Raisi di Andrea Nicastro Corriere della sera

La cassetta a nastro ha più di 36 anni, ma la voce di Ebrahim Raisi si riconosce bene. «Dovete fermare le esecuzioni», gli dice un vecchio. Il presidente iraniano, allora 28enne, risponde: «Ne abbiamo uccisi 750, ancora 200 e abbiamo finito».

R aisi era allora un novello procuratore del tribunale penale di Teheran. Davanti aveva l’ayatollah Hossein Ali Montazeri, il numero due della Repubblica Islamica, l’esperto religioso che avrebbe dovuto ereditare il potere dal fondatore ayatollah Khomeini.

Per un ragazzo come Raisi la riunione doveva far tremare i polsi. Montazeri lo aveva convocato assieme ad altri tre magistrati. «Ho sentito — esordisce Montazeri — di ciò che sta accadendo nelle prigioni di Evin e Gohardasht. Dovete fermare immediatamente ogni esecuzione sommaria». Raisi e gli altri magistrati non negano. Da diligenti esecutori spiegano quanti hanno già mandato a morte e quanti ne mancano. La registrazione fu diffusa nel 2017 dal figlio dell’ayatollah Montazeri, prima escluso dal potere e poi emarginato. Lo scandalo costò a Raisi la prima corsa presidenziale del 2017, ma nel 2021, al secondo tentativo, gli iraniani che se ne ricordavano non andarono più a votare e Raisi divenne presidente.

Secondo Amnesty International, Raisi e gli altri tre giudici convocati dal vecchio Montazeri formavano allora «il comitato della morte di Teheran», equivalente a molti altri sparsi nel Paese. Erano giurie con pieni poteri costituite da religiosi fedeli al regime che nel giro di qualche mese mandarono dal boia come minimo cinquemila oppositori. I «processi» duravano pochi minuti, senza prove, senza avvocati. Non avevano niente di somigliante alla giustizia, piuttosto erano repressione politica efficiente e spietata. Secondo testimonianze di sopravvissuti raccolte da Human Rights Watch, per assicurarsi dell’esecuzione della sentenza, Raisi si presentava spesso alle impiccagioni. Tanto zelo gli procurò una carriera brillante: vice procuratore generale per dieci anni, capo del sistema giudiziario nazionale nel 2014, sanzionato per violazione dei diritti umani dagli Stati Uniti nel 2019, presidente della Repubblica Islamica nel 2021.

Due giorni dopo la vittoria elettorale, ottenuta al primo turno senza opposizione e con un’astensione record, Raisi si presentò ai giornalisti stranieri in una grande sala da conferenze. Austero nella sua tunica da clerico, in testa il turbante nero dei discendenti del Profeta, lo precedeva la fama del falco e quella del fedelissimo della Guida Suprema Alì Khamenei. La sua elezione era uno schiaffo a Washington che l’aveva messo sotto sanzioni proprio due anni prima. Forte dell’appellativo di ayatollah che Khamenei gli aveva appena elargito, il neopresidente Raisi rispose ai giornalisti sempre attaccando.

Incontrerebbe Joe Biden per ammorbidire i rapporti tra Iran e Usa? «No». Potrebbe ridiscutere l’accordo nucleare? «Sono stati gli Usa a cancellarlo, prima ci spieghino perché». Washington vorrebbe parlare del vostro programma missilistico. «Non è negoziabile». Israele e Palestina? «Noi staremo sempre con gli oppressi». Cosa risponde a chi l’accusa di aver fatto parte delle «commissioni della morte?». «Sono un difensore dei diritti umani e della sicurezza del popolo. È stato un privilegio farlo da magistrato».

Figlio di un clerico sciita emarginato dal regime dello Scià, Raisi rimase orfano a 5 anni, giusto in tempo per diventare il frutto più puro della Repubblica teocratica iraniana. Allo scoppio della Rivoluzione khomeinista, Raisi aveva 19 anni ed era studente nel «Vaticano sciita» di Qom, poco fuori Teheran. Momento e luogo perfetto per partecipare alla scalata dei religiosi al potere temporale. Con l’elezione a presidente a 61 anni non aveva ancora forse raggiunto il massimo delle sue possibilità.

Di lui si era spesso parlato come del successore di Khamenei. La Guida ha un figlio che forse rappresenta la sua prima scelta, ma il fedele Raisi avrebbe potuto garantirgli quell’intervallo di tempo necessario perché non sembrasse troppo una successione dinastica proprio come quella degli Scià che tanti anni fa gli ayatollah hanno abbattuto.

Andrea Nicastro

Bremmer di Samuele Finetti Corriere della sera

«La notizia dell’incidente e dell’eventuale morte di Ebrahim Raisi è certamente di grande impatto in Iran e fuori dai suoi confini. Ma la sua portata è minore di quanto ci si potrebbe aspettare», spiega il politologo Ian Bremmer, capo e fondatore del think-tank Eurasia.

Perché?

