattina ha incontrato Macron e il premier britannico Keir Starmer prima dell’inizio dei lavori, al termine della riunione ha detto che «ci sono ancora molte domande e poche risposte sulle azioni di questo contingente, i suoi compiti, quel che può fare, come può essere utilizzato, chi ne sarà responsabile».

 

 

Macron e Starmer hanno anche accusato il presidente russo Vladimir Putin di fingere di trattare per una soluzione diplomatica alla guerra che ha scatenato. «Stanno giocando e stanno cercando di guadagnare tempo» ha detto Starmer. «Non dobbiamo lasciar passare nessuna delle contro-verità sostenute oggi dalla Russia, come hanno dimostrato le discussioni di questi giorni a Riad sul Mar Nero. La Russia ha completamente reinventato quel che è successo negli ultimi tre anni» ha commentato Macron: «Difficile dire che sarebbero in corso trattative di pace, quando queste discussioni parallele hanno portato a tre comunicati distinti che dicono tre cose diverse: un comunicato americano-ucraino, un comunicato americano-russo e un comunicato russo ancora diverso dal precedente» ha aggiunto. Anche gli ucraini hanno molti dubbi sulla tregua parziale che hanno dovuto accettare per non inimicarsi ulteriormente gli americani. Ieri Zelensky ha detto che l’esercito russo sta preparando un’offensiva su almeno tre fronti.Nota ancora Montefiori cheA differenza di quel che prometteva Donald Trump la pace in Ucraina non sembra questione di 24 ore, e i nuovi più violenti bombardamenti russi sembrano allontanare il cessate il fuoco. In queste condizioni, l’ipotesi di inviare truppe europee esiste ma appare, almeno per il momento, una specie di esercizio teorico.La posizione dell’ItaliaL’Italia anche ieri ha continuato di fatto a smarcarsi, tornando a chiedere di estendere all’Ucraina l’articolo 5 del Trattato Nato (quello che impone la difesa reciproca) anche se non entrerà nell’alleanza. Un’ipotesi a cui nessuno crede ma su cui ieri Macron, per pura diplomazia, ha chiesto un approfondimento “tecnico”.Racconta Marco Galluzzo:La novità della premier, nel suo intervento, è una richiesta diretta, che fa mettere a verbale: invitare una delegazione americana al prossimo incontro di coordinamento, dunque coinvolgere gli Stati Uniti nello sforzo che da settimane stanno facendo Londra e Parigi per costituire un nucleo militare europeo che possa comunque essere schierato su suolo ucraino. Meloni ha più volte criticato l’iniziativa sia di Starmer che di Macron, che ormai sembrano aver stabilmente preso le redini di un coordinamento che comunque svolgerà un ruolo a conflitto finito. Secondo la premier l’organizzazione di una forza di peacekeeping europea sarebbe «complessa e poco efficace», ma è pur vero che se arrivasse una copertura Onu allora la presenza di un nucleo militare europeo potrebbe essere una fetta di un meccanismo più ampio.
Intanto c’è il leader della Lega Matteo Salvini che, dalle file del governo, continua ad attaccare Francia e Unione europea. «La cosa vera è che qualcuno sta rallentando il processo di pace. A Bruxelles e a Parigi c’è chi continua a parlare di armi» ha detto ieri al Corriere. È un esempio di quella che Antonio Polito, nell’editoriale di oggi, definisce «coalizione degli svogliati».Un appello all’Ue perché decida unita sulla difesa e la sicurezza arriva dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Un richiamo importante come spiega Marzio Breda, a smettere di rinviare sempre le decisioni in materia di difesa e a evitare dispute stucchevoli. Anche perché le nuove minacce, tra cui il capo dello Stato include l’«uso spregiudicato del dominio spaziale» (un’allusione a tecno-miliardari come Elon Musk e la sua rete satellitare Starlink) impongono un cambio di passo all’Europa. «Appare essenziale una riflessione sul nuovo contesto strategico internazionale che naturalmente richiederà conseguenti processi decisionali. Vale per le decisioni nel contesto dell’Alleanza atlantica e per le decisioni nell’Unione europea… che non sono più rinviabili» ha detto il capo dello Stato, che già pochi giorni fa aveva sollecitato l’Europa a superare il paralizzante vincolo del voto all’unanimità e a passare a quello a maggioranza.Le altre notizie importanti

  • Cresce negli Usa l’eco dello scandalo sulla chat «Signal», allargata per errore a un giornalista, che ha messo a rischio non solo i piani sensibili della guerra agli Houthi, ma anche i dati riservati dei ministri e di uomini del Pentagono. Dalle mail alle app, ai cellulari, la nuova amministrazione Trump ha mostrato di aver introdotto numerose falle nel sistema di sicurezza americano.

  • Dopo l’arresto, l’8 marzo, dello studente palestinese della Columbia University, Mahmoud Khalil, considerato un pericolo per la sicurezza nazionale per la sua azione politica nell’ateneo definita «antisemita», sono almeno 300  i casi di studenti stranieri perseguiti e anche deportati perché protestano contro la guerra a Gaza. L’ultima è la studentessa turca della Tufts University, Rumeysa Ozturk.

