Fittizio
fit-tì-zio
Significato Ingannevole; irreale
Etimologia voce dotta recuperata dal latino ficticius ‘falso, artificiale, simulato’, da fictus, propriamente participio passato di fingere ‘plasmare’, e quindi ‘fingere’.
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«È una prospettiva fittizia, sicuramente non si verificherà niente del genere.»
Questa parola elegantissima ci dà l’occasione di carezzare la figura originaria del finto, e di notare le sfumature che ci offre sul tema.
Il fingere latino è un plasmare, un dare forma — potremmo dire dare una figura, un’effigie, ma ‘figura’ ed ‘effigie’ vengono proprio da qui. È un verbo d’arte, che in particolare parte dall’impastare, dal formare con l’argilla. Ma che già in latino arriva all’inventare, al simulare, al falsificare — proprio quale è il nostro fingere.
Il fittizio è quindi letteralmente il finto, e quindi il falso, l’artificiale, il simulato — ma la sua specificità si fa sentire subito. Il finto ha preso una connotazione spenta, contraffatta: il volo a dorso di drago di cui il bambino mi racconta non è finto, è finta la compassione della persona che dentro gioisce della mia disgrazia. La realtà parallela e accettabile che l’amica tesse nella sua mente non è finta, è finta la cacca che lo studente mette sulla cattedra per fare uno scherzo elegante.
Il fittizio si è avvicinato molto all’immaginario, al frutto della fantasia e dell’invenzione, anche in una prospettiva d’inganno. Certo è stato esplorato in ogni stanza possibile del suo significato, e quindi ha toccato il malfidato, il precario — ma oggi sembra essersi assestato in maniera piuttosto netta, per quanto versatile.
Posso parlare delle testimonianze fittizie che sono state sbugiardate durante il processo, degli scenari fittizi che affrontiamo in maniera impavida figurandoceli sotto la doccia, delle presenze fittizie che scorgiamo fra i rami degli alberi, del contratto fittizio con cui si copre un pagamento illecito, e naturalmente di società fittizie.
Notiamo anche che il fittizio ha sempre un tratto artificiale: l’apparente può essere del tutto spontaneo e naturale, ma il fittizio si tira sempre dietro un ordito, una trama di pensiero, pur senza le pesantezze dell’artefatto.
Così il plasmato dalla terra, tanto concreto eppure primo metro di falsità, che trae un simulacro dall’argilla, riesce a farsi strada nei millenni fino all’irreale — che badiamo bene, può anche avere la sua fantasmatica misura di verità. E questo concorre all’altezza del suo registro.
Certo un grande salto di qualità, la conquista di una grande vetta di pensiero, per essere in fondo solo una figurina.
Arroccare
ar-roc-cà-re (io ar-ròc-co)
Significato Negli scacchi, eseguire l’arrocco, mossa che copre il re con la torre; mettere al sicuro; rinchiudere, rintanare; chiudere
Etimologia da rocco ‘torre degli scacchi’, forse adattamento dall’arabo ruḫḫ, prestito dal persiano ruḫ, col significato di ‘carro da guerra’, forse adattamento del persiano rōkh, elefante che porta sulla schiena una torretta con arcieri.
«Sei sempre arroccato sulle tue posizioni?»
Se mi arrocco sulle mie posizioni, figuratamente mi rinchiudo in un’alta rocca, inaccessibile e inespugnabile. O no?
Be’, no. L’etimologia di questo verbo, arroccare o arroccarsi, parte dal gioco degli scacchi e coinvolge il bastone del del vescovo — mentre con rocche e roccaforti, all’inizio, non c’entra. E se parte col gioco degli scacchi, il cui nome nasce dal persiano šah, ‘re’, possiamo immaginare bene di dover cominciare proprio da un termine persiano.
