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lunedì 7 aprile 2025
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Il caos dazi e l’Europa indecisa, tutta colpa dell’élite, morte a Gaza, Stranamore è tornato (e anche Pamela Anderson) |
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di Alessandro Trocino
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Oggi in Rassegna un articolo tutto da leggere di Federico Fubini, un commento puntuale di Ferruccio de Bortoli sui dazi, una riflessione sulle élite (nuovo alibi populista), un’analisi geopolitica su Russia e guerra di Massimo Nava e una sul Medio Oriente di Gianluca Mercuri. Eccoci, con il sommario completo.
L’Europa e i dazi Per Federico Fubini, Donald Trump è ormai «un morto che cammina», anche se forse non lo sa. I dazi – scrive nella sua newsletter «Whatever It Takes» – porteranno alla recessione negli Stati Uniti. Canada e Cina lo hanno capito, e ne stanno approfittando. E l’Europa?
Di chi è la colpa se ci sono i dazi? Siamo forse dei parassiti, noi europei, come dice J. D. Vance? E di è chi è la responsabilità se l’Italia si è impoverita? Ferruccio de Bortoli analizza e smonta la narrazione di «un mercato manipolato da chissà quale élite mondiale».
Capri espiatori del populismo E a proposito delle conclusioni di de Bortoli, è ormai un vezzo comune a populisti e sovranisti quello di trovare in qualche «élite» (politica, economica, burocratica, tecnologica) il responsabile dei nostri guai. Una volta era «colpa dello Stato», poi è stato il turno di Bilderberg, ora delle élite.
Morte a Gaza L’esecuzione di 15 membi di una squadra medica a Gaza da parte delle truppe israeliane ha (forse) riacceso i riflettori sui massacri nella Striscia. E la rivolta dei clan palestinesi contro Hamas ha riaperto il dibattito sulle presunte responsabilità della popolazione, un argomento a lungo sostenuto dagli israeliani. Ma che, scrive Gianluca, si smonta da solo.
Dottor Stranamore Massimo Nava descrive la fine della globalizzazione, la divaricazione Europa/Usa, il neo isolazionismo americano, il riarmo dell’Europa, la guerra commerciale senza più regole, il rischio di una recessione mondiale. E ne conclude che siamo in un clima non molto dissimile, ma a parti invertite, da quello che ha ispirato il celebre film di Stanley Kubrick.
La Cinebussola Finora era nota soprattutto come bagnina di «Baywatch». Ora però Pamela Anderson si fa notare nel film di Gia Coppola «The last showgirl». Scrive Paolo Baldini: «Qui è bravissima: si spende, tiene in pugno il film, è autentica, sfumata, persino simpatica».
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Rassegna economica |
Trump ha dichiarato la guerra economica mondiale (e la sta già perdendo). Ma l’Europa che fa? |
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La settimana si apre sotto auspici tutt’altro che positivi per Donald Trump. I mercati finanziari, ma non solo, indicano che il muro tariffario più alto mai alzato dagli Stati Uniti nell’ultimo secolo e oltre (come mostra il grafico sotto) sia stato un passo troppo audace. La società americana per prima non sembra in grado di sostenerlo. Intanto la Cina sta prendendo contromisure che vanno ben oltre le ritorsioni già annunciate con prelievi doganali al 34% sui prodotti americani.Emergono segni che la Casa Bianca potrebbe essere diretta verso una sconfitta, nella sua scommessa protezionista. Quest’ultima non sarà facile da ritirare, soprattutto dopo aver alzato tanto la posta. Ma la debolezza crescente della posizione di Trump dovrebbe entrare nel calcolo, ora che l’Europa e l’Italia si chiedono se ribellarsi oppure subire: se rispondere con durezza o cercare soprattutto di evitare un’escalation.
Aliquota tariffaria media statunitense
Le due Americhe
Siamo arrivati qua perché esistono, naturalmente, almeno due Americhe: la prima convinta di avere poco a che fare e molto da perdere con la globalizzazione; la seconda invece strettamente legata ad essa per la propria crescente ricchezza di questi anni.
La prima è l’America che ha subito sulla propria pelle i costi di oltre quarant’anni di crescenti deficit commerciali, soprattutto nei prodotti manufatturieri. L’economista Richard Koo del Nomura Research Institute ha mostrato nel workshop Teha di Cernobbio dei giorni scorsi come, dal 1980 al 2023, gli Stati Uniti abbiano accumulato un rosso negli scambi di beni con l’estero pari a oltre il 150% del loro prodotto interno lordo. Messi uno sull’altro, quei disavanzi commerciali valgono qualcosa come 42 mila miliardi in dollari di oggi. Fuori dalle cifre iperboliche, queste sono le delocalizzazioni verso la Cina e verso il Messico degli impianti dell’acciaio o dell’auto, la deindustrializzazione della Rust Belt e di un’infinità di altre aree produttive, la perdita di dignità di coloro che non hanno un diploma di college. In altri termini, come ormai noto, questi sono gli elettori di Trump. Sono il 38% degli americani che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e non hanno altro che debiti: sulla casa, sulla carta di credito o per aver mandato il figlio al college. Sono coloro che fanno sì che per le famiglie negli Stati Uniti il costo sugli interessi sui debiti siano pari al 10% del reddito disponibile, secondo il fondo d’investimento Citadel. Ogni dieci dollari in tasca, uno va a pagare solo gli interessi sui debiti contratti per andare avanti. Ma questa è una media impropria su tutta la popolazione: per quel 38% che non ha risparmi da investire in borsa, la quota di interessi sui debiti pesa sul reddito disponibile sicuramente molto di più di un solo dollaro ogni dieci. Queste persone si devono pagare case che dal 1980 sono rincarate del 96% in termini reali (cioè eliminato l’effetto-inflazione) – secondo le stime di Richard Koo – mentre i loro salari da allora sono cresciuti di meno del 15%.
