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giovedì 17 aprile 2025
Cosa può ottenere Meloni da Trump (e viceversa)
Cosa può ottenere Meloni da Trump (e viceversa)
editorialista
di   Alessandro Trocino

Buongiorno,
Donald Trump è, anche oggi, la notizia del giorno. Anzi, le notizie. Sia che si tratti di parlare di dazi e del conflitto sempre più acceso con la Cina. Sia che si tratti di raccontare la visita della nostra premier Giorgia Meloni. Che si tratti della rivolta dello Stato della California o di un giudice federale che vuole denunciarlo per oltraggio alla Corte. Sia, infine – ma non infine -, che si tratti di commentare i dati della Wto, che ha rivisto al ribasso la stima della crescita mondiale o dell’agenzia Fitch, che ha tagliato le sue previsioni.

 

Il presidente americano ha imposto al mondo la sua agenda, la sua presenza, i suoi modi bruschi da sceriffo, i suoi ordini esecutivi. Ignorarlo non si può. Bisogna solo capire come (ri)posizionarsi. Se considerare ormai finita l’amicizia con un Paese governato da chi definisce gli europei «parassiti» e che considera ogni passo di trattativa come un atto di servilismo nei confronti di chi si atteggia a padrone del mondo. Oppure trattare. La Cina ha deciso di replicare a muso duro, anche se l’8 aprile Trump aveva assicurato: «Pechino vuole l’accordo sui dazi ma non sa come farlo partire. Aspetto la telefonata di Xi Jinping». Sta ancora aspettando. Lo immaginiamo che, come tutti noi, dà un’occhiata ogni tanto al display del cellulare e controlla la carica.

L’Europa ha scelto invece di trattare, ma con la pistola sul tavolo. Non essendo (ancora) una federazione, con una politica estera e una difesa comune, non avendo una governance politica centrale, si muove in modo faticoso e talvolta contraddittorio. Ma non è affatto un’entità metafisica, come la definisce spregiativamente Lucio Caracciolo. Anzi, è pronta: se si fa pace, bene, altrimenti i contro dazi sono certi e si può andare più in là, con la web tax e con lo strumento anti coercizione, che prevede restrizioni per investimenti e finanziamenti. Ma l’escalation non conviene a nessuno, salvo che agli speculatori.

In questo quadro, Giorgia Meloni prova a muoversi come si è immaginata e come ha annunciato, cioè tenendosi in equilibrio tra le due sponde dell’Atlantico. Con un piede nel trumpismo sovranista, di cui è platealmente alleata, e con l’altro nell’Europa, minacciata e derisa, di cui è una delle leader riconosciute, se non altro perché l’Italia è un Paese fondatore della Ue. Il suo ruolo, conferma Italo Bocchino a Otto e mezzo, sarà «quello di lubrificare i rapporti tra Europa e Stati Uniti».

Di questo e di altro parliamo nella Rassegna di oggi, giovedì 17 aprile 2025.

 

Relazione complicata

A un certo punto Facebook ruppe i tabù e le logiche binarie e decise di introdurre altri modi di descrivere lo stato sentimentale. Tra questi fece furore «relazione complicata». È il modo in cui Ursula von derLeyen ha descritto il rapporto dell’Europa con l’America di Trump. Ancora più complicato è il rapporto con Meloni, divisa da una doppia fedeltà, istituzione e politica. Oggi, alle 18 ora italiana, entrerà nello Studio Ovale, come scrive Marco Galluzzo, «con un miscuglio di sentimenti: dal timore per l’imprevedibilità del presidente, alla segreta speranza di portare a casa «un risultato importante». Domani tornerà a Palazzo Chigi e qui incontrerà il vicepresidente J. D. Vance.

 

  • Cosa può ottenere Meloni Non ha un mandato dall’Unione europea, ma non va, ufficialmente, a trattare solo per l’Italia, avendo anche parlato a lungo con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che apprezza l’apertura di un canale di dialogo. L’obiettivo iniziale, dazi reciproci a zero, sembra già sfumato. L’alternativa è ottenere un confronto bilaterale con Bruxelles. Difficile anche quello, anche se Meloni proverà a convincere Trump che i rapporti dell’Europa con la Cina si raffredderanno.

  • Già, la Cina. Ma è un nostro nemico? Secondo il Wall Street Journal, la condizione che proporrà Trump ai Paesi per ridurre i dazi è proprio quella di isolare la Cina, proibendo il trasporto di merci cinesi. Washington vuole anche vietare alle aziende cinesi di stabilirsi in questi Paesi per eludere le tariffe statunitensi e impedire l’ingresso nei loro mercati di beni industriali cinesi a basso costo. Punta ad accordi soprattutto con Giappone, Regno unito, Australia, Corea del Sud e India.

 

  • E l’Europa? È combattuta, tra la tentazione di aprire i suoi spazi e canali commerciali a Pechino e il terrore di vedere i suoi mercati invasi da prodotti cinesi a basso costo. La Spagna si è portata avanti, Meloni frena, anche per compiacere Trump. Ma va ricordato che nel luglio scorso la nostra premier volò a Pechino. Stracciò gli accordi della Via della Seta, che erano stati firmati da Giuseppe Conte, ma siglò un’intesa per la cooperazione commerciale. Ora Trump potrebbe chiederle di ridimensionare il partenariato e di convincere anche l’Europa ad alzare un muro contro la Cina.

  • Cos’altro può chiedere Trump? Quello che chiederà sicuramente è un aumento degli acquisti di gas liquido. E di armi, visto che l’Italia sta veleggiando verso il 2 per cento delle spese militari ma potrebbe andare oltre, fino al 3 per cento. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, però, assicura che non si parlerà di armi.

  • Quello che non può chiedere Meloni Fonti del governo assicurano che la premier non chiederà di alleggerire i dazi sui prodotti italiani. Il nostro Paese è tra i più esposti, visto che ha un surplus commerciale nei confronti degli Usa di 73,72 miliardi di dollari. Ma la politica commerciale è di competenza esclusiva della Commissione europea, quindi Meloni non può offrire nulla. Trump, in cambio di altri impegni, potrebbe decidere autonomamente un alleggerimento dei dazi italiani. Manovra che metterebbe in imbarazzo, però, la premier nei confronti dell’Europa e dunque non pare probabile.

 

  • E poi ci sono le aziende italiane Uno degli obiettivi di Trump è far tornare le aziende a produrre negli Stati Uniti. E così, di un eventuale accordo, potrebbero far parte le nostre aziende – Fincantieri, Eni, Enel e Leonardo – che potrebbero studiare investimenti industriali negli Usa.
  • Si parlerà di Ucraina Anche se rimane difficile capire cosa si diranno i due, in posizioni opposte. Meloni in passato ha giocato la carta dell’atlantismo (quando gli Usa di Biden erano con gli ucraini), anche come strumento di legittimazione del suo governo, e ora non può tornare indietro così facilmente. Trump nasconde a fatica l’irritazione per la resistenza di Volodymyr Zelensky e non nasconde affatto le mire economiche per una spartizione dell’Ucraina con Putin.
  • Prima di Meloni, Ryosei Akazawa  È il ministro per la Rivitalizzazione economica giapponese che avrà colloqui diretti con il segretario al Tesoro Usa Scott Bessent e il rappresentante per il Commercio Jamieson Greer. Il Giappone sarà dunque il primo Paese ad avere colloqui diretti. Ci sarà anche Trump, che invece ha snobbato il commissario europeo al Commercio, Maros Šefcovic, a Washington anche lui in questi giorni, ma a vuoto.
  • Numeri impazziti A parte le solite borse in caduta libera, si segnala L’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto), secondo la quale le tensioni commerciali potrebbero causare un calo fino all’1,5% del commercio globale di merci nel 2025, con «gravi conseguenze negative, soprattutto per le economie più vulnerabili».

