Valgoritmo

val-go-rìt-mo

Significato Algoritmo storto dall’esito imprevedibile

Etimologia composto dal latino valgus, ‘storto all’infuori’ e dal latino medievale algorithmus, dal nome d’origine del matematico arabo del 9° secolo Al-Khwarizmi.

  • «L’investimento è determinato da un valgoritmo; magari perdi tutto, ma forse è ciò di cui davvero avevi bisogno.»

Mai avrebbe immaginato Al-Khwarizmi, nella sua modesta casetta in Corasmia, non lontana dal lago d’Aral, quanto sarebbe cambiato il mondo per effetto di quell’idea  che gli era passata per la testa. Durante una gara clandestina di , sotto gli effetti di un potente afgano nero, involontariamente Al-Khwarizmi si lasciò scappar detto che qualsiasi comportamento umano, e perfino pensiero, può essere trasformato in una sequenza di calcolo dall’esito prevedibile. I matematici intorno lo presero in parola e si tuffarono in quella direzione. In capo a qualche secolo, l’evoluzione naturale della specie portò alcuni matematici a mutarsi in informatici. La frittata era fatta. A quel punto si era bell’e capito che si arrivava all’intelligenza artificiale.

Oggi, per colpa dell’afgano nero di Al-Khwarizmi, le reti neurali hanno soppiantato quelle della spesa e così il frigo ordina le primizie di stagione al verduraio. Le macchine  ci trovano fastidiosamente inetti, e dunque accendono da sole i tergicristalli e ci tolgono il volante dalle mani se non gradiscono cambiare corsia. Se poi ci vien voglia di mettere in piedi un discorso o intestarci un’idea, la chiediamo a una chatbot e, se ci va di parlare con qualcuno, sempre la chatbot, che è lì per quello.

Fortunatamente, i lombi di Al-Khwarizmi si sono mostrati fertili quasi quanto la sua mente. Dalle inospitali pianure dell’Uzbekistan, uno dei suoi discendenti, Mikhayil Quasìmov, informatico esperto in matematica comportamentale, ha lanciato in rete un potente antidoto contro il  innescato dal trisavolo.

È nato così nel 2021 il valgoritmo, l’algoritmo a misura d’uomo,  e , che è capace di introdurre in qualunque modello computazionale quella che Quasìmov chiama la stortura analgebrica, cioè una caparbia fascinazione per il lato oscuro dell’.
Molti paesi oggi hanno compreso e adottato i valgoritmi. In Giappone, ad esempio, la movimentazione passeggeri dell’aeroporto di Tokyo è governata da un valgoritmo. Ogni tanto, non si sa perché, alcuni passeggeri internazionali vengono lasciati a piedi per splendida casualità e si è scoperto che qualcuno di loro oggi vive in Giappone e scrive haiku meravigliosi.

Milioni di utenti ogni giorno consultano Valgochat, l’intelligenza deviata artificiale di Quasìmov, che, in una frazione di secondo, è in grado di rispondere a  a qualunque  gli venga posta, ma anche, se gli gira, confessarti, nella stessa quantità di tempo, che non ha la minima idea di cosa tu voglia da lui, farti arrivare a casa un gin tonic o mandarti a quel paese.
Un gruppo di studiosi dell’università di Uppsala ha condotto una  ricerca sui risvolti sociali di Valgochat, giungendo alle conclusioni che hanno fruttato a Mikhayl Quasìmov la candidatura al premio Nobel per la pace nel 2023.
Il 73% degli intervistati ha, infatti, apertamente dichiarato che, una o più volte, ha finito per infastidirsi talmente tanto da piantarla là con Valgochat, scriversi da solo quello che cercava, leggersi un libro o andare a far

si un bel giro.

Australopiteco

 Le parole dei dinosauri

au-stra-lo-pi-tè-co

Significato Nome comune degli ominidi fossili del genere Australopithecus

Etimologia parola composta dal latino australis, in riferimento all’emisfero meridionale della Terra, e dal greco pithekos ‘scimmia’: ‘scimmia del sud’.

  • «L’australopiteco soprannominato ‘Lucy’ prese il nome da una canzone dei Beatles.»

La storia dell’umanità a partire dai suoi antenati  è un complesso ed eterogeneo  di testimonianze fossili distribuite nell’ultima mezza dozzina di milioni di anni. Molto più breve, ma non meno complessa e disomogenea, è la vicenda di come l’uomo moderno abbia realizzato l’esistenza e cercato di decifrare il significato di quella  storia, scritta nei fossili.