A questa parte dell’America non importa se gli indici di Wall Street crollano a causa dei dazi, perché comunque non possiede azioni di Amazon, Microsoft, Tesla o di qualunque altra società. Questa America indebitata e senza risparmi apprezza invece un altro aspetto finanziario legato a Trump: da quando è tornato lui alla Casa Bianca il costo dei loro debiti è sceso, perché è sceso il rendimento dei titoli del Tesoro Usa; questo sembrava avviato al 5% sulle scadenze decennali quando Trump si preparava alla cerimonia di giuramento a gennaio scorso, ma ora è sotto al 4%.
Quel che sfugge, è che questo calo del costo del debito non è dovuto al risanamento dei conti. È dovuto al clima recessivo instauratosi nel Paese.
Così, ciò che ha fatto Trump alzando un muro sul resto del mondo sembra essere fatto su misura per questo ceto tagliato fuori da anche solo un minimo spicchio di compartecipazione in Wall Street. Trump sta cercando di spingere le imprese industriali di tutto il mondo a rilocarsi negli Stati Uniti pur di evitare i dazi; sta cercando di ridurre i deficit commerciali e di ridare un lavoro dignitoso a chi lo aveva perduto. Vedremo meglio sotto che non è il modo giusto, ma questo 38% di americani diseredati apprezzano perché chi di loro ha votato, lo ha fatto per quello.
Chi ha quote a Wall Street
Poi c’è l’altra America: il 62% della popolazione che detiene azioni quotate a Wall Street. Sono 162 milioni di americani. Dal giorno del giuramento di Trump, secondo i miei calcoli, queste persone hanno perso in media 47.500 dollari di risparmi per ciascuna a causa dei crolli delle borse. Questo vale anche per le molte decine di milioni di americani che sono esposti agli indici azionari solo perché i loro fondi pensione sono in gran parte investiti su di essi.
Va detto che le medie in questo caso sono insignificanti, perché il 93% di quelle azioni quotate a Wall Street e detenute da investitori in America (per un valore di circa 48 mila miliardi di dollari ai suoi massimi) si trova fra le mani di appena un decimo della popolazione. La restante metà circa dei residenti degli Stati Uniti, che hanno investimenti in borsa, controlla in tutto appena il 7% di quei 48 mila miliardi di dollari.
Da notare che questa America con azioni nei conti di risparmio – soprattutto il 10% più ricco – a differenza dei diseredati non ha subito alcun danno dai deficit commerciali sui beni: la deindustrializzazione non li riguarda perché loro sono medici, avvocati, persone di finanza, tecnologia o università. Al contrario loro hanno tratto vantaggio dal crescente surplus degli Stati Uniti nei servizi digitali con il resto del mondo (arrivato a 128 miliardi di euro con la zona euro nel 2023). Queste persone infatti hanno azioni di Amazon, Nvidia, Microsoft, Facebook-Meta o Google-Alphabet o magari lavorano per quei colossi, che in parte importante realizzano i loro fatturati all’estero.
Non stupisce che queste due Americhe – quella con debiti in banca e quella con azioni di Wall Street – vedano il resto del mondo in maniera totalmente diversa. Alla prima America non interessa, alla seconda sì. La prima America opera soprattutto nei servizi locali non specializzati ed è protagonista della grande economia più chiusa al mondo: il commercio estero per gli Stati Uniti vale appena il 25% del Pil, contro il 66% dell’Italia, il 45% del Giappone e il 37% della Cina. La seconda America dipende invece per la propria ricchezza dalla fortuna delle società quotate a Wall Street, dove quattro dollari ogni dieci dei gruppi dello S&P500 viene guadagnato all’estero (per le società tecnologiche è ancora di più).
In sostanza in America coesistono due mondi diversi, con percezioni opposte. Nell’alzare il muro dei dazi, Trump ha voluto fare gli interessi della parte più debole: le vittime e non i vincenti della globalizzazione.
L’obiettivo industriale
Ci provava anche Joe Biden, ma c’era una differenza: il presidente democratico cercava di pagare la reindustrializzazione del Paese con il denaro pubblico americano, finanziando grandi piani sussidiati da crediti d’imposta come l’Inflation Reduction Act sulle tecnologie verdi o il Chips Act sui semiconduttori; il presidente repubblicano invece cerca di far pagare la reindustrializzazione americana al resto del mondo, imponendo i suoi dazi.
Non può funzionare. Fallirà perché una recessione targata Trump è quasi inevitabile, se il presidente non fa marcia indietro. Perché quasi inevitabile? Perché la prima America – la più povera – sarà duramente colpita dall’inflazione sui beni importati e resi più cari dai dazi, dunque taglierà i suoi consumi. Anche la seconda America che è investita a Wall Street verrà colpita dall’inflazione, ma intanto lo è già da un crollo medio della sua ricchezza patrimoniale – appunto – di 47.500 dollari a testa fino a questo momento; di conseguenza, anche la seconda America stringerà sicuramente la cinghia.