 

La California fa causa a Trump

È uno dei politici democratici più attivi nel contrasto a Trump e ora il governatore della California, Gavin Newsom, ha deciso di avviare un’azione legale che contesta l’utilizzo dei poteri di emergenza per emanare unilateralmente dazi internazionali senza l’approvazione del Congresso. C’è anche un’interesse statale, visto che i principali partner commerciali della California sono Messico, Canada e Cina. Una mossa, quella di Newsom, che lo fa salire nell’elenco dei papabili per la corsa alla presidenza nel 2028.

Intanto la Cina cresce

Nei primi tre mesi dell’anno, il Pil è cresciuto del 5,4 per cento su base annua. Effetto, certo, anche della corsa a consegnare le merci prima dell’entrata in vigore dei dazi. Ma comunque numeri da sbandierare con fierezza. La stessa che dimostra Xi Jinping nel respingere l’assalto di Trump e nel lusingare i paesi asiatici, come Vietnam, Malesia e Cambogia.

E l’Europa si divide sulle richieste di Trump

  • Comprare più gas Le richieste che arriveranno a Meloni, sono già state fatte agli europei. Che sono incerti, spiega Giuseppe Sarcina. Le importazioni di gas liquido naturale europee dagli Usa sono raddoppiate, rispetto al 2021. Ma Trump chiede di più. Strada facile, considerando che tutti cercano di ridurre o interrompere la dipendenza dalla Russia. Difficile, se si pensa anche che questa frenesia del «drill, baby, drill», rischia di rallentare lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia.

 

  • Comprare più armi Quanto alle armi, i governi europei nel 2022-2023 hanno comprato il 78 per cento delle armi dagli Usa. Che hanno una posizione dominante nella produzione, con i quattro giganti: Lockheed Martin, Raytheon Technologies, General Dynamics, Boeing. L’aumento delle spese militari porta dunque quasi inevitabilmente verso gli Stati Uniti. Ma Emmanuel Macron non è d’accordo. Perché così si rischia di depotenziare il piano che punta a favorire l’integrazione e la crescita dell’industria militare europea. E perché si rischia di depotenziare l’industria bellica francese.

 

Il ritorno di Biden

Ce lo si chiedeva da tempo, dove fosse finito Joe Biden. Rispettava la prassi degli ex presidenti americani, che parlano poco e stanno in disparte. Ma, evidentemente, viviamo tempi speciali e così, dopo Obama – che ha difeso le università americane – ora tocca a Biden rompere il silenzio. Lo fa con un intervento pubblico a un’assemblea di attivisti e difensori dei diritti delle persone diversamente abili di Chicago. E con un discorso duro. Biden analizza «i danni e la distruzione» che sta procurando l’amministrazione Trump alla previdenza sociale, e non solo. Notevole il passaggio in cui spiega che i nuovi capi «si muovono velocemente e rompono cose», fedeli al motto della Silicon Valley, e aggiunge: «Prima sparano e poi prendono la mira».

 

Trump contro Harvard: è una barzelletta

Harvard è una delle università che si è opposta alle ingerenze trumpiane, perdendo finanziamenti enormi. La risposta di Trump è l’irrisione: «Harvard è una barzelletta, che insegna odio e stupidità, e non dovrebbe più ricevere fondi federali»

Tra i laureati celebri di Harvard, ricordiamo, c’è il gotha della politica e dell’imprenditoria Usa, da George Bush a John Fitzgerald Kennedy, da Franklin Delano Roosevelt a Barack Obama, da Mark Zuckerberg a Bill Gates. Trump è laureato invece alla Wharton School of Pennsylvania, così come Elon Musk.

 

I giudici contro Trump

Il giudice federale James Boasberg ieri ha avvertito con un’ordinanza l’amministrazione: o vi adeguate all’ordine di sospendere con effetto immediato le espulsioni di immigrati illegali oppure identificherò i funzionari responsabili e li incriminerò «per oltraggio alla Corte di Washington Dc». Nel provvedimento, il giudice accusa i rappresentanti del governo di aver deliberatamente disatteso le sue disposizioni, che risalgono al 15 marzo scorso, continuando ad allontanare i migranti senza permesso di soggiorno sulla base di una legge del 1798, originariamente concepita per essere applicata in tempo di guerra. La Casa Bianca ha subito annunciato il ricorso contro l’ordinanza del giudice. Ma nel frattempo deve fronteggiare anche il caos rimpatri in Salvador.

Il presidente Mattarella sta bene

Uscirà probabilmente oggi dal Santo Spirito di Roma dove ha subito un piccolo intervento con l’applicazione di un pacemaker, che serve a sostenere il cuore di chi soffre di aritmia. Dal 23 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella comincerà gli appuntamenti in vista delle celebrazioni per la Liberazione, alle quali tiene molto.

Rivolta nel centro albanese, dieci arresti

È la prima volta che succede: nel centro albanese di Gajder, costruito dagli italiani, è scoppiata una rivolta, al seguito della quale dieci dei quaranta migranti arrivati da Brindisi con la nave Libra sono stati arrestati e trattenuti nel loro alloggio all’interno del Cpr. Il decreto sicurezza appena varato prevede pene severe per i danneggiamenti e le rivolte e così sono scattati subito gli arresti. I migranti passano dalla custodia amministrativa dei dipendenti civili a quella degli agenti della Penitenziaria.

 

Sette Paesi sicuri, ecco la lista

La Commissione ha proposto un primo elenco Ue di Paesi di origine sicuri: Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia. A questi si aggiungono i Paesi candidati all’Ue. Lista importante, perché alle domande di asilo dei cittadini provenienti da questi Paesi potrà essere applicata la procedura accelerata, che può essere svolta alla frontiera o in zone di transito, prevista dal nuovo Patto per la migrazione. Che sarà in vigore a giugno, anche se la Commissione ha proposto di anticipare l’applicazione. Soddisfatta Giorgia Meloni: «Avevamo ragione», dice. La designazione di Paese di origine sicuro non costituisce però una garanzia di sicurezza per tutti i cittadini di quel Paese: dovrà essere svolta una valutazione individuale di ogni domanda.

Kiev, accordo imminente sui minerali

Gli Stati Uniti – scrive Marta Serafini  – hanno rivisto in modo significativo le loro stime sull’ammontare degli aiuti forniti all’Ucraina dall’inizio del conflitto con la Russia. Secondo Bloomberg, la cifra è passata da 300 a circa 100 miliardi di dollari, in linea con le valutazioni ucraine, che parlavano di 90 miliardi. Un buon viatico per l’accordo sulle terre rare, sul quale sarebbero stati fatti passi avanti e che potrebbe essere firmato già questa settimana.

 

Nucleare e Iran, colloqui sabato a Roma

Dopo un primo dietrofront, l’Iran – scrive Greta Privitera – dà la conferma: «Il secondo round di colloqui con gli Stati Uniti si farà sabato 19 aprile a Roma». Sul tavolo i dossier che da decenni infiammano i due Paesi: le sanzioni, le tensioni mediorientali, lo scambio di prigionieri e, soprattutto, il nucleare di Teheran. L’Aiea, intanto, avverte: l’Iran non è lontano dall’atomica.