  • Un tribunale algerino ha condannato ieri lo scrittore franco-algerino Boualem Sansal, 80 anni, a cinque anni di prigione per «attacco all’unità nazionale, danneggiamento dell’economia nazionale e possesso di video e pubblicazioni che minacciano la sicurezza e la stabilità del Paese». Sansal ha solo criticato il governo.

  • La premier Giorgia Meloni ha diffuso un video per celebrare i suoi due anni e mezzo da premier (il suo governo è diventato il quinto per longevità in Italia) e rilanciare la riforma del premierato.

  • Il rinvio al 20 maggio dell’udienza del processo alla ministra del Turismo Daniela Santanchè allontana di qualche mese la resa dei conti politica sulle sue dimissioni o meno dal governo, ma non avvicina la prescrizione delle accuse, spiega Luigi Ferrarella.

  • Voto di scambio politico mafioso: è l’accusa che ha portato il gip di Salerno a disporre gli arresti domiciliari per Franco Alfieri, politico legatissimo al governatore Vincenzo De Luca. Secondo la Dda, l’imprenditore Roberto Squecco, legato a un  clan locale, garantì i voti per farlo eleggere sindaco di Capaccio Paestum nel 2019; in cambio Alfieri, assicurò di chiudere un occhio sulla vicenda del Lido Kennedy, che avrebbe dovuto essere dismesso in seguito alla revoca della concessione demaniale.

  • Le opposizioni attaccano per i ritardi sul Pnr. Il governo rivendica invece il primato italiano sulla spesa. Il nodo di una possibile proroga.

  • Sono già state dall’altra parte del mondo per due volte, le reliquie del beato Carlo Acutis, il 15enne morto nel 2006 di leucemia fulminante e che tra un mese diverrà santo. Ora le ha richieste Cuba e anche l’India. Mentre qualcuno sul web cerca di venderne (di vere o false) per fare soldi. Un giallo su cui indaga la procura di Perugia.

  • Un sottomarino che trasportava 45 turisti, per lo più russi, in visita alle barriere coralline è affondato al largo della città egiziana di Hurghada. Sei i morti e 14 i feriti.

Da ascoltareNel podcast «Giorno per giorno», Federico Fubini spiega la strategia dietro la decisione di Donald Trump di imporre tariffe del 25% sull’importazione di auto. Stefano Montefiori racconta com’è andato l’incontro di Parigi tra i Paesi «volenterosi». Mara Gergolet parla dei nuovi sviluppi della vicenda della chat riservata tra ministri del governo Usa.Da leggereLa Cinebussola di Paolo Baldini, con le prime visioni al cinema e le novità delle piattaforme digitali: «Le assaggiatrici», «Nonostante», «Sons», «Opus – Venera la tua stella», «Holland», «Muori di lei», «Gen_», «Finché notte non ci separi», «Cattiverie a domicilio», «The Substance».Il Caffè di Massimo GramelliniIl Doge di AmazonIn occasione delle sue nozze veneziane di mezza estate con Lauren Sanchez, Jeff Bezos sequestrerà per tre giorni l’intera città: i taxi, le gondole, gli alberghi di lusso. Da italiano dovrei rallegrarmi: comunque andrà a finire questa storia dell’Europa, la mia piccola patria ha un futuro assicurato come Disneyland dei ricconi. Abbiamo scenari adatti a qualsiasi favola di lusso: laghi, città sull’acqua, ville d’epoca e centri storici che la fuga dei residenti ha reso fondali di cartapesta, in grado di venire affittati in esclusiva al miglior offerente. E allora perché, nel leggere di come Bezos abbia preso in appalto Venezia senza badare a spese, provo un moto di fastidio e quasi di imbarazzo? Non è invidia per non essere stato invitato (chissà le bomboniere). E neanche un sussulto di moralismo: con Amazon, Bezos ha realizzato qualcosa che non c’era ed è giusto possa godersi il frutto del suo talento. Il disagio non è per la sua ricchezza, ma per l’esagerazione con cui la ostenta, specie a fronte di una massa sterminata di dipendenti pagati al mese meno di quanto a lui costerà l’affitto di una sola gondola per un giorno.
La natura è armonica: prevede le disuguaglianze, purché proporzionate. A costo di passare per un pericoloso estremista, mi sembra che affittare l’intero Canal Grande per un matrimonio sia lievemente sproporzionato. Anche se il doge di Amazon può permetterselo. Anzi, proprio perché se lo può permettere. E non oso immaginare la luna di miele.
Grazie per aver letto Prima Ora, e buon venerdì(Le mail della Redazione Digital: gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it)

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giovedì 27 marzo 2025
Poveri ma al lavoro, la scossa di Sanders e Ocasio-Cortez, la fine di Le Pen, la svolta della Malesia
27 mar 2025
editorialista
di   Alessandro Trocino

 

Bentrovati.

 

Rebus Italia Statistiche e rapporti dicono che, nel nostro Paese, aumentano gli occupati, cala la disoccupazione ma cresce anche il rischio di povertà ed esclusione sociale. Come è possibile? Luca ha provato a cercare qualche risposta.