L’origine dell’uomo ha la  di essere l’unico ambito della  in cui il soggetto osservante e l’oggetto osservato coincidono, e ciò carica pesantemente, con innumerevoli conseguenze, quella che dovrebbe essere niente più che l’ indagine su un gruppo di mammiferi tra i tanti che hanno popolato questo pianeta. Conseguenze che vanno ben oltre la scienza geologica. A noi non basta ricostruire la storia umana, ma pretendiamo di darle un significato speciale, un senso superiore, un fine ed una morale. Pertanto, i fossili umani sono, volenti o , molto più che semplici , ma ci paiono alfieri predestinati di un’ che conduce a noi. Persino il nome che attribuiamo a questi fossili non è più solamente un termine tecnico, puramente descrittivo o identificativo, ma è caricato di significati,  ed implica, rimanda e connota la visione della vita, lo spirito del tempo, la cornice  ed ideologica di chi lo .

Un caso esemplare risale ad un secolo fa. A quel tempo, i pochi resti fossili umani conosciuti erano sostanzialmente di tipo ‘moderno’, ovvero molto simili alla specie attuale, e risalenti a non più di qualche decina di migliaia di anni fa. Cosa fosse esistito prima, ad esempio un milione di anni fa, era del tutto ipotetico. La visione allora dominante sull’evoluzione umana riteneva che il tratto più distintivo della nostra stirpe, che la differenziò dalle altre scimmie, fosse l’espansione del cervello. Secondo quella ipotesi, in origine gli antenati dell’uomo erano scimmie quadrupedi, fisicamente indistinguibili dalle grandi scimmie odierne,  che per avere il cervello di dimensioni molto maggiori, e quindi un’intelligenza superiore. Guidato dal suo intelletto più elevato, solo in seguito l’antico scimmione nostro antenato si sollevò sulle sole gambe, assumendo la stazione eretta e acquisendo l’uso delle mani artefici di strumenti. Questo scenario, tanto popolare quanto del tutto ipotetico, privo di prove e basato solo sull’ desiderio di elevare il cervello a primo motore del progresso umano, fu messo in crisi nel 1924 da una scoperta in Sud Africa. Fu rinvenuto il cranio fossile di un primate  da un cervello ridotto, ancora di tipo scimmiesco, ma dotato già degli adattamenti chiave che permettono la condizione bipede ed eretta tipica di noi umani. In pratica, questo fossile, vecchio di due milioni di anni, dimostrava che la storia umana era iniziata in modo completamente diverso da come ritenuto fino ad allora: l’andatura bipede era comparsa per prima, era stata la prima innovazione che ci aveva differenziato dalle altre scimmie, e solo dopo, molto dopo, il cervello avrebbe iniziato ad espandere in dimensioni e . A questo fossile, trovato in Sud Africa, fu dato il nome di Australopiteco: la ‘scimmia del sud’.

Il termine ‘scimmia’ non fu scelto a caso, ma sottolineava l’incertezza iniziale degli studiosi nel considerare questa creatura un legittimo precursore dell’uomo. L’australopiteco smentiva così platealmente lo scenario evolutivo preferito a quel tempo, che parve saggio stemperarne la carica rivoluzionaria evitando di battezzarlo con nomi che rimandassero esplicitamente all’uomo (come ‘australantropo’, con l’elemento anthropos allora in  per comporre i nomi dei nostri antenati). Per molti studiosi, la ‘scimmia del sud’ era solamente un  scimpanzé che camminava su due gambe, e con quel piccolo cervello non poteva in alcun modo essere legata alle nostre origini.

Solo pochi ricercatori capirono immediatamente la portata rivoluzionaria di quella scoperta. Occorrerà la scoperta di un altro australopiteco, questa volta in Etiopia, mezzo secolo dopo, soprannominato ‘Lucy’, per sancire definitivamente il valore del primo fossile trovato nel 1924. Oggi, tutti sono concordi che le ‘scimmie del sud’ siano nostri precursori, antichi  pienamente legittimati ad essere annoverati tra i nostri antenati.

Il nome ‘australopiteco’ rimane come  per ricordarci che le prove dirette raccolte dagli strati della Terra hanno l’ultima parola per stabilire se le nostre ipotesi siano valide descrizioni della realtà oppure siano la  dei nostri pregiudizi più profondi.