Arrestato per violenze un parroco 

Don Ciro Panigara, 48 anni, parroco di San Paolo (Brescia), è stato arrestato con l’accusa di violenza per minori. Si era dimesso a gennaio, dopo la denuncia di un bambino. Ma gli investigatori sono risaliti nel tempo e hanno scoperto che le violenze, naturalmente da provare in sede giudiziaria, sarebbero andate avanti per ben 13 anni. I minori coinvolti come vittime sarebbero sei, tra i 10 e i 12 anni.

La Corte suprema britannica sulle persone trans

Le persone transgender non possono accedere a quote e servizi riservati alle donne, anche se questo non significa che i trans non vadano protetti dalle discriminazioni. È quanto stabilisce una sentenza della Corte suprema britannica, secondo la quale la definizione legale di cos’è una donna si basa sul sesso biologico e «il concetto di sesso è binario». In altre parole, donne si nasce, non si diventa. Naturalmente, su queste posizioni si ritrova la ministra Eugenia Roccella, intervistata da Alessandra Arachi. Ma su questo tema bisogna leggere anche Elena Tebano, che l’ha trattato con precisione nella nostra Rassegna.

C’è un nuovo talento nel nuoto: è Sara Curtis

Da martedì 15 aprile Sara Curtis è la regina italiana dei 100 metri stile: a 18 anni — è nata il 19 agosto 2006 — la nuotatrice di Savigliano, in provincia di Cuneo, ha «esautorato» Federica Pellegrini che, però, quel primato lo aveva stabilito quando di anni ne aveva 28. Non paga, il giorno dopo ha ritoccato già in batteria quello dei 50 m: 24″52, migliorandosi di altri 4 centesimi. La mamma, Helen, è una  nigeriana che gareggiava nell’atletica leggera e il padre, Vincenzo, un ex ciclista. Qui le immagini della gara.

L’Inter pareggia e va in semifinale in Champions

L’Inter pareggia 2-2 con il Bayer di Monaco e riesce ad arrivare in semifinale: se la giocherà con il Barcellona.

Da leggere

«Il lungo scontro Usa-Cina», di Federico Rampini.

 

«Il Parcoursup e i soliti privilegi», di Stefano Montefiori.

 

«Atenei e antisemitismo, un pretesto politico», di Sergio Harari.

 

«Comandare in nome dell’efficienza», di Paolo Benanti e Sebastiano Maffettone.

 

«Ritratto di don Mario Vargas Llosa, un don Chisciotte di successo», di Aldo Cazzullo.

 

«Chi può salvare il generale Donald», di Danilo Taino.

 

Da ascoltare

Nel podcast «Giorno per giorno», Monica Guerzoni parla del viaggio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Washington. Francesca Basso analizza la prima lista della Commissione Ue dei Paesi da considerare sicuri. Luigi Ippolito spiega la sentenza della Corte suprema britannica per la quale le persone trans non hanno diritto a essere tutelate come donne.

Ultime notizie rapide: l’inflazione risale al 1,9 per cento; la Bialetti è stata comprata dai cinesi.

 

Ah, il maltempo incombe: è allerta rossa nell’Alto Piemonte, dove sono previste piogge torrenziali. Ci sarà un miglioramento tra venerdì e sabato, ma Pasqua dovrebbe essere ancora bagnata, almeno nel Centro nord.

 

Grazie per aver letto Prima Ora.

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mercoledì 16 aprile 2025
Trump vs Corte Suprema, la partita americana di Meloni, diritti trans
US President Donald Trump participates in a bilateral meeting with El Salvador's President Nayib Bukele in the Oval Office of the WHite House in Washington, DC, APril 14, 2025. Trump on Monday hosted El Salvador's President Nayib Bukele, the self-described "world's coolest dictator" who is now the US leader's key ally in a controversial push to deport illegal migrants to a notorious Salvadoran prison. The meeting comes as the White House faces pressure over the case of a father who was mistakenly deported to the jail in the Central American country -- whose return a US court has ordered the Trump adminstration to facilitate (Photo by Brendan Smialowski / AFP)Il presidente del Salvador Nayib Bukele con Donald Trump nello Studio Ovale (foto Afp)
editorialista
di   Luca Angelini

Bentrovati.

 

In questa edizione della Rassegna si parla molto di Trump e molto di diritti.

 

Trump vs Corte Suprema Il caso di Kilmar Armando Abrego Garcia, espulso illegalmente dagli Usa al Salvador, e il guanto di sfida lanciato dal presidente americano alla Corte Suprema rischiano di essere un’altra, potente picconata all’America delle libertà.

Un gol alla Casa Bianca O almeno un golletto, qualcosa di più dello «zero a zero» indicato come obiettivo minimo: è con questo sogno, ipotizza Gianluca, che domani Giorgia Meloni incontra Donald Trump in quello che si annuncia come il momento più importante della sua vita politica.

Cosa cambia per le persone trans La Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che le donne trans sono escluse dalle tutele antidiscriminatorie per le donne. Elena spiega tutte le implicazioni della sentenza, che è una vittoria delle correnti femministe no-gender.

La nave non va Ferruccio de Bortoli ha messo in fila, nella sua rubrica Frammenti, le tante contraddizioni del «caso Monfalcone».

La Cinebussola Al nostro Paolo Baldini è piaciuto il film di debutto alla regia di Luca Zingaretti.

Buona lettura!

 

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Rassegna americana
Perché la libertà dell’America è in gioco in Salvador
editorialista
Luca Angelini

«Verso mezzogiorno del 14 aprile 2025, l’America ha smesso di avere un governo rispettoso della legge. Alcuni sostengono fosse già avvenuto il 20 gennaio, quando Donald Trump si è insediato. Lunedì, tuttavia, Trump ha scelto di ignorare una sentenza della Corte Suprema di 9 giudici a 0 per rimpatriare un uomo espulso illegalmente. Ha persino affermato che i giudici si sono pronunciati a suo favore. Al dito medio del presidente degli Stati Uniti verso la Corte hanno fatto eco il suo procuratore generale, il segretario di Stato, il vicepresidente e il presidente poliziotto di El Salvador Nayib Bukele. Quest’ultimo sta ospitando quello che assomiglia a un embrionale gulag statunitense».

 

Edward Luce, sul Financial Times, è stato fra i primi a lanciare, fragorosamente, il sasso nello stagno. Troppo allarmistico titolare che Trump è ormai a metà della strada nel fare dell’America uno Stato di polizia? Forse sì. Ma Luce invita a riguardarsi bene le immagini di Trump e Bukele nello Studio Ovale: «Il team Trump ha annuito quando Bukele ha detto che non avrebbe preso in considerazione il rimpatrio di Kilmar Armando Abrego Garcia, espulso per errore. Tutti erano d’accordo sul fatto che Garcia fosse in realtà un terrorista. Lo spettacolo nello Studio Ovale ha offerto una lezione di educazione civica al mondo: il governo americano rispetta più un uomo forte straniero che la sua stessa Corte Suprema. Trump sa come fare televisione avvincente. Stava anche facendo la storia. La posizione ufficiale della più antica repubblica costituzionale del mondo è che i tribunali non dovrebbero avere voce in capitolo su chi il suo esecutivo deporta e per quali motivi. I viaggiatori stranieri che si recano negli Stati Uniti facciano attenzione. Possono essere trattenuti senza possibilità di ricorso. Anche gli americani dovrebbero farne. Trump ha detto con disinvoltura a Bukele che lo stesso Bukele potrebbe dover costruire altre carceri di massima sicurezza per gli espulsi “nostrani”, ovvero i cittadini statunitensi».