La riscossa di Sanders e Aoc Il partito democratico americano è ancora sotto choc dopo la sconfitta con Donald Trump. I vecchi leader sono spariti o si interrogano sul da farsi. A guidare la riscossa sono l’anziano Bernie Sanders e la giovane Alexandria Ocasio-Cortez, che stanno riempiendo le piazze con le loro manifestazioni.

La fine di Le Pen Marine Le Pen rischia una condanna per sottrazione di fondi europei. La sentenza avrebbe effetto immediato e non potrebbe quindi candidarsi alle presidenziali del 2027. Massimo Nava ci spiega le conseguenze di questo che sarebbe un vero terremoto politico per la Francia.

La svolta della Malesia Nel 2022 la Malesia era lo Stato con il più alto numero noto al mondo di donne condannate a morte: 129. Ora sono due. Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, ci racconta l’incredibile svolta.

Frammenti Ferruccio de Bortoli ragiona sul senso del dolore, commentando un articolo di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose. E dice: «Spesso i cristiani si domandano che cosa abbiano fatto di male per meritare una sofferenza fisica o psichica. Inutile cercare la colpa nel dolore. Combatterlo è una scelta etica, perfettamente in linea con il proprio credo religioso».

La Cinebussola Mai sottovalutare i film che riprendono le opere di Stephen King, ci dice Paolo Baldini. Riferimento non casuale alla nuova uscita in sala di «The Monkey», regia di Osgood Perkins. 

 

Buona lettura!

 

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Rassegna socio-economica
Più occupazione e più povertà: il rebus Italia (con qualche spiegazione)
editorialista
Luca Angelini

 

Elena Tebano ha ricordato, nella Rassegna di ieri, i dati preoccupanti (eufemismo) del Rapporto Istat «Condizioni di vita e reddito delle famiglie. Anni 2023-2024», secondo il quale oltre 13 milioni e mezzo di residenti in Italia (il 23,1% del totale) nel 2024 erano a rischio di povertà o esclusione sociale (nelle famiglie con almeno un cittadino straniero la percentuale è del 37,5%, ma in discesa dal 40,1% dell’anno precedente, mentre aumenta leggermente per i componenti delle famiglie composte da soli italiani: 21,2% rispetto al 20,7% del 2023). Francesco Riccardi, in un editoriale su Avvenire, prova a capire «come siamo arrivati fin qui, perché progresso e sviluppo del Novecento si siano interrotti». E, soprattutto, come sia compatibile oggi tutto ciò con altri dati, quelli che testimoniano un tasso di occupazione mai così elevato, una disoccupazione ridotta ai minimi e un’inattività ancora assai consistente ma comunque in calo.

 

 

«La risposta più semplice è che il lavoro stesso – quello dipendente – si è impoverito: in remunerazione ma anche in qualità per una buona parte degli italiani. Perché il sistema economico, soprattutto il comparto industriale che era il fiore all’occhiello e il motore primo del Paese, si è sfilacciato. Abbiamo perso molti grandi campioni, restiamo ancorati a un sistema di piccole aziende, flessibili sì ma non in grado di essere all’avanguardia nello sviluppo di nuove tecnologie e processi, scontiamo una scarsa produttività di sistema. I servizi non hanno supplito creando sufficiente valore, specializzazione e innovazione».

 

 

In effetti, sempre di questi giorni è la notizia che, secondo l’annuale Rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) l’Italia è il Paese del G20 dove i salari hanno subito la più forte perdita di potere d’acquisto dal 2008 a oggi: -8,7%. In Francia, nello stesso periodo, c’è stato un aumento di circa il 5%, in Germania di quasi il 15%. «Il rapporto non lo dice – ha scritto sul Corriere Enrico Marro – ma questo è accaduto anche per colpa del fiscal drag, un fenomeno di cui si parlava molto negli anni Settanta e Ottanta e che invece ora viene stranamente trascurato. Come dimostrato da diversi studi (Bruno Anastasia, Marco Leonardi e altri), nonostante i ripetuti tagli del cuneo dal 2020 in poi, le maggiori tasse pagate a causa dell’aumento del reddito nominale spinto dall’inflazione (i prezzi sono saliti di circa il 20% tra il 2019 e oggi) non sono state compensate, determinando un impoverimento del salario reale netto. Al quale ha contribuito anche una dinamica delle retribuzioni contrattuali che, come si legge nel rapporto dell’Oil, nonostante siano aumentate in media del 15% in termini nominali, hanno perso oltre 5 punti rispetto all’inflazione».

 

 

Riccardi conferma e allarga un po’ il quadro: «La globalizzazione ha fatto emergere nuovi attori economici agguerriti, mentre noi eravamo alle prese con due esigenze: rimettere in ordine i conti pubblici e moderare l’inflazione che rischiava di erodere tutto. La moderazione salariale ha svolto un ruolo fondamentale in questo a fine secolo scorso, ma la politica dei redditi difende i più poveri solo se si applica veramente a tutti i redditi e si riflette sui prezzi moderandone la crescita. E invece ha finito per offrire il terreno ideale su cui innestare tre trasformazioni negative: la finanziarizzazione dell’economia, un modello di produzione competitivo per bassi costi e non per qualità, la remunerazione del capitale assai più che del lavoro».

