Era di Maddaloni, Pietro Caruso, il questore che aveva compilato la lista dei prigionieri uccisi dai tedeschi nell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 1944. Processato fu condannato a morte di Ferdinando Terlizzi (*)
Confesso che non lo sapevo. Ma l’ho appreso leggendo il bel libro di Walter Veltroni La Condanna (Rizzoli, 2024) in occasione della sua partecipazione al Visioni City festival che si tenne a Sessa Aurunca nell’estate scorsa. Il libro narra una storia terribile di follia e ingiustizia, quella di Donato Carretta, che Walter Veltroni ricostruisce in maniera impeccabile attraverso gli occhi di un giovane giornalista che viene incaricato dalla sua testata di riportare a galla l’atroce storia del linciaggio di Carretta che il 18 settembre del ‘44, all’epoca direttore del carcere di Regina Coeli, venne massacrato da una folla inferocita che si era recata a Palazzo di Giustizia per il processo al questore di Roma Pietro Caruso, accusato di aver preparato le liste dei fucilati alle Fosse Ardeatine. Tra di loro tante donne, madri e mogli dei morti nell’eccidio, che temono che il responsabile collaborazionista, possa cavarsela. La folla oramai incontrollata si avventa su Donato Carretta, in aula per testimoniare contro Pietro Caruso. Un romanzo intenso capace di raccontare un passato che, per alcuni aspetti, ci aiuta a decifrare il presente in cui viviamo. Ma ecco la storia del maddalonese Caruso che – come ho precisato ignoravo totalmente – ma che vale la pena di raccontare a tutti i casertani. Pietro Caruso (Maddaloni, 10 novembre 1899 – Roma, 22 settembre 1944) è stato un militare e funzionario italiano. Questore di Roma sotto l’occupazione tedesca sino alla liberazione (4 giugno 1944), fu condannato a morte dall’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo. Figlio del professor Cosimo Caruso e di Giuseppina Pisanti, era ultimo di cinque figli. All’età di otto anni fu mandato nel collegio di San Lorenzo ad Aversa. Conseguito il diploma di istituto tecnico nel 1917, frequentò il corso da allievo ufficiale di complemento (tenuto presso la Reggia di Caserta) facendo parte della terza compagnia comandata dal tenente Mercuri.
Acquisito il grado di aspirante, fu assegnato a un reggimento di bersaglieri e partì per il fronte nella metà dell’anno 1918, poco prima del termine della prima guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra prese parte all’impresa di Fiume seguendo Gabriele D’Annunzio. In seguito alla liberazione di Roma e a guerra ancora in corso, si tenne il processo a Pietro Caruso, che durante l’occupazione tedesca era stato questore della città per la Repubblica Sociale Italiana. Celebrato in unica udienza il 21 settembre 1944, il processo si concluse con la condanna a morte di Caruso, motivata tra l’altro dal suo coinvolgimento nella compilazione delle liste dei prigionieri uccisi dai tedeschi nell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. La condanna fu eseguita il giorno successivo tramite fucilazione alla schiena. Caruso fu l’unico tra i responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine condannati a morte a essere giustiziato. Il processo vedeva come ulteriore imputato il segretario particolare di Caruso, Roberto Occhetto, condannato a trent’anni di prigione nonostante l’accusa avesse chiesto anche per lui la pena capitale. Il reato contestato a Caruso era quello di avere in Roma, posteriormente all’8 settembre 1943 e fino al giugno 1944, valendosi delle funzioni di questore assunte alle dipendenze dell’illegale governo fascista repubblichino, prestato aiuto, assistenza e collaborazione al tedesco invasore. La prima, e più grave, fra le imputazioni contenute nell’atto di accusa era di aver consegnato il 24 marzo 1944 al comando militare tedesco 50 detenuti politici e comuni affinché fossero sottoposti ad esecuzione sommaria dal comando stesso quale atto di rappresaglia indiscriminata conseguente all’attentato di via Rasella. Le altre tre imputazioni riguardavano le razzie di cittadini italiani consegnati ai tedeschi per il lavoro obbligatorio, gli arresti effettuati all’Abbazia di San Paolo e l’invio di militi in Germania per frequentare corsi di sabotaggio. La deposizione e il linciaggio di Donato Carretta. La prima udienza avanti all’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo era stata fissata per il 18 settembre 1944, nell’aula magna della Corte di Cassazione; ma quel giorno l’udienza non si poté tenere a causa dei disordini che culminarono nel linciaggio di Donato Carretta, ex direttore del carcere di Regina Coeli. Quando il processo riprese, il 20 settembre, un nutrito servizio d’ordine ebbe lo scopo di evitare ulteriori tumulti. Carretta avrebbe dovuto essere il principale teste contro Pietro Caruso. Agli atti del processo rimase la deposizione da lui resa durante l’istruttoria, in cui, fra l’altro, egli spiegava come fossero stati prelevati dal carcere i prigionieri che il questore Caruso aveva messo a disposizione dei tedeschi per l’esecuzione della rappresaglia. Secondo Carretta, nel pomeriggio del 24 marzo si presentarono al carcere due ufficiali tedeschi che chiesero la consegna di cinquanta prigionieri. Il pubblico accusatore sostenne che Caruso avrebbe dovuto rifiutarsi di eseguire l’ordine dei tedeschi e argomentò che il concorso nel reato da parte di Caruso «anche se il delitto si sarebbe ugualmente compiuto, implica una diretta responsabilità che non può sfuggire alla meritata sanzione. Viceversa, l’avvocato difensore affermò che l’eccidio delle Ardeatine era stato perpetrato interamente dai tedeschi, senza nessun apporto da parte di Caruso. La condanna e l’esecuzione. Il giorno dopo l’udienza, 21 settembre 1944, fu pronunciata la sentenza di morte e immediatamente eseguita a Forte Bravetta mediante fucilazione alla schiena.
(*) Fonte: Walter Veltroni – La Condanna – Rizzoli – 2024