 

Su quest’ultimo punto, anche Giuseppe Sarcina, sul Corriere, aveva fatto notare che «Trump ha trasformato l’incontro con il presidente salvadoregno in un’occasione per rilanciare un’altra proposta traumatica: “Stiamo studiando la possibilità di mandare anche i criminali americani nelle prigioni di El Salvador“. Bukele, grande ammiratore di Trump, non ha sollevato obiezioni, almeno in pubblico. Sarebbe un’evoluzione storica del sistema penitenziario statunitense. Dopo la privatizzazione delle carceri, si passerebbe alla delocalizzazione dei reclusi nella più grande struttura dell’America Latina, il Cecot (Centro di confinamento anti terrorismo) a Tecoluca, El Salvador».

 

Il caso di Kilmar Armando Abrego Garcia (che avrà, con tutta probabilità, altri strascichi giudiziari) è, di per sé, clamoroso. Era immigrato illegalmente negli Usa quando aveva 16 anni. I suoi avvocati sostengono che i genitori lo mandarono lì dopo che una banda di El Salvador aveva minacciato di rapirlo e di violentare le sue sorelle. Otto anni dopo essere arrivato negli Usa, venne arrestato mentre cercava lavoro in un parcheggio di Home Depot. La polizia del Maryland pensava potesse essere membro di una gang, ma ciò non è mai stato accertato in tribunale. Nel 2019 il suo caso venne esaminato da un giudice dell’immigrazione, che respinse la sua richiesta di asilo ma stabilì che non poteva essere rimandato in Salvador perché c’era un fondato timore di persecuzioni. Il 15 marzo è stato, però, espulso dal Maryland e portato nel famigerato Cecot. Gli avvocati del governo hanno ammesso che è stato rimandato lì a causa di un «errore amministrativo». La giudice distrettuale del Maryland Paula Xinis aveva ordinato all’amministrazione di cercare di riportare Abrego Garcia negli Stati Uniti. La Corte Suprema ha parzialmente confermato la sua ingiunzione la scorsa settimana, affermando che la rimozione di Abrego Garcia era «illegale» e che l’ordine di Xinis «richiede correttamente al governo di “facilitare” il rilascio di Abrego Garcia dalla custodia in El Salvador e di assicurare che il suo caso sia gestito come lo sarebbe stato se non fosse stato impropriamente inviato in El Salvador». Ossia con regolari procedure giudiziarie.

 

Al di là di qualche ambiguità nella formulazione usata dalla Corte Suprema, quel «facilitare» si è tradotto, nello Studio Ovale, in un siparietto tutto sorrisi fra Bukele (che ama definirsi «il dittatore più figo del mondo» e ha condotto una campagna anti gang sullo stile di Rodrigo Duterte nelle Filippine, con incarcerazioni di massa indiscriminate) e Trump, con il primo che dice «non mi starete davvero chiedendo di rimandare un terrorista negli Usa? È una domanda assurda» e il secondo che dichiara «meraviglioso» poter tenere dei criminali fuori dagli Stati Uniti.

 

Peraltro, come ha sottolineato Rina Gandhi, legale di Abrego Garcia, «questo caso non riguarda il fatto se Abrego Garcia sia o meno un “terrorista”: questo caso riguarda un governo che ha illegalmente, e ammette di aver illegalmente, allontanato una persona da questo Paese, dal Maryland, dalla sua casa, dalla sua famiglia, dai suoi figli, e non ha intrapreso nessuna azione, nessun passo significativo per porvi rimedio, come ordinato dalla Corte Suprema con una decisione unanime».

 

È proprio la sfida aperta fra presidenza e Corte Suprema a preoccupare. Perché sembra far fare alla «presidenza imperiale» di Trump (copyright di Sabino Cassese) un ulteriore, notevole salto verso la presidenza «monarchica» sognata da Curtis Yarvin e dagli altri cultori (incluso il presidente JD Vance) dell’idea che il leader della più potente democrazia al mondo la debba gestire come un amministratore delegato onnipotente fa con la sua azienda.

 

Non a caso, sempre sul Financial Times, Martin Wolf ha ricordato il lungo percorso fatto per uscire dai tempi in cui ai Re era consentito ripetere a piacimento, come la Regina di cuori in Alice nel Paese delle meraviglie, «Tagliategli la testa»: «Nel corso della storia, i governanti assoluti hanno portato miseria al loro popolo e persino alle loro famiglie. Le loro corti erano focolai di delazioni, favoritismi e corruzione. Questo è il prezzo del dispotismo arbitrario. Nei casi migliori, la storia dei popoli di lingua inglese, compresi gli Stati Uniti, è stata quella dell’imbrigliare questo potere arbitrario. È stata una lotta lunga e dura, dalla Magna Carta nel 1215 all’esilio di Giacomo II e alla dichiarazione del Bill of Rights nel 1689, passando per la guerra civile dell’inizio del XVII secolo e l’esecuzione di Carlo I nel 1649. Coloro che condannarono all’esecuzione il monarca detronizzato lo ritennero giustamente colpevole di aver cercato “un potere illimitato e tirannico per governare secondo la sua volontà”. La Dichiarazione d’Indipendenza e la ratifica della Costituzione degli Stati Uniti furono ulteriori passi in questa guerra all’assolutismo. Così come la guerra civile statunitense, che ha sancito il principio secondo cui a nessuno dovrebbe essere permesso di detenere un potere assoluto su un’altra persona. Ciò che sta accadendo oggi negli Stati Uniti ha un significato storico e globale, perché si tratta di stabilire se i vincoli all’esercizio arbitrario del potere dureranno. Nessuno che conosca le catastrofi del XX secolo può ignorare l’importanza di questa questione».

 

Il Financial Times è difficilmente accusabile di essere un covo di sinistrorsi. E ancor meno lo è il Wall Street Journal. Che, pure, in un editoriale del board, scrive: «Trump farebbe bene a risolvere la questione chiedendo silenziosamente a Bukele di restituire Abrego Garcia, che ha una famiglia negli Stati Uniti. Il presidente potrebbe essere così ostinato da voler dimostrare alla magistratura chi comanda. Se il caso diventasse una resa dei conti giudiziaria, Trump potrebbe far valere i suoi poteri di cui all’articolo II della Costituzione (che impedisce alle corti federali di interferire nella politica estera, ndr) per non restituire Abrego Garcia, e la Corte Suprema sarebbe riluttante a dissentire. Il presidente Trump sarebbe però più intelligente se guardasse a lungo termine. Ha molte questioni ben più importanti del destino di un singolo che arriveranno davanti alla Corte Suprema. Sbeffeggiando la magistratura in questo modo, la invita a strigliate su casi che hanno una posta in gioco molto più grande».

 

Attenti, però, a considerare quello di Abrego Garcia come «il destino di un singolo». Come scrive Luce, «se Trump ritiene che siate membri di una gang, pro-terroristi o semplicemente anti-nazionali, reclama impunità sulla vostra libertà. Il fatto che un deportato fosse un parrucchiere, non un membro di una gang, e che un altro finito nel mirino fosse un innocuo studente che scriveva commenti, non un terrorista, non offre alcuna protezione». E, aggiunge l’Economist, «il caso di Abrego Garcia dimostra che l’amministrazione Trump è pronta a distruggere la vita di un uomo per perseguire le proprie politiche. Il diritto di non essere rinchiusi a tempo indeterminato senza processo, o habeas corpus, è assoluto ed è un principio fondamentale grazie al quale i cittadini possono limitare l’esercizio arbitrario del potere statale. Già all’epoca del primo discorso inaugurale di Thomas Jefferson esisteva nel diritto comune da secoli. Jefferson lo definì uno degli elementi che formavano una “costellazione luminosa” che aveva guidato la giovane nazione attraverso la rivoluzione e le riforme. Questo è ancora vero. Ma finché Abrego Garcia rimarrà nel Centro di detenzione per il terrorismo di El Salvador, quella costellazione sarà oscurata e gli americani dovrebbero preoccuparsi».