 

 

A proposito di moderazione salariale, Riccardi va un po’ controcorrente (qui una videoanalisi di Antonio Polito) e scrive: «Lascia il tempo che trova accusare i sindacati di non aver protetto abbastanza i salari, “distratti” da operazioni più politiche, perché era ciò che si è chiesto loro come “responsabilità” negli ultimi decenni e guai se si proclamavano scioperi. Così come ha ben poco senso ora limitarsi a discutere di salario minimo per legge sì o no, come se fosse lo strumento decisivo e generalizzabile, quando invece dovrebbe essere utilizzato solo in maniera sperimentale e limitata per non penalizzare la contrattazione, in grado di tutelare più efficacemente la generalità dei lavoratori».

 

 

Elena ieri ricordava anche che, nel 2023, l’ammontare di reddito percepito dalle famiglie più abbientiè 5,5 volte quello percepito dalle famiglie più povere – in salita dal 5,3 del 2022 – e che è aumentata la quota di ricchezza nazionale dovuta alle eredità, un sintomo di diseguaglianza sociale (e uno dei pilastri della «società signorile di massa» descritta dal sociologo Luca Ricolfi; qui un’analisi di Ferruccio de Bortoli).

 

 

C’è qualche modo per uscirne? Il suggerimento di Riccardi è «sedersi a un tavolo per vedere come estendere i contratti, ridefinirne materie e pesi nei nuovi scenari, come legare sempre più la partecipazione dei lavoratori ai risultati delle imprese. Occorre agire ancora sulla leva fiscale per alleggerirne il peso sul lavoro salariato e aumentarne quello sulle rendite, soprattutto far pagare il dovuto davvero a tutti. Per chi ha redditi minimi sentir parlare della rottamazione delle cartelle fiscali, di un ennesimo regalo agli evasori suona come uno scandalo».

 

 

Idem per una notizia come questa, anch’essa delle ultime ore: a fine gennaio tasse, contributi e multe affidate a Agenzia delle Entrate-Riscossione e non pagate sono arrivate a 1.272,9 miliardi di euro, ma gran parte di questi crediti è ormai virtuale. Secondo la Commissione incaricata dal Governo di analizzare il magazzino dei crediti fiscali, ben 537 miliardi sono tecnicamente inesigibili, cioè non saranno recuperati. Riguardano crediti di persone decedute o nullatenenti, società non più attive o fallite. I crediti potenzialmente riscuotibili, sul totale, sono 567 miliardi, mentre per altri 167 miliardi le possibilità di recupero sono definite incerte. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che ha citato i dati della stessa Agenzia delle Entrate, dei 1.272,9 miliardi in riscossione, in realtà appena 100,8 miliardi, il 5,4% del carico totale affidato, ha un grado di esigibilità abbastanza elevato. Il conto sarebbe stato ancora più alto se, come calcolato dal dipartimento Finanze, 326 miliardi non fossero stati cancellati in autotutela e altri 95,8 non fossero sfumati in rottamazioni e stralci.

 

 

In proposito, Gianni Trovati e Marco Mobili, sul Sole 24 Ore, sottolineano che «per l’Ufficio parlamentare di bilancio le rottamazioni nutrono la voglia di condono. O, per dirla con il linguaggio più ufficiale usato dalla consigliera Valeria De Bonis, “ripetute e stratificate misure di definizione agevolata e annullamento dei debiti contribuiscono ad alimentare nei contribuenti aspettative di future agevolazioni e condoni, con ripercussioni negative sulla riscossione“. Quello dell’Upb non è un no a prescindere: ma, avverte De Bonis, “queste misure dovrebbero essere affiancate da un miglioramento dell’efficienza sia dei meccanismi di riscossione coattiva sia di stimolo all’adeguamento spontaneo“. I «fenomeni di inadempimento», ha concordato la Corte dei conti con Enrico Flaccadoro, presidente di coordinamento delle sezioni Riunite in sede di controllo, sono «potenzialmente alimentati dalle ripetute rottamazioni, annullamenti, stralci e dilazioni, che rafforzano le aspettative di futuri abbattimenti o cancellazioni o rateazioni delle posizioni debitorie”».

 

 

Dallo «scandalo» alla rabbia sociale, il passo può essere pericolosamente breve.

 

Rassegna internazionale
Democratici in agonia, Sanders e Ocasio-Cortez guidano la riscossa
editorialista
Alessandro Trocino

Che fine ha fatto Joe Biden? E Kamala Harris? E, soprattutto, che fine ha fatto il Partito democratico americano? Reduce da una clamoroso ko, ancora intontito e frastornato, fatica a riprendersi e a ritrovare un’identità. I sondaggi gli assegnano un indice di gradimento del 27%, minimo storico dal 1990. I vecchi leader sono spariti e forse hanno risposto al consiglio del veterano James Carville che ha suggerito ai democratici di «fingersi morti finché Trump non avrà esaurito la sua spinta propulsiva». Nell’opinione pubblica, però, è forte la sensazione di delusione per una mancata reazione alla nuova presidenza di Donald Trump, che rischia di minare le basi della democrazia. E mentre la vecchia guardia sembra impegnata in una sorta di analisi collettiva su come affrontare Trump, rompono gli indugi e scendono in piazza l’anziano Bernie Sanders (83 anni) e la giovane Ocasio-Cortez (35 anni) in quella che il Washington Post definisce «un’ondata populista». Due leader di una sinistra radicale che spazzano via i balbettii dei democratici e provano a rialzare la testa, insieme a decine di migliaia di americani. «I primi cinque eventi hanno raccolto 86 mila persone», ha twittato Sanders sabato, dopo avere organizzato i raduni a Las Vegas (Nevada), Greeley e Denver (Colorado) e Tempe e Tucson (Arizona).