Il gioco degli scacchi ha corso in lungo e in largo per il mondo; si è portato dietro regole chiare, ma i nomi originari dei pezzi di volta in volta è capitato subissero una sorta di pareidolia verbale: su ogni nuovo lido il nome originario poteva essere orecchiato in maniera diversa, associando al suono una figura militare nota, dell’ordine locale. Lo abbiamo visto con l’alfiere, alfiere da noi e che però era l’arabo al-fil, l’elefante; lo vediamo oggi col rocco.
Il rocco è il nome antico della torre degli scacchi. Certo, è stato evidentemente modellato sopra il profilo della rocca, alta fortezza che domina rilievi dirupati e strategici. Ma viene da altro: alcune fonti segnalano che ‘rocco’ è un adattamento dall’arabo ruḫḫ, prestito dal persiano ruḫ, col significato di ‘carro da guerra’. Altre invece lo dicono derivato diretto del persiano rōkh, l’elefante che porta sulla schiena una torretta con arcieri. Entrambe figure capaci di spaziare portando colpi in lungo e in largo, come è in effetti capace di fare il rocco, la torre degli scacchi, che si muove lungo righe e colonne.
Ora, negli scacchi si muove solo un pezzo alla volta a ogni turno — con un’unica eccezione, che è giusto l’arrocco.
Se lo spazio fra re e torre è libero e sicuro (sgombro da altri pezzi e non attaccato), se il re non si trova sotto scacco (cioè sotto l’attacco di un pezzo nemico), e se non sono stati mossi in precedenza, allora re e torre possono essere mossi simultaneamente con l’arrocco.
Il re si sposta di due caselle (non una, anche questo caso unico) verso la torre, e la torre gli si pone sul fianco opposto, verso il centro della scacchiera. Esistono due tipi di arrocchi, corto sul lato del re e lungo sul lato della regina (segnalati rispettivamente nelle trascrizioni delle mosse come 0-0 e 0-0-0), ma non impantaniamoci in considerazioni tattiche riguardo alle differenze fra questi due arrocchi, per quanto gagliarde. Diciamo solo quello che ci serve a fini linguistici: l’arrocco ha l’effetto di metter il re in una posizione coperta, protetta, chiusa, dietro ai pedoni rimasti a lato e spalleggiato dalla torre. È da questo risultato strategico che scaturiscono i significati estesi dell’arroccare e dell’arroccarsi.
L’arroccare è un mettere al sicuro con sfumature che hanno una profonda intelligenza della situazione: qualcuno si leva dalla mischia e dal rischio, si rintana… si rinchiude.
In effetti anche negli scacchi l’arrocco può essere pericoloso: un attacco ben congegnato e il re fa la fine del topo — che sarebbe più facile scongiurare in campo aperto. Così possiamo parlare concretamente di come nella tal battaglia i difensori si arroccarono nel castello sul fiume, impedendo il passo dal ponte; possiamo parlare di come la celebrità che non vuole rilasciare dichiarazioni sullo scandalo si sia arroccata in casa; possiamo parlare di come l’amica incalzata si arrocchi nel silenzio; possiamo parlare di come l’amministrazione sia arroccata su un’idea retriva e fallimentare.
Per quanto quella inscenata dagli scacchi sia una battaglia, l’arroccarsi è meno battagliero del trincerarsi — l’immagine è più mediata, meno direttamente guerresca. E adombra un genere di abbandono della battaglia, una chiusura che rifiuta il confronto, che allontana. Perché il gioco di echi si conserva, e il rocco non può non evocare anche la distanza soprelevata e inaccessibile della rocca — mentre la trincea ha l’aria di una bellicosa sfida da raccogliere. E un discorso analogo si potrebbe fare sull’asserragliarsi, che ha il coltello fra i denti, mentre il barricarsi ha un che di fortunoso, il rintanarsi dei tratti perfino beati.
Una parola di intensa efficacia, che intreccia forza e debolezza dell’acquisto di una forte posizione defilata, scaturendo da nomi antichi per antichi pezzi di un antico gioco.
Un’ultima nota: il rocco è anche il bastone, il pastorale del vescovo. La sua curva può avere sulla sommità una croce, che sormonta la figura… di una torre.