Pulci di notte

di Stefano Lorenzetto

Riferendosi all’omelia tenuta dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, durante i funerali di Silvio Berlusconi in Duomo, Massimo Gramellini osserva sul Corriere della Sera che il defunto «sarà stato lusingato dal riferimento finale al personaggio potente che, terminata la sua esistenza terrena, si presenta da semplice uomo davanti a Dio: più o meno le stesse parole rivolte, proprio in Duomo, da Sant’Ambrogio all’imperatore Teodosio». Dubitiamo che la circostanza storica abbia fondamento. Ambrogio morì nell’anno 397, mentre la costruzione dell’attuale Duomo di Milano cominciò quasi mille anni più tardi, nel 1386. Non è nemmeno certo che il santo vescovo si sia rivolto a Teodosio nella cattedrale di Santa Maria Maggiore oppure nella basilica di Santa Tecla, le due chiese che nell’antichità sorgevano nel perimetro oggi delimitato dalla piazza del Duomo. Ci resta invece la lettera (Extra collectionem, 14) che il potente vescovo di Milano scrisse all’imperatore di proprio pugno («manu mea») per condannare una sanguinosa repressione avvenuta a Tessalonica. Da notare infine che Gramellini semplifica, seppure in modo come sempre accattivante, un rapporto, quello fra Ambrogio e Teodosio, sul quale gli storici si erano divisi già nel V secolo.

Titolo da Domani: «Trent’anni fa l’arresto di Tortora / Oggi è simbolo di malagiustizia». Inizio del testo a firma di Giulia Merlo: «È l’alba del 17 giugno 1983 ed Enzo Tortora dorme nella sua stanza dell’hotel Plaza di Roma». Saranno anche informatissimi sul domani, ma sono in ritardo di 10 anni sull’ieri.

Intervistato da Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa, Enrico Mentana, direttore del Tg La7, afferma: «A 36 anni avevo diretto il Tg1». Escludiamo che Mentana possa aver pronunciato una simile scemenza, per il semplice motivo che, quando lui aveva 36 anni, il Tg1 era diretto da Bruno Vespa. E in precedenza, andando a ritroso nel tempo, il telegiornale della Rai ebbe come direttori Nuccio Fava, Albino Longhi, Emilio Fede, Franco Colombo ed Emilio Rossi. Né mai, in seguito, fu diretto da Mentana.

Titolo dalla prima pagina della Repubblica: «Le sfide borderline che vanno oltre il limite della vita». Definizione di borderline: «Detto di chi (o di ciò che) è al limite tra due condizioni» (Lo Zingarelli 2024). Delle due l’una: o sono sfide borderline, quindi al limite, o vanno oltre il limite, e allora non sono borderline. Decidetevi.

Vittorio Feltri rievoca su Libero il periodo del servizio militare, in cui ebbe per vicino di branda il calciatore Gianni Rivera, del quale racconta: «Non appena appese le scarpe bullonate al chiodo, il numero uno della pelota si gettò in politica. Don Perignon, un prete fantastico vicino a Rivera e mio conoscente, mi chiese di aiutare Gianni nella campagna elettorale che egli affrontava nelle liste della Dc, e naturalmente, poiché lavoravo al Corriere della Sera, mi prestai con entusiasmo». Tutto farebbe pensare a un sacerdote di origini venete. Feltri si riferisce invece ad Angelo Gelmini, meglio noto come padre Eligio, classe 1931, frate francescano (fratello del defunto don Pierino Gelmini) dalle molteplici frequentazioni mondane, consigliere spirituale del Milan negli anni Settanta, all’epoca soprannominato «don Perignon» perché ritenuto abituale consumatore di Dom Pérignon, un blasonato Champagne. Il religioso ebbe a lamentarsene in un’intervista uscita il 31 dicembre 1976 sul Corriere della Sera: «Voi giornalisti inventate su di me storie atroci. Bevo un po’ di Dom Perignon in aereo per festeggiare la vittoria del Milan e divento Padre Champagne. Un famoso scrittore dice che porto “slip rossi”». Padre Eligio ha fondato le comunità Mondo X per il recupero dei tossicodipendenti e La Frateria di Cetona (Siena).

Sulla Repubblica, Concita De Gregorio c’informa che Mario Delpini fu «nominato vescovo di Milano da Benedetto XIV». Un bel record di longevità episcopale, considerato che Benedetto XIV (al secolo Prospero Lambertini) fu pontefice dal 1740 al 1758. (E comunque Delpini non venne nominato «vescovo di Milano» bensì vescovo ausiliare. Fu papa Francesco, nel 2017, a promuoverlo arcivescovo della diocesi ambrosiana).

In Tuttolibri, supplemento culturale della Stampa, viene recensito Uomini senza (Il Mulino), saggio di Marzio Barbagli dedicato all’«arte di mutilare gli uomini» (così il titolo), cioè alla castrazione. Il sottotitolo recita: «Dall’impero assiro al Novecento, l’evirazione dei genitali maschili è stata legata alle cause più diverse». Il complemento di specificazione appare del tutto pleonastico, per non dire grottesco. Evirazione significa «asportazione dei testicoli». Pertanto in quei tempi bui era impossibile eseguire l’evirazione dei genitali femminili.

«Aneri, veronese puro (“de soca” si dice dalle nostre parti), è un Berlusconi dal sorriso fermo», scrive Francesco Specchia su Libero. Perdoniamo il simpatico collega per vari motivi, non ultimo quello di essere sì cresciuto a Verona ma nato a Firenze. L’espressione «veronese de soca» designa una persona venuta al mondo nella città di Verona e i cui genitori e antenati (quindi nonni, bisnonni e via risalendo) siano accomunati dalla medesima condizione. Invece Giancarlo Aneri, mago del marketing applicato a vino, caffè, olio e altri prodotti di nicchia, è nato e risiede a Legnago, che da Verona dista 40 chilometri. Soca infatti si traduce in italiano con ceppo, cioè «capostipite di una famiglia, origine di una stirpe», come riporta Lo Zingarelli 2024, che esemplifica: «Nascere dal medesimo ceppo, avere antiche origini comuni». Specchia esagera anche nell’attribuire ad Aneri un merito storicamente impossibile: «Sua l’idea del “Ferrari”, il fuoriclasse degli spumanti». Si dà il caso che la Cantina Ferrari di Trento sia stata fondata nel 1902 da Giulio Ferrari e rilevata 50 anni dopo da Bruno Lunelli, i cui figli, grazie anche alle brillanti intuizioni di Aneri, assunto nel 1974 per promuovere lo spumante di Trento e rimasto in azienda fino al 1992, l’hanno portata al successo mondiale.

Titolo a tutta pagina dal Fatto Quotidiano: «Perche il (mini) Fondo sovrano della Meloni non serve a nulla». Di solito in quel giornale scrivono perchè, con l’accento grave anziché acuto. Ora hanno superato l’imbarazzo della scelta, eliminandolo del tutto.

SL