 

Sotto accusa sono soprattutto i tagli del bilancio federale, che colpiscono i più vulnerabili e i beneficiari della previdenza sociale. Sotto accusa è anche il leader della minoranza al Senato Chuck Schumer che, con altri otto democratici, ha dato il suo sì decisivo all’approvazione di una legge di spesa semestrale repubblicana. È vero che, come si è difeso, il rischio era lo shut down del bilancio, che avrebbe dato ancora più potere a Trump, consentendogli di chiudere ministeri e mandare a casa altri dipendenti federali. Ma l’impressione è stata quella di una resa all’avanzata del trumpismo. Molti democratici temono che il Paese non arriverà alle elezioni di medio termine del 2026. Trump, dicono, sta portando avanti un’agenda autoritaria.

 

 

Il tradizionale messaggio di Sanders sulla dicotomia ricchi/poveri sembrava polveroso e sorpassato. Archeologia socialista. Ma ha assunto una nuova valenza con l’arrivo al potere di Trump, davanti al quale, ha detto in un comizio, si sono inchinati i tre uomini più ricchi del mondo (Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg). Le manifestazioni sul territorio – al grido di «Fight the oligarchy» – danno un’opportunità al Partito democratico di smarcarsi dall’immagine di partito di colletti blu, diretto dall’alto e da Washington. Scrive l’inviata del Paìs Corine Lesnes: «Con una semplice scenografia, a volte un semplice leggio su una spianata all’aperto, e la forza delle parole come unica arma, Sanders riesce a infiammare i suoi sostenitori».

 

 

Ma Sanders, che alle Presidenziali del 2028 avrà già 87 anni, non sarà candidato. E per questo sta lanciando, guest star dei suoi comizi, Alexandria Ocasio-Cortez, pur evitando di appoggiarla direttamente come leader. E Aoc sta salendo rapidamente la scala dei sondaggi e del gradimento. In un sondaggio della Cnn è risultata la prima a rappresentare i valori democratici. Piace per la sua gioventù, il piglio deciso e l’origine popolare (ricorda sempre che ha fatto anche la cameriera)

 

 

A destra la attaccano e Usa Today è in prima linea: «AOC rifiuta il termine “woke”, ma non c’è politica woke che non sostenga. Ha amato il neologismo Latinx (“il genere è fluido, la lingua è fluida”) e sostiene ancora i maschi biologici che gareggiano negli sport femminili (“le ragazze trans sono ragazze”). Non ha mai accettato una restrizione all’immigrazione. Il motivo per cui Joe Biden ha vinto nel 2020 è che non sembrava un progressista, e uno dei motivi per cui il suo partito ha perso nel 2024 è che ha governato come tale. Il marchio di AOC è il Biden del 2024 piuttosto che il Biden del 2020, ma ancora di più».

 

 

Questione di punti di vista, naturalmente. Perché il tema è sempre lo stesso, e si pone anche in Italia: contro la destra estrema è più efficace una sinistra radicale o una più moderata? La sinistra radicale non rischia di spaventare l’elettorato centrista? Ma una leadership moderata, che concede troppo alla destra e che prova a mediare compromessi per salvare il salvabile, non sarà considerata poco efficace?

 

 

Fatto sta che il popolo che sta scendendo in piazza in questi giorni chiede di opporsi con più radicalità a Trump. Lo urla. Come scrive il Washington Post: «Gli elettori democratici guardano con orrore alla guerra lampo di Trump e ai suoi attacchi alla magistratura. In dozzine di interviste in occasione di recenti eventi democratici, gli elettori hanno affermato che i leader del loro partito devono mostrare un senso di urgenza molto maggiore e avere un piano per fermare i licenziamenti di massa di lavoratori federali di Trump e Musk, il tentativo di chiusura del Dipartimento dell’Istruzione e potenziali tagli alla previdenza sociale, a Medicaid e ad altri programmi di assistenza».

 

Ma cosa sta facendo il Partito democratico per fermare Trump? I procuratori generali democratici, con sindacati e associazioni per diritti civili, hanno presentato 120 cause, congelando alcune decisioni del presidente e di Musk. Ma è chiaro che è tutto troppo poco e che c’è una frattura tra la base e la vecchia guardia del partito, che sembra ormai delegittimata. Per questo le manifestazioni danno il senso di un tentativo di resettare il Partito democratico e di ricostruirlo da zero.

 

Il prossimo appuntamento è il voto del mid term (metà mandato), previsto per il 3 novembre 2026. Lì i democratici possono sperare di riconquistare il controllo della Camera. Dove già potrebbero avere qualche chance prossimamente, visto che ci sono cinque seggi vacanti, da riempire nelle suppletive e la maggioranza repubblicana è di 218 su 435.