Ma i consumi rappresentano ben oltre due terzi dell’economia americana. Una loro recessione non può che portare dritti dritti a una recessione americana a tutto tondo, oltre che a una pessima notizia per il resto del mondo: il consumatore americano, da solo, fa girare quasi un quinto dell’intera economia internazionale. Dunque le borse cadrebbero ancora, aggravando l’effetto recessivo.
Scommessa contro il tycoon
Tutto questo mi fa pensare che Trump in questo momento sia politicamente un morto che cammina, anche se magari non lo sa. Non si può certo darlo per perso, perché ha già dimostrato di sapersi inventare ben altre resurrezioni. Ma altri Paesi hanno fiutato la sua debolezza e stanno scommettendo su di essa. Il Canada di Mark Carney, malgrado i grandi rischi, ha preso la strada della massima intransigenza nelle ritorsioni e ne sta ricavando già dei risultati. E la Cina, che ormai vende da tempo la grandissima parte dei suoi prodotti fuori dagli Stati Uniti, non si è limitata a imporre i suoi contro-dazi al 34%. Giovedì scorso la banca centrale di Pechino ha annunciato all’improvviso che allarga il suo sistema di pagamenti internazionali imperniato sullo yuan digitale ai dieci Paesi dell’Asean (il gruppo di potenze commerciali asiatiche) e a sei Paesi in Medio Oriente. Di fatto per la prima volta Pechino disintermedia il sistema di pagamenti Swift a regia americana – che aveva dominato il mondo fin qui – grazie un sistema digitale molto più rapido ed efficiente. Copre già il 38% degli scambi mondiali, mentre gli Stati Uniti si isolano.
Di fatto la Cina ha chiamato il bluff di Trump e così ha fatto il canadese Carney. La Casa Bianca è in enorme difficoltà e dovrà probabilmente cedere, almeno di un bel po’. Solo in Europa e soprattutto in Italia sembriamo non averlo capito e preferiamo fare il meno possibile.
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Frammenti |
Dazi, l’affannosa corsa a dare la colpa a qualcun altro |
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Chi ha simpatia per Trump stenta a dargli torto. Quasi quasi è disposto pure a pagarne un prezzo. Sì, sotto sotto ha ragione, siamo stati dei parassiti, ne abbiamo approfittato. «L’Europa ci deve molti soldi», ha detto questa notte il presidente americano. La bilancia dei pagamenti (merci e servizi) tra Unione europea e Stati Uniti è sostanzialmente in equilibrio. Senza parlare di tutti i risparmi europei (300 miliardi) che affluiscono ogni anno, grazie anche ai buoni rendimenti offerti, su società finanziarie americane.
Nel 2008 il prodotto interno lordo delle due aree era sostanzialmente uguale. Oggi gli Stati Uniti valgono una volta e mezzo l’Unione europea che nel frattempo ha perduto però il Regno Unito. Ci siamo impoveriti noi, e gli italiani di più. Ed è inutile dare la colpa agli altri. Le colpe sono nostre, europee e italiane. Il reddito pro capite di uno degli Stati americani più poveri (Mississippi) è superiore a quello francese. Certo le medie sono ingannevoli specie in un Paese con forti disuguaglianze come gli Stati Uniti.
Che volete che siano poi un po’ di dazi? Se i mercati si rivoltano, come sta accadendo purtroppo in queste ore, è colpa dei mercati che sono manipolati da chissà quale élite mondiale, poteri forti, occulti e via di seguito. Oltre la metà dei valori è trattata sulle piazze finanziarie americane che mostrano di non vedere così vicina l’età dell’oro promessa da Trump. Sono manipolati anche loro da chissà quale potere sconosciuto? E perché non pensiamo di abbattere molte delle barriere interne all’Unione europea? Giusto.
Secondo il Fondo monetario sono equivalenti a dazi del 45 per cento sulla manifattura e del 110 per cento sui servizi. Forza tiriamoli giù. Molte di queste regole sono a protezione per esempio della sicurezza alimentare. E della stessa sovranità più volte sbandierata. Poi però non si possono difendere contemporaneamente le categorie minacciate da processi di liberalizzazione. Negli scorsi mesi è morto l’ex commissario europeo, l’olandese Frits Bolkestein, autore della direttiva che toglieva molte barriere interne sui servizi, la più avversata e odiata da molti sovranisti. Mai avremmo pensato che avrebbe avuto un omaggio postumo dai suoi principali nemici. Succede anche questo.
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Rassegna internazionale |
Una volta era «colpa dello Stato», ora è «colpa delle élite» |
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Una volta era «colpa dello Stato», ora è «colpa delle élite». Il nuovo refrain qualunquista (nelle varianti populista e sovranista) attribuisce la responsabità di ogni nefandezza a questa fantomatica internazionale delle élite, che dominerebbe il mondo, creando – come escrescenze patologiche – nuove cellule impazzite, con la funzione di alimentare il caos e consentire a ristrette classi di «eletti» (ma spesso non eletti da nessuno) di dominare incontrastate, in un disegno raffinatissimo e misterioso. Al centro dell’internazionale, le temibili «élite europee», che assumono di volta in volta le sembianze di governanti smidollati e parassiti o di avidi e cinici euroburocrati.