 

Tanto più che, in un’intervista del gennaio scorso con Ian Ward di Politico, il citato Curtis Yarvin ventilava l’inevitabilità, nella marcia verso la presidenza «monarchica», di uno scontro fra la Casa Bianca e la Corte Suprema, quando le condizioni fossero favorevoli: «Se si vuole sfidare la magistratura, se si vuole dire: “Ehi, sapete una cosa? Marbury contro Madison (la sentenza del 1803 che sancì il controllo di legittimità costituzionale sulle leggi, o judicial review, ndr) è stata una decisione sbagliata, la Costituzione in realtà non specifica la precedenza dei poteri, la judicial review è solo una cosa inventata“, il momento deve essere deve essere quello giusto».

 

Trump può essersi convinto che quel momento sia già arrivato? Difficile dirlo. Ma l’Economist fa notare che il bersaglio non sembra essere stato scelto a caso: «Trump ha promesso una campagna di espulsioni di massa e gli elettori gli hanno dato il mandato di realizzarla. Con Abrego Garcia, l’amministrazione ha scelto un bersaglio facile. Un immigrato illegale, macchiato dall’accusa di essere membro di una gang, non susciterà la simpatia di molti americani».

 

Lo sottolinea anche Jamelle Bouie in un commento sul New York Times: «Al momento in cui scriviamo, la maggioranza degli americani disapprova l’operato complessivo di Trump, ma circa la metà approva la sua gestione dell’immigrazione e sostiene il suo programma di espulsioni. È difficile capire cosa significhi esattamente. Gli americani potrebbero credere alla Casa Bianca quando dice che le uniche persone colpite dal giro di vite sull’immigrazione sono quelle che hanno infranto la legge in un modo o nell’altro – criminali che non meritano la nostra compassione. Gli americani potrebbero essere indifferenti al fatto che l’ingresso non autorizzato è solo un illecito amministrativo, o che la maggior parte delle persone consegnate dall’amministrazione non è stata condannata per alcun crimine». Ma è un’indifferenza pericolosa: «Ogni americano che guarda le azioni del presidente e fa cenni di approvazione sta sacrificando la propria libertà, che se ne renda conto o meno. Consentire a Trump l’autorità di sequestrare e far sparire immigrati a piacimento significa far calare il sipario sulla democrazia anche per i cittadini. Non si può avere dispotismo per alcuni e libertà per altri».

 

O, per dirla ancora con l’Economist, «il sorrisino di Trump si è fatto beffe del principio secondo cui l’America è un luogo in cui il governo non può sospendere i diritti quando vuole e in cui il capo del governo si rimette rispettosamente alla più alta Corte. In altre parole, che l’America non è El Salvador».

 

Rassegna italoamericana
Cosa cerca Meloni alla Casa Bianca (più che lo zero a zero, un bel golletto)
editorialista
Gianluca Mercuri

Domani, dunque, Giorgia Meloni sarà accanto a Donald Trump nello Studio Ovale della Casa Bianca. Sarà il momento più importante della vita pubblica della presidente del Consiglio, ma la speranza è che non coincida con chissà quale svolta per l’Italia. Più liscio e tranquillo sarà l’incontro, meglio sarà per tutti. Meloni nei giorni scorsi ha scherzato sullo «zero a zero» che la soddisferebbe, un gioco di parole tra lo «zero dazi reciproci» cui ambirebbe l’Unione europea nel negoziato con l’alleato sempre più ostile e un meeting senza acuti ma anche senza danni sui cui in teoria metterebbe la firma, data l’imprevedibilità dell’amico Donald.

 

Ma c’è anche un’altra possibilità, che risponde meglio alla personalità di Meloni underdog, donna capace di farsi largo in un mondo di maschi condiscendenti, donna di destra ma di successo in un ambiente domestico e internazionale il cui pensiero dominante è – o meglio era – sideralmente distante da quello delle sue origini. In definitiva, donna ambiziosa e capace di smentire i pronostici plumbei.

L’altra possibilità è dunque che un golletto, in realtà, a Washington Meloni voglia segnarlo eccome. Un risultato da sbattere in faccia ai suoi detrattori, l’opposizione italiana ma soprattutto i francesi che sono da sempre la sua nemesi. E da sbandierare con gioia il giorno dopo, a Roma, accanto a J.D. Vance, il vice di Trump, in un incontro strategicamente perfino più importante di quello con il presidente.

 

Vediamo dunque quale, anzi quali Meloni si presentano alla Casa Bianca. E quali potrebbero uscirne.

 

  • Meloni la romana Parlando ieri a una platea di grandi imprenditori, la premier ha scherzato ancora: «Non sento nessuna pressione, come potete immaginare, per i prossimi due giorni». Poi, seria: «Sappiamo che siamo in un momento difficile, vediamo come andrà nelle prossime ore. Faremo del nostro meglio, come sempre. Sicuramente sono consapevole di quello che rappresento e di quello che sto difendendo». E ancora, ottimista: «Ricordiamoci che abbiamo la forza, la capacità, l’intelligenza e la creatività per superare ogni ostacolo».
  • Meloni l’italiana La premier sa che l’Italia è uno dei Paesi su cui il mirino di Trump tende a posarsi automaticamente, perché ha un surplus commerciale nei confronti degli Usa – 73,72 miliardi di dollari – di quelli che fanno venire l’orticaria al presidente americano. Per questo, ha detto, cercherà di spiegargli che «quando un prodotto italiano viene esportato, la gran parte della ricchezza non la produce in Italia ma dove viene esportato». A quel punto lui la guarderà perplesso, e lei gli squadernerà qualcosa di più concreto: gli investimenti in America di altissimo valore strategico dell’Eni (impianti di fusione magnetica a freddo), di Aponte (insieme al fondo BlackRock sta cercando di riportare il canale di Panama dal controllo cinese a quello americano) e di Leonardo (la sua Drs, basata in New Jersey, è il punto di partenza ideale per programmi più ampi sul mercato delle armi). Ma se per Trump i nodi commerciali sono essenziali, poi ci sono quelli politici.
  • Meloni l’ucraina Ecco il primo nodo politico. Per Trump, l’Ucraina è qualcosa che oscilla tra il fastidio da rimuovere e la preda da spartirsi con Putin. Per Meloni, l’Ucraina è stata la password per farsi accettare a livello internazionale quando il mondo diffidava di lei per i suoi trascorsi (post)fascisti. Il suo slancio per Kiev è stato sincero e convincente (una nazione che si difende tocca le sue corde). Ma proprio il fatto che l’Ucraina l’abbia unita all’Europa e a Joe Biden fa orrore a Trump e a Vance. E questa differenza è ancora più forte oggi che i due vogliono liquidare la faccenda. Meloni ha glissato sulle insolenze subite da Zelensky, ha appoggiato la spinta di Trump per la «pace» – una pace fin qui farlocca e su cui Putin marcia a piacimento – e ha ripetuto che la linea italiana è assicurare una protezione automatica della Nato all’Ucraina. Ma sa che Trump non ci pensa nemmeno – vuole esattamente il contrario: il disimpegno americano e le mani libere (forse anche per Putin, è il sospetto) – e che se glielo chiede di persona rischia maltrattamenti.
  • Meloni l’atlantista Nel mondo di ieri, essere atlantisti era semplice, bastava allinearsi a Biden. Nel mondo di oggi, in cui Trump sembra indifferente alle garanzie di sicurezza per l’Europa, è più complicato. Meloni ripete il mantra dell’indivisibilità tra Europa e America sapendo che a metterlo in discussione è Trump stesso. Che intanto esige un budget per la difesa molto più alto.
  • Meloni la premier Lei glielo annuncerà, il budget più alto. Glielo darà per fatto. Ma come ha spiegato Marco Galluzzo, la questione è assai problematica: «Non tutto è fluido dentro il governo, per esempio sulle spese militari per la Nato che Trump chiede a tutti gli alleati di alzare sino almeno al 3,5% del Pil. Secondo il ministro dell’Economia Giorgetti, in base ad alcuni calcoli di natura squisitamente contabile, saremmo già al 2%, ma per il ministro della Difesa Crosetto dovremmo fare molto di più. E su questo punto c’è una distanza: con il Tesoro che chiarisce di non aver ricevuto, a oggi, progetti chiari da Crosetto, e che quando arriveranno saranno valutati in modo collegiale. Dettagli che però non rafforzano la missione americana di Meloni, ma che semmai aggiungono margini di incertezza».
  • Meloni l’europea Questo è il punto più importante, perché gli girano attorno tutti gli altri. Meloni si era candidata a ponte tra l’Europa e Trump, ma la brutalità di Trump l’ha spiazzata: i ponti non gli interessano, l’Europa dei «parassiti e imbroglioni» la odia. Meloni pensava di capitalizzare col tempo le affinità ideologiche e valoriali con la destra americana, di usarle per contagiare l’Europa a poco a poco. Ma l’accelerazione di Trump la costringe alla cautela. Si muove in sintonia con Ursula von der Leyen e in perenne frizione con Emmanuel Macron. Francesi e tedeschi non perdonerebbero all’Italia un ballo troppo stretto con Trump. E loro saranno sempre lì, Trump no.