 

 

Poi, nel 2028, il voto più importante, per la presidenza. Il Washington Post ha indicato 12 nomi possibili di candidati. Ocasio-Cortez non c’è. Al primo posto c’è Josh Shapiro, seguono Gretchen Whitmer e Pete Buttigieg. Al quarto, Kamala Harris. Ce la può fare? Ha perso lei o ha vinto Trump? Un primo dubbio si scioglierà presto, quando deciderà se candidarsi o meno a governatrice della California.

 

Rassegna francese
La fine (per via giudiziaria) di Marine Le Pen
editorialista
Massimo Nava

Molti fattori possono indebolire o addirittura far morire le democrazie. Ne conosciamo i più evidenti, come colpi di Stato e cambi di regime per via parlamentare come avvenne per fascismo e nazismo. Ma non valutiamo mai abbastanza i fattori che possono minarne le basi in modo meno traumatico e più lento, ma in fin dei conti, altrettanto devastante. Pensiamo alla corruzione, alla crescente sfiducia nelle istituzioni, al conflitto fra poteri dello Stato, alle ingerenze esterne come sta avvenendo da tempo in diversi Paesi dell’Est europeo.

Un caso su cui riflettere è quello francese in vista di una sentenza che probabilmente condannerà all’ineleggibilità la leader dell’estrema destra Marine Le Pen, già candidata sconfitta alla presidenza della Repubblica e ovviamente ansiosa di rivincita.

 

La questione è semplice. Marine Le Pen e una ventina di deputati del suo partito – allora Front National, oggi Rassemblement National – sono accusati di avere sottratto fondi europei per finanziare attività politiche e retribuire funzionari. Marine Le Pen rischia di essere condannata all’ineleggibilità con esecuzione provvisoria. La sentenza avrebbe effetto immediato e non potrebbe quindi candidarsi alle presidenziali del 2027. Il verdetto è atteso per il 31 marzo. Sarebbe il big bang della politica francese per via giudiziaria, oltre che la fine di una saga familiare che coinciderebbe peraltro con la scomparsa del padre di Marine, Jean Marie, morto tre mesi fa.

 

 

Ovviamente, il partito fa quadrato attorno alla sua leader e parla di una congiura per estrometterla dalla vita politica per via giudiziaria. Il dito è puntato contro i socialisti. La tensione è palpabile quanto il panico per una vicenda giudiziaria che oggi appare irrimediabile, data l’evidenza delle prove. E questo spiega anche i tatticismi dei mesi scorsi da parte di Marine Le Pen determinata a chiedere le dimissioni di Emmanuel Macron e provocare un’elezione presidenziale anticipata.

 

 

Le sorti politiche del Rassemblement National potrebbero a questo punto essere nelle mani del delfino di Marine, il giovanissimo Jordan Bardella, il quale finora non ha tuttavia dato prove tali da scaldare i cuori della base popolare del partito. Siccome la politica non è un pranzo di gala, Bardella potrebbe approfittare della sentenza per giocarsi il suo futuro. In modo sottile, senza urtare apertamente la sensibilità della «matriarca», ci sta pensando, sia con le pubbliche relazioni sia con qualche smarcamento della linea ufficiale.

 

 

Il sogno è un’unione delle destre per riconquistare l’Eliseo. Intanto si è dedicato alla promozione della sua autobiografia in cui ripete la sua ammirazione per Marine Le Pen, per stroncare sul nascere tutte le voci che vorrebbero che ambisca al suo posto. Bardella si attiene prudentemente alla linea del partito e definisce il processo una caccia alle streghe, senza che ciò vada contro la campagna di marketing in corso con il sostegno della casa editrice Fayard – e quindi del gruppo Bolloré – per presentarsi come delfino ideale. Sia per Matignon che per l’Eliseo.

 

 

Ma al di là dei sogni di Bardella, qualche riflessione s’impone sul percorso giudiziario di un terremoto politico. Il dato che fa riflettere è il meccanismo di esecuzione provvisoria della sentenza che appunto avrebbe validità anche in caso di ricorso e di ribaltamento futuro della sentenza stessa. Un meccanismo che di solito si applica in cause civili per reati gravi ma che alimenta le polemiche e i sospetti di congiura. Nel mirino anche il neo presidente del consiglio costituzionale, Richard Ferrand: «Il suo percorso e le sue relazioni politiche fanno pensare che alcuni potrebbero considerarlo meno un custode neutrale della legge che un’estensione dell’establishment politico», ha scritto il britannico The Spectator. Lapidario il commento: «Anche se l’ineleggibilità di Le Pen può essere mascherata dalla difesa della democrazia, escludere una persona che è in testa ai sondaggi tradisce il suo vero obiettivo. Dando il suo benestare, il Consiglio costituzionale concretizzerebbe le intenzioni di Macron: neutralizzare Le Pen con una guerra giudiziaria e non alle urne. La facciata democratica della Francia potrebbe essere incrinata».