Nella notte delle élite tutti i governanti sono neri, velo cromatico che serve opportunamente a occultare i veri poteri bigi e tossici. E così se Putin invade l’Ucraina, è colpa delle élite democratiche e occidentali che hanno abbaiato alle porte di Mosca. Se Kiev prova a difendersi, e noi con lei, è colpa di quelle europee che hanno illuso l’Ucraina di poter vincere e intanto fanno montagne di euro con l’industria delle armi. Se Trump devasta il mondo con i suoi micidiali dazi, è ancora colpa delle élite europee, che hanno avidamente svuotato la bilancia commerciale americana. Se Marine Le Pen viene condannata per frode, eccola ergersi a paladina dei poveri contro le élite di Bruxelles. Chi ha un minimo di memoria, ricorderà gli strali dei 5 Stelle contro l’Europa, un euroscettismo che nella Lega è diventato poi eurofobia.
Basta leggere Elena Basile sul Fatto, che naturalmente non attribuisce la responsabilità dell’aggressione dell’Ucraina a Putin ma all’Europa e alle élite: «La guerra è senza obiettivi strategici, è pura tattica per aumentare i profitti delle lobby delle armi e per risolvere le sorti di una Europa in stagnazione economica a vantaggio della grande industria e della finanza, di una élite transnazionale contro precari, immigrati, artigianato, piccola agricoltura e piccola impresa, operai, dipendenti pubblici, ceto medio impoverito insomma contro la gran parte delle classi lavoratrici». Sempre sul Fatto, Gabriele Guzzi: «Nei dazi di Trump si specchia la miseria delle élite europee». Peter Gomez – l’altra metà del cielo, con Marcello Foa, della simbiotica crasi radiofonica di populismo e sovranismo – oggi spiegava a «Giù la maschera» che il problema vero è «la crisi delle élite europee». Ferruccio de Bortoli analizzava con razionalità ed equilibrio responsabilità e conseguenze, ma loro ricascavano sempre su quello, sul nuovo feticcio simbolico del populismo (insieme al mainstream).
Bellissimo il monologo del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara al Giornale, che prima definisce il sovranismo come «l’affermazione della democrazia contro l’autocrazia delle élite». Poi fa un elenchino perfetto: «L’élite dei burocrati che spadroneggia a Bruxelles. L’élite di chi vorrebbe i giudici superiori alle leggi, e rinvio in proposito a quello che scriveva Pietro Verri. L’élite tecnocratica che ha portato l’Europa sui binari del declino. L’élite centralista che soffoca i territori».
Un concetto sfuggente – fa parte di quelle parole «ameba», il cui abuso le svuota di significato – che si sposa frequentemente con l’astio contro globalismo e cosmopolitismo. Il nazionalismo serve anche a questo, a circoscrivere simbolicamente il raggio del potere, a rendercelo più vicino e leggibile, meno vagamente elitario. Le chiusure, il sovranismo, i dazi, il protezionismo sono ideologie che dicono al popolo: ti proteggiamo noi dall’avidità della minacciosa internazionale elitaria, che è là fuori da qualche parte.
In un mondo complesso, quello delle élite è un concetto chiave per individuare un capro espiatorio, seguendo la lezione di René Girard. Il concetto assolve pienamente al ruolo: è abbastanza elastico, impalpabile, mutevole e rimanda a un potere altezzoso, misterioso, arrogante, perfetto per essere odiato trasversalmente da destra e da sinistra. Ideale per non identificare responsabilità, per confondere le acque, mischiare i piani, mettere sullo stesso piano regimi dispotici e liberaldemocrazie, sovranità popolare e populismi, libertà di espressione e diritti a finti «free speech».
È più facile sparare nel mucchio, denunciare «la crisi», anzi il «fallimento» delle élite del continente, trascurando le responsabilità di vecchi e nuovi autocrati. Tramontata l’era del complottismo vecchia maniera – nel quale si additava il gruppo Bilderberg (a proposito, che fine ha fatto?), la Trilateral e George Soros – ora c’è un nuovo bersaglio, ancora più generico.
Purtroppo, a causa delle resistenze ipocrite delle élite progressiste, non si può più attribuire il caos del mondo a un complotto demo-pluto-giudaico. Ma non è detto che presto non si torni al punto di partenza.
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Rassegna mediorientale |
I massacri di Gaza e il «risveglio» anti Hamas |
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Un massacro compiuto nella notte tra il 22 e il 23 marzo potrebbe (dovrebbe) riaccendere i riflettori internazionali su Gaza: 15 paramedici uccisi a sangue freddo dai soldati israeliani e gettati in una fossa comune sulla strada per Tel al-Sultan, sobborgo di Rafah.
I massacri di civili sono ripresi con cadenza quotidiana dopo la rottura della tregua, nell’indifferenza internazionale. Qui stavolta c’è un video, diffuso tre giorni fa dal New York Times, che smentisce la versione dell’esercito, ribadita a Amos Harel, uno dei più seri analisti militari israeliani, da fonti della divisione responsabile di quell’area: «I soldati avevano sentito che le loro vite erano in pericolo; controllando l’identità della maggior parte dei morti è emerso che erano associati a Hamas e che Hamas usa sistematicamente i veicoli dei soccorsi per spostare uomini armati». Il mucchio di cadaveri trovato sotto la sabbia sarebbe una pratica abituale utilizzata in questa guerra dall’Idf (Israeli Defence Forces, l’esercito dello Stato ebraico) per evitare che siano divorati dai cani randagi: poi di solito informa i palestinesi, attraverso le agenzie internazionali, sul luogo della sepoltura. Ma secondo le ricostruzioni, confermate dal video proveniente dal cellulare di una delle vittime, le ambulanze avevano i soliti contrassegni con le luci lampeggianti, e il personale medico è stato vittima di un’esecuzione, con colpi sparati a bruciapelo e alcuni dei cadaveri trovati con le mani ammanettate.
