La parola del giorno è |
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[gior-nè-a] |
SIGN Sopravveste in uso fra Tre e Quattrocento, sia militare, sia civile; toga da giudice |
dall’antico francese [journée] ‘viaggio’ (sottinteso ‘di un giorno’, dal latino [diurnus] ‘diurno’) e poi ‘casacca’, sottinteso da viaggio. |
es. «È sempre pronta a mettersi la giornea, anche quando non ne sa nulla.» |
Oscar Wilde scrisse che «La moda è una forma di bruttezza talmente insopportabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi», ma i nomi dei capi d’abbigliamento tendono ad avere un orizzonte di vita più lungo. Tante volte sopravvivono solo nel nome, in effetti, che così acquista una versatilità che è garanzia di lunga vita — anche se magari resta impigliato in un’espressione tipica un po’ cristallizzata.
Per continuare le citazioni, abbiamo già avuto modo di dire che quella finale de Il nome della rosa di Umberto Eco — Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus — è un’alterazione di un verso del De contemptu mundi (‘Del disprezzo del mondo’) di Bernardo di Cluny, monaco benedettino del XII secolo: Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus. Alla grossa vuol dire: Roma antica resta nel suo nome, conserviamo nomi nudi. E questo vale anche per la giornea.
La giornea è una veste — più che da giorno, da viaggio breve, adattamento dell’antico francese journée che è proprio il ‘viaggio di un giorno’ (naturalmente, dal latino diurnus come il nostro giorno). Dapprima, nel Trecento, è una sopravveste militare corta, ornata con stemmi che manifestano un’appartenenza, poi, nel Quattrocento, si fa abito civile, maschile e femminile — una sopravveste corta aperta ai lati e chiusa con una cintura, di quelle che si vedono a bizzeffe nei dipinti primo-rinascimentali. Poteva essere un indumento dappoco così come essere foderato di sete e pellicce.
Avrebbe fatto la fine di lucchi, farsetti e mazzocchi, la giornea, se in periodi posteriori non si fosse fatta nome di vesti curiali, di toghe, di livree d’autorità. Anche in maniera decisamente retrospettiva — visto che s’inizia a parlare delle giornee degli antichi Romani. Il punto rilevante per il prosieguo è questo: entra e resta nell’uso linguistico che le giornee le indossano i giudici.
Allora espressioni come mettere la giornea, indossare la giornea, o anche cingersi, allacciarsi la giornea figurano un ergersi a giudice, un prendere un tono d’autorità. C’è molto teatro, c’è molta apparenza: l’atteggiamento rappresentato è sentenzioso e saputo, sussiegoso, pieno di sé.
Quando si parla di film, l’amico si affibbia sempre la giornea e spiega (senza che gli sia chiesto) quali meritano e quali no; quando voglio dire fra gente di rilievo che le ultime mostre esposte al palazzo pubblico sono state meno curate e interessanti, mi schermisco premettendo che non voglio indossare la giornea; invece mi allaccio senz’altro la giornea quando c’è da parlare di maionese.
L’altezza del registro è profondamente sintonica con l’alterigia dell’atteggiamento che descrive. Certo può restare un’espressione poco trasparente, ma il significato è semplice, e confluisce nel vastissimo bacino della superbia, fitto di sinonimi variegati. Ed è piacevole conservare il nome di una sopravveste trecentesca per parlare delle nostre altezzosità.
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