 

Maurizio Ferrera, nell’editoriale del Corriere di oggi, ha indicato i punti fermi per chi guida l’Italia in una fase convulsa come questa: 1) «La tenuta della Ue come entità politica è condizione essenziale per la stabilità e gli interessi di ciascun Paese». 2) «Dividere gli avversari è la tattica preferita in ogni conflitto di potere, lo sanno bene sia Putin sia Trump. Non dobbiamo cadere in questa trappola e ricordare invece la massima che ispirò i Padri Fondatori: l’unità europea “conviene” a tutti».

 

Ma è verosimile che questa bussola Meloni ce l’abbia saldamente in tasca. La tentazione di spuntare concessioni all’Italia sui dazi (come quelle che Vance ha prefigurato per il Regno Unito), se mai ce l’ha avuta, l’ha subito rimossa: è stato lo stesso Trump a ripetere che lui ora tratta con il blocco Ue, probabilmente per dimostrarne l’impotenza, infiacchirlo e solo dopo procedere a negoziati bilaterali con gli europei presi (per il collo) uno per uno.

 

Ma proprio per questo, Trump e Meloni potrebbero arrivare a un obiettivo comune in tempi più rapidi di quanto sembri possibile ora, e sbandierarlo felici davanti al plotone di giornalisti asserragliati nello Studio Ovale.

 

Si tratta di questo. Lunedì, l’euro commissario al Commercio Maroš Šefčovič ha toccato con mano, letteralmente, il muro americano, vedendosi respinto, nel primo round negoziale a Washington con l’omologo Howard Lutnick, l’approccio dello «zero per zero», nessun dazio reciproco sui beni industriali. Ne è uscito con una sensazione di impotenza cui, da abilissimo negoziatore, non era abituato, e con un punto interrogativo enorme sulle reali intenzioni americane.

 

In questa vacuità negoziale potrebbe incunearsi Meloni. Nelle interviste di questi giorni, i suoi sodali fratellisti tornano a insistere sulla relazione speciale con Trump non nella chiave originaria – la usiamo per fregare gli altri europei – ma in una chiave molto più accorta: la usiamo per il bene dell’Europa, mostriamo che il ponte meloniano non è affatto crollato prima di essere innalzato, che i francesi chiacchierano – una settimana fa il ministro dell’Industria Marc Ferracci, storico consigliere di Macron, l’ha accusata né più né meno di «spezzare l’unità europea» – e noi invece portiamo risultati buoni per tutti: senza scavalcare la Commissione europea, unica legittimata a negoziare, ma mettendoglieli a disposizione.

Dunque, scrive non a caso in queste ore Politico, «gli alleati di Meloni sono fiduciosi che possa ottenere di più rispetto al capo negoziatore commerciale del blocco, il cui compito è quello di concludere accordi per conto dei 27 Paesi membri dell’Unione».

 

Ecco insomma il golletto che Meloni sogna di segnare: spuntare qualcosa in più di Šefčovič, e basterebbe davvero poco visto che lo slovacco è lontanissimo da tutto. Basterebbe davvero qualsiasi cosa, una promessa anche vaga di Trump, un numero sparato anche a caso dal Presidente, un impegno più o meno credibile, insomma una tipica sortita trumpiana ma condita da una dedica particolare alla sua «amica fantastica», del tipo «lo faccio per lei, è riuscita a convincermi». Per questa finora insospettabile EuroGiorgia sarebbe un trionfo, roba da trattenersi a stento da gesti alla Alberto Sordi in direzione Parigi e sinistre sparse.

 

A proposito di sinistre, a quel punto i riflettori si sposterebbero in modo ancora più intenso sul vertice di venerdì con Vance, a Roma. Se con Donald Meloni gioca con la testa, con J.D. gioca col cuore. Adora, e non l’ha nascosto, il suo impeto reazionario schietto, il modo in cui ha insultato l’Europa per i suoi «cedimenti» su immigrazione e «libertà di parola», ovvero la presunta dittatura del politicamente corretto; condivide ogni sua sillaba sull’ideologia gender da asfaltare e sull’egemonia culturale della sinistra da soppiantare. Finora ha potuto essere populista nelle piazze ed establishment nelle cancellerie. Con un successo nei due giorni insieme ai migliori amici che potesse sperare di avere sulla scena internazionale, Giorgia Meloni potrebbe essere finalmente e completamente sé stessa. Che poi sia un bene, chiaramente, è tutto da vedere.

 

Rassegna dei diritti
Tutto quello che c’è da sapere sulla sentenza inglese che esclude le persone trans dalle tutele per le donne
editorialista
Elena Tebano

La Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che le donne trans sono escluse dalle tutele per le donne e che le leggi antidiscriminatorie britanniche a favore delle donne si riferiscono solo alle persone nate biologicamente femmina. La sentenza significa che una persona transgender con un certificato anagrafico che la riconosce come donna non può essere considerata una donna ai fini delle leggi per l’uguaglianza codificate nell’ Equality Act del 2010. I magistrati scrivono anche che «il concetto di sesso è binario».