«Anzitutto, perché in Iran il potere non è nelle mani del presidente, ma in quelle del leader supremo e del Consiglio dei Guardiani della Costituzione. Perciò la sua scomparsa non avrebbe conseguenze significative sulla stabilità del governo. E poi perché Raisi non è molto popolare: i cittadini non lo considerano capace. La scarsa affluenza alle elezioni di marzo, per molti un referendum sulla sua figura, lo ha dimostrato. Ora il regime avrebbe la possibilità di trovare qualcuno migliore per quella carica. E il regime, ieri, ha fatto una brutta figura».

Ovvero?

«La domanda che sorge spontanea è: in quelle condizioni, perché far decollare l’elicottero del presidente? E perché far volare con lui anche il ministro degli Esteri? L’impressione è che sia stata una scelta da irresponsabili».

Quindi è da escludere a priori qualsiasi ipotesi diversa da un incidente?

«Direi di sì, mi sembra estremamente improbabile che non si tratti di un incidente. E credo che anche il regime non incolperà un attore esterno, che sia Israele o gli Stati Uniti, a meno che ci siano prove certe. È molto semplice: in questo momento l’Iran non vuole aumentare le tensioni con i suoi nemici storici perché non vuole una guerra».

Il regime potrebbe essere indebolito? Raisi era tra i favoriti per la successione a Khamenei, che ha 85 anni.

«Potrebbe renderlo più fragile, anche se di certo non subirà pressioni simili a quelle che seguirono l’uccisione di Mahsa Amini. Per di più, negli ultimi mesi le possibilità che Raisi potesse succedere alla Guida suprema si sono ridotte in modo significativo proprio per la sua impopolarità».

L’opposizione interna potrebbe beneficiare in qualche modo di ciò che è successo?

«Bisogna sempre tenere a mente quanto è feroce la repressione del regime iraniano. È probabile che qualcuno festeggerà per quello che è successo: come risponderanno le autorità? Li puniranno per dare un esempio o lasceranno correre? È questa la domanda principale. Un primo segnale arriverà dai social media. In ogni caso, sarei molto sorpreso di vedere nuove manifestazioni di massa. Gli iraniani sanno bene quali sono le conseguenze per chi protesta apertamente».

Con Raisi morto, verrebbero convocate nuove elezioni entro 50 giorni. Che profilo potrebbe scegliere Khamenei come nuovo presidente?

«Punterebbe senza dubbio su una figura ultra-conservatrice, che sia fedele a lui e che sia in grado di garantirsi la fiducia delle Guardie della rivoluzione: i pasdaran diventano ogni giorno più potenti».

Khamenei terrà anche conto della propria successione?

«Certamente. Non solo il leader supremo è molto vecchio, ma circolano voci attendibili che sia malato da tempo di cancro. La questione di chi prenderà il suo posto è molto, molto sentita».

[…] «In queste ore incerte, in molti si stanno chiedendo quali siano e se ci siano nomi, uomini, a cui l’ayatollah Ali Khamenei stia pensando. Figure fedeli che siano in grado di sostituire l’adepto Raisi. Il professore iraniano di scienze politiche all’università del Tennessee ed esperto di Medio oriente, Saeid Golkar: “Non penso che Khamenei abbia davvero nella testa un nome, ma ci sono delle persone che cercheranno di candidarsi. Come lo speaker del parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf e l’ex capo dei pasdaran Mohassen Rezaee”. Entrambi hanno già provato in passato a presentarsi per la carica presidenziale passando anche al severo vaglio del Consiglio dei Guardiani — strumento nelle mani del leader supremo — ma non hanno mai ricevuto abbastanza voti. “Un altro che potrebbe proporsi è l’ex speaker sempre del parlamento Ali Larijani, ma lui non ha superato l’esame del Consiglio”, continua Golkar. Nella corsa presidenziale gareggiano solo nomi approvati dall’ayatollah, quindi nessun oppositore. […] La dittatura iraniana è una struttura piramidale: a capo si trova il leader supremo che governa tutto. Da lui passano le decisioni di politica interna ed estera, i nomi dei candidati alle elezioni e persino i centimetri di stoffa che devono coprire i corpi delle donne. Sotto di lui ci sono diversi organi tra cui: l’assemblea degli esperti, il presidente, la magistratura, il parlamento, il consiglio dei guardiani e i pasdaran, il corpo delle guardie della rivoluzione islamica.

Con Khamenei, i pasdaran — nati come milizia ideologica — hanno acquisito sempre più potere in seno al governo e all’economia: gestiscono oltre la metà del sistema economico del Paese. Non sostituiscono il leader supremo ma hanno un peso nelle decisioni, per alcuni sono ormai una sorta di governo ombra. Di sicuro sono la mano armata dell’ideologia del regime. Uccidono i manifestanti, torturano, violentano ma sono anche i principali esportatori di terrorismo nella regione. Portano avanti il progetto espansionistico della dittatura e combattono per realizzare il sogno degli ayatollah Khomeini e poi Khamenei: cacciare Usa e Israele e costruire un impero islamico con a capo l’Iran, guida morale dell’area […]» [Grazia Privitera, CdS].

Samuele Finetti
QUINTA PAGINA
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Seneca