 

 

Non sarebbe comunque la prima volta che un «papabile» sia eliminato dalla corsa per via giudiziaria. Fu questo il caso dell’ex primo ministro François Fillon, costretto a farsi da parte il seguito allo scandalo dell’impiego pubblico della moglie, il cosiddetto «Penelopegate». Toccò poi a Dominique Strauss Kahn per lo scandalo del presunto stupro di una cameriera all’Hotel Sofitel di New York. Sia Fillon sia Strauss Kahn erano i più accreditati competitor di Nicola Sarkozy, il quale, a sua volta, si trova impigliato in una serie di affari giudiziari che potrebbero escluderlo per sempre dalla vita politica.

 

 

Nell’arringa del novembre scorso, i magistrati chiesero cinque anni di carcere, di cui due senza condizionale, per la leader del Rassemblement national. Ma soprattutto chiesero cinque anni di ineleggibilità. Marine Le Pen rimarrebbe di pieno diritto deputata e presidente del più importante gruppo parlamentare dell’Assemblea nazionale, ma non potrebbe più candidarsi alle elezioni, e in particolare alle presidenziali del 2027. In testa nei sondaggi, ma «pensionata» da un tribunale. Marine Le Pen, pur attendendosi una sentenza sfavorevole, punta evidentemente al meccanismo dei ricorsi per arrivare comunque alle presidenziali. Se il tribunale decidesse per un’esecuzione provvisoria, i ricorsi non avrebbero più effetto sospensivo.

 

 

Val la pena di ricordare, magari con un occhio alle vicende di casa nostra, che le regole sull’ineleggibilità sono state notevolmente inasprite in Francia, prima nel 1995 sotto il governo Chirac, poi nel 2013 sotto Hollande e infine nel 2017 sotto Macron. Con l’obiettivo di «moralizzare la vita pubblica», si è redatto un un elenco sostanzioso di reati per cui la condanna deve essere obbligatoriamente accompagnata da una misura di ineleggibilità che può arrivare fino a dieci anni. Sembra che i magistrati abbiamo letto un libro pubblicato nel 2012 da Marine Le Pen, in cui – nel capitolo «Ripristinare la morale pubblica» – scriveva: «L’arma dell’ineleggibilità dovrà essere usata con molta più severità».  Poi ha invece dichiarato: «Penso che la volontà della procura sia quella di privare i francesi della possibilità di votare per chi vogliono».

 

 

La condanna severa non sarebbe un accanimento giudiziario, vista l’importanza del caso e delle prove fornite. D’altra parte, l’applicazione immediata dell’ineleggibilità, senza concedere l’effetto sospensivo dei ricorsi, potrebbe alimentare sentimenti di risentimento nell’opinione pubblica. Del resto, quanto avvenuto negli Usa in seguito alle vicende giudiziarie che coinvolgono Donald Trump ci dicono chiaramente quanto risentimento e quanti motivi di faida politica accendano le aule dei tribunali. Di certo, comunque finisca la vicenda francese, il popolo di Marine Le Pen non resterà a guardare.

 

Il Punto con Amnesty
Malesia, le riforme giudiziarie hanno quasi svuotato i bracci della morte
editorialista
riccardo Noury

 

Un’analisi della Rete contro la pena di morte in Asia (Anti-Death Penalty Asia Network, Adpan) ha reso noto il positivo impatto delle riforme giudiziarie introdotte in Malesia nella seconda metà del 2023 riguardo alla pena capitale.

 

 

La principale riforma ha riguardato l’abolizione dell’obbligatorietà della condanna a morte a fronte del reato: nel caso della Malesia, l’omicidio e i crimini collegati alla droga. Il ripristino del potere discrezionale dei giudici, ovvero della possibilità di considerare eventuali fattori mitiganti o circostanze attenuanti, ha fatto sì che le corti d’appello potessero accogliere ricorsi e annullassero una dopo l’altra migliaia di condanne alla pena capitale, sostituendole con l’ergastolo o altra pena detentiva, con l’aggiunta, caso per caso, della pena accessoria delle scudisciate.

 

 

Il numero dei prigionieri nei bracci della morte, che nel novembre 2023 contenevano 13.002 persone destinate alla pena capitale, è sceso un anno dopo a 140. Nel 2022 la Malesia era lo Stato col più alto numero noto al mondo di donne condannate a morte: 129, Ora sono due. Era elevato anche il numero degli stranieri in attesa dell’esecuzione: nel 2019 erano 568, ora sono 27.

 

 

Secondo l’Adpan, c’è ancora altro da fare per completare l’opera. In primo luogo, rivedere in appello le condanne dei 140 prigionieri ancora nei bracci della morte.
Poi, modificare la legge in materia di droga, dato che i dati disponibili al mondo dicono chiaramente che la pena capitale non ha alcun effetto deterrente sul consumo o sulla vendita. Sono 40, quasi un terzo del totale, i condannati a morte per reati di droga nei bracci della morte del Paese.

 

 

Da qui l’appello all’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di criminalità legata alla droga affinché le autorità della Malesia aboliscano la pena di morte per tali reati, rispettando gli standard del diritto internazionale secondo i quali la pena capitale può essere applicata solo per «i crimini più gravi», ossia l’omicidio volontario.