Il giudice della Corte Suprema Patrick Hodge ha dichiarato che però la sentenza, lunga 88 pagine, «non toglie protezione alle persone trans», che sono ancora tutelate dalla discriminazione secondo la legge del Regno Unito in quanto persone transgender. «Interpretare il “sesso” come “sesso certificato”» (cioè come genere, ndr) «creerebbe gruppi eterogenei» perché modificherebbe «in modo incoerente» sia «le definizioni di “uomo” e “donna”» che «la caratteristica protetta del sesso», ha aggiunto Hodge.

 

La pronuncia della Corte suprema britannica è una vittoria per i gruppi femministi anti-gender che si oppongono alle rivendicazioni delle persone transgender e che avevano promosso il ricorso contro una legge del 2018 approvata dal Parlamento scozzese, di cui contestavano la definizione di donna. La legge scozzese prevede infatti che il 50% dei membri dei consigli di amministrazione degli enti pubblici sia costituito da donne e includeva in questa definizione anche quelle trans. Ora non sarà più possibile. Per il movimento transgender la sentenza è una sconfitta.

 

Gli esperti legali stanno ancora cercando di capire le sue ricadute pratiche, ma l’interpretazione più comune è che d’ora in poi le donne trans possono essere escluse da alcuni gruppi e spazi monosessuali, come spogliatoi, rifugi per senzatetto, aree di nuoto, gruppi e servizi medici o di consulenza forniti solo alle donne. Secondo la stessa logica, la sentenza apre alla possibilità che un uomo trans, cioè una persona di sesso biologico femminile che ha però un’identità di genere maschile, sia considerato una donna ai fini delle tutele antidiscriminatorie. Di seguito una guida con tutto quello che c’è da sapere sulla decisione della Corte Suprema.

 

Chi si intende per donna trans
Una donna transgender è una persona che è stata classificata come maschio alla nascita ma che si identifica come donna. Detto altrimenti è una persona il cui sesso biologico è maschile, ma la cui identità di genere è femminile (in generale le persone transgender sono quelle la cui identità di genere non coincide con il sesso biologico). La sentenza britannica di fatto obbliga a considerare come valido dal punto di vista legale solo il sesso biologico.

Secondo la Bbc, «nel censimento del 2021, 262.000 persone di età pari o superiore a 16 anni in Inghilterra e Galles hanno dichiarato che la loro identità di genere era diversa dal loro sesso di nascita; in Scozia19.990 persone si sono identificate come trans o con una storia trans nel censimento del 2022».

 

Cosa prevede la legge britannica sul cambio di sesso
Nel Regno unito il riconoscimento delle persone trans è normato dal Gender Recognition Act (Gra) del 2004.

Come spiega un rapporto Centro studi del parlamento britannico: «Il Gra consente alle persone trans di ottenere il riconoscimento legale del proprio genere acquisito in modo che un richiedente nato maschio diventi, per legge, una donna a tutti gli effetti». Il sesso registrato sul certificato di nascita di una persona viene modificato di conseguenza in modo da rispecchiare la sua identità di genere. Nel Regno Unito, spiega ancora il rapporto, «le persone trans possono apportare alcuni cambiamenti nella loro vita senza ottenere il pieno riconoscimento legale, come ad esempio cambiare il nome, il sesso sul passaporto, la patente di guida o i dati relativi al sesso presso la banca o altri fornitori di servizi».

 

Per ottenere il certificato di riconoscimento di genere, le persone trans devono fare domanda alla Commissione per il riconoscimento del genere fornendo due certificati medici, compresa una diagnosi medica di disforia di genere e i dettagli di qualsiasi trattamento ricevuto e la prova di aver vissuto nel proprio genere acquisito per almeno due anni e una dichiarazione legale che continuerà a farlo in modo permanente. Se il richiedente è sposato o ha un’unione civile, il suo partner deve fornire il consenso. Non è necessario che i richiedenti si siano sottoposti a un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso o a un trattamento ormonale. La Commissione poi può approvare o rigettare la domanda. Negli ultimi 20 anni le richieste di cambio di sesso nel Regno Unito sulla base del Gender Recognition Act sono state diecimila, di queste solo 8.400 sono state accettate e portate a compimento. La maggioranza delle domande riguardava il riconoscimento di donne trans. Con il tempo è aumentata (fino al 48%) la percentuale di persone classificate come femmine alla nascita che chiedevano di essere riconosciute come uomini.

 

In Italia la procedura è diversa e richiede un procedimento giuridico con una sentenza del Tribunale (anche nel nostro paese però la cosiddetta rettificazione anagrafica non richiede la sterilizzazione forzata).

 

Cosa cambia con la sentenza di oggi
Da oggi il certificato di riconoscimento di genere smette di essere valido per il diritto antidiscriminatorio codificato nell’Equality Act del 2010 e il Gender Recognition Act del 2004 viene in qualche modo depotenziato. Rimane la possibilità di cambiare sesso, ma le donne trans non avranno le stesse tutele riservate alle donne «biologiche» (o «cisgender»). Finora invece valeva il «sesso riconosciuto» in base al Gender Recognition Act.

Che cos’è l’Equality Act
L’Equality Act del 2010 è la norma che ha riunito e sistematizzato la maggior parte delle leggi britanniche in materia di uguaglianza in un’unica legge del parlamento. Vieta le discriminazioni e impone la tutela in base a 9 «caratteristiche protette», tra cui il sesso e l’identità di genere (cioè l’essere una persona transgender). «La legge vieta la discriminazione diretta e indiretta, le molestie e la vittimizzazione. Si applica in vari scenari, tra cui sul lavoro, nell’istruzione, in relazione alla fornitura di servizi e funzioni pubbliche e all’appartenenza a club e associazioni» spiega ancora il Centro Studi. Ora l’Equality Act verrà applicato solo in base al sesso biologico.

Quali sono le conseguenze per le persone trans
Non è ancora del tutto chiaro. Una prima immediata conseguenza è che non potranno più essere contate nelle cosiddette “quote rosa” degli enti pubblici. Altre conseguenze sono meno immediate. «Nel complesso, la sentenza non è semplice in termini pratici, il che significa che gli esperti di diritto e di politica pubblica cercheranno ora di capire le implicazioni. Quindi, se da un lato la sentenza fa chiarezza sulla legge, dall’altro non si sa ancora quali differenze quotidiane comporterà» scrive Alison Holt sulla Bbc.

La Legge sull’Eguaglianza consente di riservare alle donne alcuni spazi o attività per «ragioni di privacy, decenza, per prevenire traumi o per garantire la salute e la sicurezza». Secondo le prime interpretazioni, in base alla sentenza della Corte Suprema le donne trans potranno ora essere escluse da questi spazi e attività riservate alle donne.

 

Significa che le donne trans non potranno più gareggiare con le donne nelle competizioni sportive, né entrare in spogliatoi o bagni riservati esclusivamente alle donne. Le persone transgender considerano questi divieti un’ingiusta discriminazione.

 

I problemi ancora aperti
La decisione di ieri però lascia aperte molte questioni. Non significa automaticamente che le donne trans – che come ha ricordato il giudice Hodge sono protette dal diritto discriminatorio in base alla loro identità di genere – possano essere costrette a usare gli spazi riservati agli uomini (che in alcuni casi potrebbero metterle in pericolo: basti pensare al rischio che le donne trans siano stuprate nei bagni maschili e in particolare nelle carceri maschili).