Harel premette che «le affermazioni dei palestinesi dovrebbero essere trattate con cautela, dato che Hamas ha interesse a trasformare ogni incidente con vittime in un caso internazionale, con l’obiettivo di promuovere azioni legali contro Israele». In questo caso, però, «anche fonti dell’esercito di alto livello hanno espresso ulteriori dubbi sulla versione fornita dalla divisione di Gaza», e la tesi del massacro compiuto deliberatamente è sempre più evidente.
Lo Stato Maggiore dell’Idf ha affidato l’inchiesta a un team ad hoc. Ne è emerso che le truppe che hanno sparato contro la squadra di emergenza appartengono alla Brigata Golani (la leggendaria unità di fanteria che opera fin dalla nascita dello Stato), ma stava operando sotto il comando di una brigata di riserva. Qualche giorno fa, rivela Harel, «è stato trasmesso un video che mostrava il comandante di un battaglione parlare ai suoi soldati alla vigilia del loro ritorno a Gaza. “Chiunque incontriate lì è un nemico. Se identificate qualcuno, eliminatelo”, ha detto ai suoi soldati. Le sue parole riflettono regole di ingaggio ampie e permissive».
Sono regoledi questo tipo, spiega l’analista, che «hanno portato all’uccisione di molti civili palestinesi nella Striscia» (e nel dicembre ’23, anche di tre ostaggi israeliani che erano riusciti a fuggire ma sono stati colpiti dal fuoco amico).
Sono più di mille i medici e paramedici uccisi dagli israeliani in questa guerra. Il bilancio delle vittime ha superato i 50 mila, secondo il ministero della Sanità controllato da Hamas, ma secondo i calcoli di uno studio britannico condotto su testimonianze delle organizzazioni internazionali, proiezioni di dati e conflitti precedenti, i morti sono in realtà almeno 80 mila, con un’enorme quantità di cadaveri rimasta sotto le macerie. Per non parlare della realtà disumana cui sono ridotti gli oltre due milioni di abitanti della Striscia, tra condizioni sanitarie devastanti e fame e malnutrizione che causeranno altre malattie e morti precoci. Il tutto con lo spettro della rioccupazione militare in corso dopo la fine della tregua e dei piani israelo-americani di una nuova deportazione di massa dei palestinesi dalle loro terre, con l’espulsione dei gazawi spacciata per emigrazione volontaria.
Scrive Haaretz in un editoriale: «Anche se questo governo vorrebbe che la guerra continuasse per sempre, un giorno finirà. E quel giorno, l’esercito e la società israeliana nel suo complesso saranno costretti a guardarsi allo specchio e a fare i conti con la consapevolezza che queste atrocità sono state commesse in nostro nome».
«I pogromisti al governo in Cisgiordania»
Il fiornale definisce senza mezzi termini «pogrom» i raid contro i palestinesi nel West Bank e «pogromisti» i loro autori, tra i quali è ormai difficile distinguere tra coloni e forze regolari:
«Dalla formazione del governo di destra radicale di Netanyahu, i partecipanti a questi pogrom hanno ricevuto un messaggio chiaro: andate avanti. Questo messaggio è trasmesso dalla polizia e dall’esercito, che non arrestano i responsabili in tempo reale, dai soldati che partecipano attivamente all’espulsione delle comunità di pastori in tutta la Cisgiordania e dal ministro della Difesa Israel Katz».
Il nuovo capo di Stato maggiore Eyal Zamir sta mostrando un atteggiamento meno tollerante rispetto a questa deriva da far west. Dopo l’ultimo scontro a Jinba, vicino a Hebron, in cui un battaglione di artiglieria e una forza paramilitare di coloni hanno attaccato dei pastori arabi, ha evitato l’insabbiamento delle indagini andando personalmente sul posto e facendo incarcerare diversi soldati. Ma non sarà semplice cambiare il clima in cui da un anno e mezzo si muovono i soldati: «In primo luogo, c’è stata una guerra, condotta con spirito di vendetta dopo le atrocità commesse da Hamas», osserva Harel. Il senso di impunità di cui hanno goduto i vertici militari dopo essersi fatti sorprendere dal pogrom del 7 ottobre, poi, ha contagiato inevitabilmente i livelli inferiori. Non solo. «Parte del problema, dicono i membri dello Stato Maggiore, è legato alla diffusione di norme sconsiderate dalla guerra a Gaza ai compiti relativi alla sicurezza in Cisgiordania. Dopo un anno e mezzo di combattimenti, le forze che lasciano la Striscia di Gaza hanno difficoltà a interiorizzare il fatto che le regole del gioco in Cisgiordania sono diverse».
Il «risveglio» anti Hamas a Gaza
Nelle ultime due settimane migliaia di palestinesi hanno trovato il coraggio di manifestare nella Striscia distrutta contro i fondamentalisti che la governano da quasi vent’anni. La selvaggia esecuzione di uno dei leader della protesta da parte di Hamas ha provocato la vendetta dei principali clan familiari (qui il racconto di Davide Frattini), gli stessi che l’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant aveva immaginato come punti di riferimento per la futura amministrazione del territorio, prima che prevalessero i piani di conquista dei fondamentalisti israeliani, l’ala destra della coalizione di governo.