 

Frammenti
Padre Enzo Bianchi e la lotta al dolore senza tregua
editorialista
Ferruccio de Bortoli

Enzo Bianchi, monaco e saggista, fondatore della Comunità di Bose e, più recentemente, della Casa della Madia, ha scritto su La Stampa un articolo di grande coraggio e profondità. «Io, cattolico e malato, vi dico che la lotta al dolore non è peccato», questo il titolo del suo intervento. Spesso i cristiani si domandano che cosa abbiano fatto di male per meritare una sofferenza fisica o psichica. E, aggiunge provocatoriamente Bianchi, offrono il loro dolore a Dio. «Ma Dio non sa che farsene». Inutile cercare la colpa nel dolore. Combatterlo è una scelta etica, perfettamente in linea con il proprio credo religioso.

 

La sofferenza non è una scorciatoia per il Regno dei cieli. Non è una prova da superare che ci tocca come destino inevitabile della nostra esistenza. Non è il modo, che ancora si ritiene più efficace, per temprare i caratteri. Dunque, conclude Bianchi, la lotta al dolore sia senza tregua. La Chiesa, è giusto ricordarlo, su questo tema ha decisamente aperto alle cure palliative. In particolare con il Piccolo lessico del fine vita, scritto dalla Pontificia accademia per la vita e grazie all’impegno di monsignor Vincenzo Paglia. Anche il Papa si è più volte espresso a favore della diffusione delle cure palliative. 

 

 

Una delle risposte agli angosciosi interrogativi del fine vita, materia delicatissima sulla quale si aspetta che il legislatore esca, finalmente, dal suo crudele torpore. Le cure palliative in Italia sono ancora poco diffuse e ciò introduce un’inaccettabile discriminazione sul piano dei diritti e nella tutela della dignità delle persone. Nel momento più difficile della loro vita, come accade anche a padre Bianchi al quale facciamo i nostri auguri, si accorgono di essere cittadini di serie B. A volte totalmente dimenticati.

 

La Cinebussola
«The Monkey», uno Stephen King splatter
editorialista
pAOLO bALDINI

Non sottovalutate i film che riprendono i romanzi e i racconti di Stephen King: riusciti o no, dominatori del box office o meno, hanno sempre uno scatto creativo particolare, un taglio, un’idea capace di mettere i brividi e farsi amare. Uno degli esempi più chiari è Cujo, horror da fattoria con il San Bernardo trasformato in un assassino a quattro zampe dal morso di un pipistrello. Uscì nel 1983, il libro era poco conosciuto, fu un inaspettato successo estivo.
Lo stesso potrebbe succedere a The Monkey, storia di percezioni soprannaturali, superstizioni, depressioni e altri disastri sublimati in un mostro che, nel nostro caso, è un giocattolo: uno scimpanzé tamburino che attraversa l’esistenza di due gemelli, il tenero Hal e l’aggressivo Bill, entrambi interpretati dallo stesso attore: Christian Convery, quando i due sono bambini, e Theo James da adulti.
Hal e Bill hanno la stessa faccia ma personalità così diverse da trasformare il legame profondo che li lega in una continua baruffa. La vita li prende a schiaffi e la scimmia, trovata nel baule dei vecchi ricordi di papà, è il trait d’union dei loro disagi, è come un evidenziatore del loro malessere, nato da un’infanzia difficile e da una scarsa autostima.

Hal in particolare avverte il problema, Bill si difende attaccando. Lo scimmiotto con gli occhi a palla crea incubi ma soprattutto pone i due ragazzi di fronte a paure e disillusioni. Ne sottolinea le fragilità. Non resta che liberarsi del molesto pupazzo: Hal e Bill gettano il meccanismo in un pozzo, pensando che il peggio sia passato. Invece, vent’anni dopo, ecco di nuovo spuntare The Monkey: i due, nel frattempo, si sono persi di vista, ognuno ha preso la sua strada, vivere con il fratello era per tutti e due una punizione. È Hal a prendere l’iniziativa e a ricontattare Bill, divenuto una specie di scienziato pazzo. I colpi di scena finali cominciano qui.

 

Lo specialista Oz Perkins fa una scelta ibrida: la commedia con tratti umoristici diventa un’analisi dei rapporti tra gemelli e poi un horror in piena regola. Fedele a King ma con una gran voglia di divertirsi in chiave pulp splatter. Il film è una specie di delirio gore che Perkins fa volare 1) allargando lo spazio in cui la parabola si svolge, 2) usando un ritmo serrato, a tratti travolgente, 3) spingendo sulla recitazione allarmata / allucinata dell’intero cast, in cui spicca la guest star Elijah Wood. L’impressione è che resti zavorrato all’effetto, alla creazione di uno spettacolone dark, mancando l’occasione di approfondire le ragioni dell’abisso in cui Hal e Bill sono precipitati.
Perkins spiega così le sue scelte: «Entrambi i miei genitori (Anthony Perkins e Berry Berenson) sono morti in maniera folle. Ho trascorso gran parte della mia vita a riprendermi dalla tragedia. Tutto quel dolore mi sembrava ingiusto. Quando sei più grande capisci che tutti muoiono. Ho pensato che il modo migliore per raccontare tutto questo sia il sorriso».

 

THE MONKEY di Osgood Perkins
(Usa, 2025, durata 95’, Eagle Pictures)

con Theo James, Elijah Wood, Tatiana Maslany, Laura Mennell, Sarah Levy
Giudizio: 3 su 5
Nelle sale

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