«La sentenza della Corte Suprema britannica riguarda solo le donne trans perché nasce da un ricorso contro la legge sulle quote rosa. Ma afferma un principio che in linea teorica potrà essere applicato anche agli uomini trans, cioè la prevalenza del sesso biologico sull’identità di genere. Applicando tale principio, per assurdo, gli uomini trans, che alla nascita sono stati classificati come femmine, potrebbero rientrare nelle quote rosa o negli spazi riservati alle donne, con un mancato raggiungimento dei fini e delle tutele che l’equality act intendeva raggiungere», spiega l’avvocato Roberto Brigoni, coordinatore del Gruppo sull’identità di genere dell’Avvocatura per i diritti lgbtq+ Rete Lenford.

 

Il paradosso è dunque che uomini con un’identità di genere maschile (barba compresa) potrebbero essere costretti a entrare nei bagni delle donne.

 

Perché le femministe sono divise su questo tema
Il ricorso britannico è stato portato avanti da For Women Scotland (Fws), un gruppo che si riconosce nella corrente femminista «critica del genere» (o no-gender o «trans-escludente»), la cui esponente più in vista nel Regno Unito – e non solo – è la scrittrice J.K. Rowling. Mentre negli Stati Uniti l’opposizione alle istanze lgbtq+ e in particolare transgender è guidata soprattutto dalla destra religiosa, in Gran Bretagna è portata avanti da attiviste che vengono dal mondo progressista e femminista e si sono organizzate negli anni in cui veniva discusso il Gender Recognition Act del 2004. Le femministe anti-gender si sono opposte all’ipotesi, presa inizialmente in considerazione dal Gra ma mai approvata, di permettere alle persone trans di cambiare il loro genere legale sui documenti con una semplice dichiarazione.

Per queste correnti femministe la rivendicazione dei diritti delle donne è un gioco a somma zero e concedere diritti alle persone trans significa sia togliere diritti alle donne «biologiche» che disconoscere la maternità (o «capacità generativa») come valore fondamentale per l’identità delle donne. Di solito si oppongono anche alle terapie farmacologiche per gli adolescenti transgender, alla prostituzione e alla gestazione per altri.

 

È una corrente molto visibile ma minoritaria del femminismo. Oggi la maggior parte delle correnti femministe sono infatti «intersezionali» o «transfemministe», cioè convinte che le battaglie contro le discriminazioni delle donne non possono essere separate da quelle contro il razzismo e l’omotransfobia e che il femminismo debba cercare un’alleanza strutturale con la comunità lgbtq+.

 

Frammenti
Il caso Monfalcone, tutte le contraddizioni in un unico luogo
editorialista
Ferruccio de Bortoli

Il travolgente successo della Lega nelle elezioni amministrative di Monfalcone, dove vi è una grande unità produttiva di Fincantieri, è una lezione per tutti. Anche per chi scrive. L’idea del grande gruppo pubblico di favorire l’insediamento di una comunità bengalese in mancanza di un’adeguata offerta di lavoro nazionale e locale ci era apparsa coraggiosa soprattutto per l’impegno aziendale a favorire, nel limite del possibile, la migliore convivenza. Sostenendo il welfare di chi arriva, insegnando l’italiano, e andando incontro alle esigenze dei residenti.

 

Il voto dimostra che non esiste un modello vincenteCome spiega sul Corriere Francesco Battistini, quando si determina uno squilibrio così evidente tra abitanti e immigrati, il disagio della cittadinanza prevale su qualsiasi considerazione di natura economica. E il voto ne è il naturale riflesso, di cui bisogna tenere assolutamente conto. A Monfalcone un abitante su tre è immigrato, uno su sei musulmano. La proporzione è eccessiva ed è comprensibile il senso di estraniamento che ha colto i residenti.

 

Alle elezioni si è presentata anche una lista islamica che ha preso un pugno di voti. In un solo luogo si concentra la dolorosa contraddizione che dobbiamo affrontare in molte produzioni. La manodopera italiana non c’è. Non ci sono più molatori, fresatori, saldatori. Quando parliamo di rimpatriare alcune lavorazioni dobbiamo pensare a questo limite. E del resto sono tante le produzioni del made in Italy, dal latte al vino, che senza immigrati non andrebbero avanti. Fincantieri è un leader globale e finora non ha delocalizzato. Se dovesse prendere atto del voto, dovrebbe farlo. E immaginiamo che gran parte di chi ha votato sia contro la globalizzazione ma in questo caso vorrebbe che si facesse al più presto.

 

La Cinebussola
Una casa in pieno caos emotivo nel primo film di Zingaretti regista
editorialista
Paolo Baldini

Come resistere al disagio di vivere? Se lo chiede La casa degli sguardi, prima regia di Luca Zingaretti, proposto alla Festa di Roma e al Bif&st di Bari, basato sul romanzo omonimo del poeta Daniele Mencarelli (Mondadori). Vale il tema: figli problematici, senza agganci sociali, persi in un caos emotivo di origine traumatica, padri amorevoli ma distratti, deboli, immaturi. Zingaretti con gli sceneggiatori Gloria Malatesta e Stefano Rulli racconta lo smarrimento del sensibile Marcolino (Gianmarco Franchini), 23 anni, poeta per vocazione ma da tempo dilaniato dal male di vivere. L’origine è la morte dell’amata madre. Da allora, da quel Big Bang, è iniziata una triste odissea di sbalzi d’umore, ricoveri, incidenti, scoppi d’ira che lo ha portato alla dipendenza dalle droghe e dall’alcol.

«L’unica cosa che desideriamo davvero, con tutte le nostre forze, è essere visti, percepiti», dice Zingaretti. «Viviamo in una società che ha demonizzato il dolore. Il mio protagonista, Marco, affronta la sofferenza quando riesce ad accoglierla».

Marcolino sente sulle sue spalle tutto il dolore del mondo. Vorrebbe uscire dal tunnel ma la salita gli risulta troppo dura. Papà (lo stesso Zingaretti) è un uomo semplice, fa il tranviere sulla linea 19, a Roma, ed è attento ai bisogni del figliolo, ma incapace di capirli e domarli: è un traghettatore, un testimone attento e impotente. «Mi raccomando, sempre in bocca al lupo», gli dice. Proprio come il padre ripeteva al giovane Zingaretti. Quel che riesce a fare è trovargli un lavoro in un’impresa di pulizie che lavora per l’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. Stare a contatto con la sofferenza aumenta, se possibile, la depressione di Marcolino, che pure trova un contatto umano con la squadra del burbero benefico Federico Tocci, con una disinvolta collega di cui fatica a innamorarsi (Chiara Celotto) e con un bambino che vede alla finestra dell’ospedale e con cui scambia dolci messaggi.

Zingaretti espone dunque il suo dizionario del dolore che stravolge la vita e alza muri altissimi con il prossimo, ed è solo quando impari ad accettarlo, quel dolore, che potrai avere una chance di venirne a capo. «È importante avere una persona che ti dice: qualunque cosa accada io ci sono». La dimensione del racconto diventa fiabesca, il ragazzo perduto trova la pace a lungo cercata. Alla fine, Marcolino sale sul tram di papà, scrive una poesia e si addormenta.

Franchini è un protagonista davvero convincente. Il titolo sugli sguardi gli s’addice: è proprio con gli sguardi e gli scatti nervosi che riesce ad esprimere la l’infinita tristezza di Marcolino.

 

LA CASA DEGLI SGUARDI di Luca Zingaretti
(Italia, 2024, durata 109’, Lucky Red)

con Luca Zingaretti, Gianmarco Franchini, Federico Tocci, Ricardo Lai, Alessio Moneta, Chiara Celotto, Marco Felli
Giudizio: 3+ su 5
Nelle sale

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