Questi segnali di ribellione hanno riacceso il dibattito sulle presunte responsabilità della popolazione di Gaza, un tema centrale perché sia le autorità israeliane sia i loro fiancheggiatori in tutto il mondo hanno usato questo argomento per giustificare i massacri di civili o attenuarne il peso. Lo stesso presidente Isaac Herzog, che pure non è il peggiore dei falchi, sollevò questo tema fin dai giorni successivi al 7 ottobre, respingendo «questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti. Avrebbero potuto insorgere, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio».
Dalia Scheindlin, sondaggista israeliana e grande commentatrice, ha ricordato che in contesti complicati ma non quanto Gaza – Turchia, Gaza, lo stesso Israele – mesi di manifestazioni di massa non hanno scalfito il potere dei governanti, «ma gli israeliani insistono sul fatto che di tutti i popoli al mondo che non sono riusciti a sloggiare un leader disastroso, corrotto, autoritario o oppressivo, solo un popolo eroico avrebbe potuto farlo: i palestinesi di Gaza». Avrebbero cioè dovuto e potuto ribellarsi contro una milizia così feroce e addestrata che nemmeno uno degli eserciti più potenti del mondo è ancora riuscito a piegarla dopo un anno e mezzo di guerra condotta con tutti i mezzi, anche massacrando i civili, o perché per niente «innocenti», o perché «scudi umani» di Hamas.
È un tema cruciale, su cui bisognerà tornare. Perché è a Gaza, prima ancora che a Kiev, che sta morendo l’Occidente.
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Rassegna geopolitica |
È tornato il dottor Stranamore |
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La sintesi di due detti – «la mamma del cretino è sempre incinta», «il peggio non è mai morto» – rende bene l’immagine del mondo e del comportamento di alcuni decisori in relazione agli attuali scenari geopolitici: i dazi di Trump, l’andamento della guerra in Ucraina, la crisi in Medio Oriente, il dialogo USA/Russia. Scenari le cui conseguenze sono già in atto e sono forse irreversibili. In sintesi, la fine della globalizzazione, la divaricazione Europa/Usa, il neo isolazionismo americano, il riarmo dell’Europa, le nuove alleanze nel sud del mondo, il rientro della Russia nel grande gioco, la messa in stallo dell’emergenza climatica, la guerra commerciale senza più regole, il rischio di una recessione mondiale.
Prendere atto di queste tendenze significa immaginare al più presto le contromisure, vuoi per contrastarle e renderle reversibili, vuoi per accompagnarle e costruire a proprio vantaggio nuovi equilibri geopolitici, commerciali, culturali e persino ideali. In realtà, nessuno dei decisori (forse ad eccezione della sola Cina) sembra avere chiara in testa questa alternativa e muoversi di conseguenza. Nemmeno Donald Trump, che pure ha innescato la grande rivoluzione ma naviga a vista. E tantomeno l’Europa, come sempre in ordine sparso o assente su tutti i fronti caldi.
Le minacce attuali sono ancora più angoscianti proprio per la quasi assenza di visioni responsabili condivise e per il prevalere di decisioni dettate da improvvisazione/reazione, talvolta isterica. Come se non fosse la prima volta nella storia recente che una grande potenza rompe gli equilibri internazionali e sceglie il protezionismo. Lo fecero gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fra le due guerre.
Se andiamo a rileggere le ultime dichiarazioni del trio Trump/Vance/Musk a proposito di Nato ed Europa e prendiamo alla lettera i programmi di riarmo della UE, viene in mente «Il dottor Stranamore», di Stanley Kubrick. Il film ruota attorno al dilemma di un attacco nucleare da parte degli Stati Uniti contro la Russia, mentre nella realtà di oggi si immagina un attacco russo all’Europa. La sostanza non cambia, così come la percezione del pericolo, esaltata o ridotta secondo convenienza, a prescindere comunque dalla logica: se la Russia ha in mente un attacco, dovremmo essere pronti da ieri, non fra dieci anni, quando Putin sarà probabilmente fuori scena. E se Mosca dialoga con Washington e vorrebbe riaffacciarsi al G7, perché dovrebbe invadere o bombardare l’Europa?
In ogni caso, Francia e Gran Bretagna stanno già valutando le proprie capacità nucleari (con simulazioni di attacco e possibili risposte) per alzare la posta in gioco nel dibattito sulla difesa in Europa. La Polonia è il capofila europeo del riarmo. La Germania ha mandato al macero in poche settimane il proprio debito con la Storia e con l’umanità. La Lituania e l’Estonia si sono calate nei panni del cavaliere bianco contro l’orso russo.
L’alto rappresentante per la politica estera della Ue, l’estone Kaja Kallas, si è distinta per avere gettato olio bollente sull’approccio americano alla guerra in Ucraina. A nome della Ue, è ancora convinta che l’Ucraina riesca a vincere, dopo il fallimento di tre anni di sanzioni alla Russia e di forniture armi all’Ucraina come unica politica dell’Ue. Peraltro, il suo piano di riarmo dell’Ucraina – 40 miliardi di nuove forniture – è morto prima di nascere, avendo riscontrato l’opposizione di diversi Paesi. In pratica, una prova d’improvvisazione mista a personalizzazione ideologica. La perplessità – se non proprio l’irritazione – delle cancellerie europee starebbe soprattutto nel metodo: una fonte ha spiegato che la liberale estone si comporta ancora come se fosse il primo ministro della piccola Repubblica baltica, senza prestare grande attenzione ai delicati equilibri e alle diverse sensibilità dei 27 in politica estera.