Pastiche

 Le parole della musica

pastìsc

Significato Opera d’arte, letteraria o musicale che imita intenzionalmente lo stile di altre opere o di un altro autore; opera che mescola parti di altre opere

Etimologia dal francese pastiche, ‘pasticcio’, a sua volta prestito della parola italiana pasticcio.

  • «È una trovata molto riuscita, un pastiche dotto che mescola opere e registri.»

Paste, pastelli e pasticci erano alcune delle prelibatezze gustate nell’Italia rinascimentale. Leccornie dolci o più spesso salate – in greco pastá deriva da pastós ‘cosparso di sale’ – erano costituite da un impasto malleabile e farcito, il cui nome derivava dal latino tardo pastīcium.

La Francia registra la parola pastiche nel 1699, calco dell’italiano pastici (sic), e il termine acquisisce senso figurato; i pastiches sono quadri rimaneggiati o che imitano lo stile di qualche artista, anche con accezione negativa, d’imbroglio, come afferma Jean-Baptiste Du Bos nelle Reflexions Critiques del 1719. Questo significato si allarga facilmente alle altre arti.

Anche il pasticcio italiano si estenderà figuratamente a pastrocchio, confusione, guaio; come ultima opzione toccherà le bassezze morali della truffa. Non c’è bisogno di spiegare chi sia oggi il pasticciere, anche se nel gergo teatrale del passato si chiamava così proprio il capocomico specializzato in ‘pasticci’.

Verso la fine dell’Ottocento il termine francese pastiche torna in Italia affiancando il nativo pasticcio. È destinato appunto ad argomenti d’arte, di letteratura e di musica; se nello Stivale si continua a usare la parola francese è proprio per evitare promiscuità semantiche con la cucina.

Un pastiche di ricordi della città di Venezia del pittore Thomas Moran, 1898
Thomas Moran, 1898, Venezia, un pastiche di ricordi della città

In musica il pastiche (ovviamente, sarebbe ancora lecito l’uso di pasticcio) usualmente indica il contributo di autori diversi che insieme creano una composizione, anche se non si conoscono. All’inizio del 1852, Charles Gounod fu l’artefice di un notissimo pastiche componendo una melodia sovrapponibile al primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach, che divenne la sua celebre Ave Maria. Per ovvi motivi cronologici, Gounod agì all’insaputa di Bach.

Invece, con piena consapevolezza, i tre musicisti Filippo Amadei, Giovanni Bononcini e George Frideric Händel composero l’opera Muzio Scevola (1721), realizzandone rispettivamente il primo, il secondo e il terzo atto,  comprese.

Non basta. All’epoca capitava di dover rimpiazzare rapidamente un cantante in un’opera; si sostituiva allora qualche aria originale con altre che il nuovo interprete già conosceva o che erano più adatte alla sua vocalità. Inoltre, vigevano leggi e usi differenti da un luogo all’altro; pensiamo a una compagnia in tournée, che rappresentava la stessa opera nella repubblica di Venezia, nella Roma papale e nel viceregno di Napoli. In casi simili il pasticcio/pastiche doveva essere confezionato velocemente, sia che l’autore fosse il compositore, il  o (perfino) l’impresario.

Carlo Goldoni usò il verbo impasticciare raccontando che nel 1735 Antonio Vivaldi aveva bisogno di «un poeta per accomodare o impasticciare il dramma a suo gusto, per mettervi bene o male le Arie, che [la cantante ingaggiata] aveva altre volte cantate».

Si chiama pastiche anche un pezzo che viene composto intenzionalmente nello stile di un musicista o di un periodo storico diverso da quello dell’autore, magari con l’intento di offrire un omaggio a un collega. A proposito non si può non ricordare il neoclassico Pulcinella di Stravinskij, ispirato a Pergolesi e ad altri compositori del passato.

Solo recentemente il diritto d’autore ha incluso il pastiche nelle eccezioni previste dal regolamento. Del resto, le differenze e le affinità con altre forme musicali sono sottili: la  nella musica colta utilizza elementi tematici preesistenti; l’ destina una composizione a organici strumentali diversi da quelli originali; il  alterna vari brani in un’unica composizione; il  riveste una composizione musicale con un testo nuovo; nel pop la cover ripropone una canzone con un nuovo arrangiamento; poi c’è la … forse Gadda avrebbe detto: che pasticciaccio brutto! E meno male che non siamo a via Merulana.