*Dazi, l’ubriaco ed il lampione* di Vincenzo D’Anna*

Quelli a digiuno di economia spesso usano cifre e statistiche come un ubriaco i pali dei lampioni: per farsi sostenere invece che per farsi illuminare. Un epigramma che potrebbe ben essere esposto nella sala ovale della Casa Bianca ove, purtroppo, siede il nuovo presidente, nella rozza ed approssimativa persona di Donald Trump. In quella stessa sede, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, operava un altro leader repubblicano, di ben altro spessore ed esperienza: Ronald Regan. Costui padroneggiava i postulati del liberalismo politico e del liberismo economico, ossia del libero mercato di concorrenza. Aveva ben chiari quali fossero i punti salienti di quelle dottrine liberali che, peraltro, erano state la spina dorsale dell’America, la fonte della ricchezza e delle libertà di cui avevano goduto non solo gli americani ma tutti gli Stati occidentali che a quella grande democrazia si erano ispirati. A voler fare un irriverente paragone, occorrerebbe dire che Trump non arriva ai garretti di Regan per coerenza e portato culturale. Privo di certezze e chiarezza di idee il tycoon sta trasformando gli Usa nella tomba di quegli stessi principi ispiratori ai quali si è sempre conformato il partito repubblicano americano. Con la politica dei dazi il miliardario newyorkese, oltre a determinare lo stravolgimento delle borse valori mondiali, sta contribuendo a creare un clima di diffusa precarietà commerciale e finanziaria e, per aggiunta, sta rovinando i rapporti politici con tutti quei Paesi che da sempre hanno collaborato economicamente con la nazione a stelle e strisce. Basterà leggere, sull’argomento dazi, quello che Regan stesso asseriva: “il protezionismo commerciale può sembrare una misura patriottica per proteggere prodotti e posti di lavoro americani, ma in realtà può avere conseguenze negative a lungo termine”.

Questo scenario, ahinoi, non è nuovo, poiché già negli anni ’30 la politica del “blocco” commerciale contribuì alla Grande Depressione. È importante ricordare che il protezionismo può distruggere la prosperità, anziché proteggerla. Insomma: tra i due presidenti c’è un divario abissale. Ma tant’è!! Bisognerà comunque provvedere ad arginare questa scellerata politica che cambia la storia economica del mondo, eccita una guerra commerciale pericolosa e dannosa alla pari di quella, tragica e sanguinosa, che ha determinato lo zar del Cremlino con l’invasione dell’Ucraina. Ancor più strabiliante è il rudimentale calcolo con il quale Trump ha stabilito l’entità percentuale delle gabelle da applicare alle varie economie mondiali. Esso si basa, sostanzialmente, sugli attivi commerciali dell’interscambio che le altre nazioni realizzano con l’America. A quanto dicono coloro che quel calcolo hanno sviscerato e tradotto, l’alzata d’ingegno di “The Donald” poggia su conteggi cervellotici che gli osservatori finanziari definiscono paradossali. Insomma, nella nazione che ha dato i natali a diversi economisti di spicco e che può fare sfoggio di prestigiose università ove si insegna la materia economica, il calcolo del presidente americano origina da un approssimativa, quanto semplice divisione. Il numeratore è dato dai miliardi di euro che provengono dal disavanzo totale che gli Stati Uniti registrano con tutte le altre nazioni, ossia a proprio svantaggio nella bilancia dei pagamenti dei commerci import – export con l’estero. Il denominatore della divisione, invece, è dato dal numero dei paesi esteri che hanno bilance dei pagamenti in attivo con l’America. Il risultato di questo ‘ingegnoso” calcolo è “40”. E quel numero, tradotto in percentuale, costituisce il correttivo, sotto forma di dazi, che gli Usa dovrebbero applicare per recuperare il disavanzo accumulato sulle merci in entrata, rispetto a quelle in uscita. Trump per molti Paesi ha dimezzato quella percentuale dal 40% al 20% con l’intendimento di coprire il deficit rimanente con un aumento della produzione di merci (oggi provenienti da oltre confine) sul suolo americano. La delocalizzazione delle industrie comporterebbe il risparmio dei dazi imposti su quei prodotti. Un incentivo al prodotto interno lordo degli States, dunque, e quindi il miglioramento del rapporto tra debito e Pil (che comunque resterebbe abissale per dimensione!). Insomma: ci si propone di cambiare radicalmente la politica economica basata sulla globalizzazione della produzione, che poi era un po’ il vecchio e storico mantra a stelle e strisce. Il tutto postulando come possibile il trasferimendo della produzioni di merci caratteristiche di altri Paesi, comprese le famose e prestigiose “griffe” italiane. Che dire? Sissignore, le teste d’uovo della White House si sono appese ai dati del commercio proprio come l’ubriaco si appende al…palo della luce!!

*già parlamentare