Ancora più preoccupante è il fatto che l’isolazionismo degli Stati Uniti, non più garanti della sicurezza internazionale, l’aggressione della Russia all’Ucraina e i piani segreti di Iran e Cina, abbiano spinto diversi paesi, dalla Polonia all’Australia, dal Giappone alla Corea del Sud a porsi anche la questione della deterrenza nucleare. Tutti sembrano avere dimenticato la crisi di Cuba, quando nel 1962, lo stallo della Baia dei Porci tra Stati Uniti e Russia sfiorò uno scambio missilistico tra le superpotenze. La logica del dottor Stranamore ruota attorno a un dilemma irrisolvibile che tuttavia è alla base del riarmo: se il mio avversario dispone di armi nucleari e teme di essere colpito o potrebbe pensare di colpirmi, meglio essere pronti a colpire per primi.
È una logica che vale anche per le armi convenzionali, come si vede dai processi di riarmo già lanciati in Polonia, Germania, Sud Corea, Australia, Gran Bretagna e presto Canada, e dal lancio del programma europeo, «Rearm Eu».
Paradossalmente, questi processi sono innescati dal venire meno degli Stati Uniti come iperpotenza imperiale che oggi si pone come potenza continentale, decisa a proteggere i propri interessi economici e il giardino di casa. Questo ha generato ovunque insicurezza strategica e volatilità economica, tanto più che l’atteggiamento della Casa Bianca, non essendo dettato da una strategia lineare, non sembra nemmeno prevedibile.
Di fatto, l’accoppiata Trump/Musk sta azzerando i tentativi di costruire una globalizzazione intelligente e un sistema di relazioni multipolare per sostituirli con una forte deregulation commerciale, finanziaria, militare, peraltro in contraddizione con i principi delle democrazie liberali incarnati dal modello economico, sociale e statuale americano.
La deregulation americana è inoltre accompagnata da tendenze culturali e ideologiche che stanno cambiando la pelle della società americana e si pongono come tendenze da esportazione che poco hanno a che vedere con una democrazia matura: suprematismo bianco, criminalizzazione e disprezzo per gli avversari, controllo dei media, attacchi alla magistratura, nuove barriere statuali, delegittimazione dei contrappesi istituzionali, immigrazione e integrazione narrati come pericoli e disvalori.
Qualcuno ha parlato di tecno-integralismo, se si considerano lo strapotere economico e tecnologico del personaggio Musk accoppiato alla sua visione del mondo e dei rapporti umani. È un percorso che sta mandando in soffitta i valori dell’Occidente, l’etica protestante del capitalismo, la visione keynesiana dell’economia e del ruolo dello Stato e che oggi rischia di travolgere anche i valori dell’Europa.
Se la democrazia americana sembra oggi malata, quella europea non se la passa molto bene. Le dinamiche politiche interne ai Paesi più importanti sembrano assecondare la rivoluzione americana. Basti osservare la crescita dei populismi in Francia e Germania e il recente attacco alla magistratura dal parte di Marine Le Pen dopo la condanna all’ineleggibilità e la solidarietà che essa ha riscosso fra le destre europee e negli Usa. D’altra parte, la cronica incapacità di decisioni rapide e condivise condanna la Ue alla marginalità politica oggi e a quella economica domani. In tre anni di guerra in Ucraina, la Ue non ha nemmeno immaginato un piano di pace né ha inventato una figura super partes che sapesse dialogare fra le parti. Lo stesso dicasi per il Medio Oriente.
Se il dottor Stranamore di Stanley Kubrick ci richiama l’angosciante incertezza del mondo, un film molto meno conosciuto – «Burn After Reading – A prova di spia» dei fratelli Coen – ci rimanda alla stupidità e al dilettantismo del potere a proposito del giornalista americano di The Atlantic accidentalmente aggiunto alla messaggeria segreta fra ministri e alti funzionari della Casa Bianca. Le disfunzioni sono altrettanto e forse più pericolose delle decisioni autoritarie e improvvisate.
Donald Trump sta così mettendo in scena la sua presidenza, illudendo se stesso e il suo staff che il consenso popolare sia sinonimo di competenza. E come in ogni sistema di potere praticamente assoluto, fra buffoni di corte, approfittatori, clientele e consiglieri interessati alla carriera, nessuno osa dire che «Il Re è nudo». Se solo l’opinione pubblica facesse tesoro delle sue affermazioni, delle fake news e dei suoi propositi su Covid e vaccini, confine messicano e Groenlandia, trasformazione di Gaza nella Miami del Mediterraneo, propositi di deportazione di migranti, confusione fra Iva e dazi e via delirando, forse non saremmo a questo punto. Eppure queste cose non sono sceneggiatura da film: sono state dette, teorizzate, conclamate senza contraddittorio. Ma l’opinione pubblica è assente o schierata. E la critica, come la magistratura, è un trascurabile impiccio.
Quanto ai contrappesi istituzionali, basti pensare al ruolo assunto da Elon Musk nella politica americana e sulla scena mondiale: l’amministrazione, il sistema di telecomunicazioni satellitari, le nuove tecnologie trasformate in affari di Stato gestiti personalmente e con pieni poteri. In pratica in affare privato.
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La Cinebussola |
The last showgirl, la rinascita di Pamela Anderson |
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Shelly, Annette, Jody, Marie-Anne e le altre. Bella compagnia, le Razzle Dazzle. Fanno varietà, danzano coperte di piume di struzzo. Mostrano le gambe e i seni, strette in costumi celestiali, sotto gli occhi del regista tuttofare Eddie (Dave Bautista), un nerboruto sentimentale che forse ha avuto storie con alcune delle bellissime. Lustrini e paillettes, come si diceva una volta. Cuore e anima. Donnissime in topless sui tacchi a spillo. Nella cornice di Las Vegas, «una città come nessuna altra al mondo, rappresentazione della metafora americana, terra dei sogni dall’architettura ultramoderna ma con lo sguardo rivolto al passato».
Le Razzle Dazzle fanno gruppo. Le veterane – anzi, la veterana Shelly (Pamela Anderson) – insegnano alle più giovani. Le proteggono, le ospitano a casa per non farle sentire sole. Le ragazzine portano rispetto, la competitività e il conflitto generazionale sono ridotti al minimo. Semmai qualcuna aspira a calcare palcoscenici più importanti: da Las Vegas si guarda a Hollywood. Ogni starlette ha le sue fragilità, tutte insieme le Razzle Dazzle formano una squadra che è (stata) vincente.
Nessuno ruba la scena, lo show, pur datato, è un’insegna storica. Ma il pubblico è sempre più scarso e 38 anni non sono passati invano. «Oggi va un altro tipo di intrattenimento, è ora di cambiare». A soffrire di più è la pin up Shelly. Lei che è sempre stata la più elegante e carismatica delle dolls. Lei che alla carriera ha sacrificato amori e attenzione per la figlia. Oggi, a 57 anni, si sente schiacciata dal peso di dover troncare la «meravigliosa routine».
La decisione è presa: fra due settimane si chiude. Per molte girls è tempo di cercare una nuova occupazione. L’affranta Shelly deve tenere a bada le due ballerine più giovani, Jodie (Kiernan Shipka vista in Twisters) e Mary-Anne (Brenda Song), mentre l’amica del cuore la disincantata Annette (Jamie Lee Curtis irriconoscibile), addicted del gioco d’azzardo e della bottiglia, oggi fa la cameriera, serve cocktail e sigarette ai tavoli, usa un trucco pesante per nascondere le rughe e ogni tanto si concede una danza sensuale coram populo per ricordare i vecchi tempi.
Il sogno si è compiuto a metà e le Razzle Dazzle in liquidazione si chiedono se ne valeva la pena. Shelly tenta anche un provino, ma subisce solo umiliazioni. Il conforto di Eddie, il gigante buono, stavolta serve a poco. Ma Shelly riconquista l’amore della figlia, Hannah (Billie Lourd), fuggita via da tempo per studiare fotografia, cresciuta dalla zia e ora con un gran bisogno di stare accanto alla madre al canto del cigno.
Film «alla Coppola» firmato da Gia Coppola, nipote del regista del Padrino e di Apocalypse Now. Il dramma di Shelly sta non tanto nell’abbandono della ribalta, quella è una ferita che potrà / dorà rimarginarsi rimarginarsi, o nella consapevolezza della giovinezza svanita, quanto nel rendersi conto che, per essere una showgirl, ha riempito di bei ricordi la sua esistenza, ma l’ha resa un deserto. Shelly prende coscienza di essersi autocondannata alla solitudine, complice una società di indifferenti che scarta con troppa facilità ciò che è (o sembra) datato. Lo schema del film è lo stesso della saga horror di Pearl con Mia Goth, ma le citazioni in tema potrebbero essere molte. Gia Coppola cerca di evitare i luoghi comuni sulle showgirls, uno dei simboli della città delle mille luci, «dove lo spettacolo non esiste più». Punta l’indice contro «il patriarcato tuttora sistemico». Ha il merito di non raccontare una depressione ma lo stato d’animo (tristezza, malinconia, avvilimento?) di chi si sente privato di un sogno, scegliendo un versante sociale per accompagnare il declino della sua protagonista, diciamo alla Ken Loach: mentre si truccano davanti allo specchio le ragazze parlano dell’assicurazione sanitaria, del sussidio di disoccupazione, dell’ansia di trovare una nuova collocazione, magari in età non più verde.
La sceneggiatura di Kate Gersten è puntuale e ricca di spunti, ma l’asse portante del film è l’interpretazione di Pamela Anderson, già disinvolta bagnina di Baywatch, una bellissima da copertina, che rivela un’intensità davvero ammirevole, lei che non è mai stata una vera diva del cinema, ma una star dello show-biz in senso lato attraverso le serie e il gossip, vittima (si può dire) di un sistema che vedeva in lei solo una bionda da spiaggia. Qui è bravissima: si spende, tiene in pugno il film, è autentica, sfumata, persino simpatica.
THE LAST SHOWGIRL di Gia Coppola
(Usa, 2024, durata 89’, Be Water e Medusa Film)
con Pamela Anderson, Jamie Lee Curtis, Dave Bautista, Kiernan Shipka, Brenda Song, Billie Lourd, Jason Schwartzman
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale
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