testata
Venerdì 22 gennaio
editorialista Gianluca Mercuri, redazione Digital

Buongiorno. Fino a ieri mattina, nelle riunioni politiche e nei salotti televisivi, si scherzava su Lorenzo Cesa, invitato di continuo alle riunioni dai leader del centrodestra: un modo — si diceva — per marcarlo stretto mentre da Palazzo Chigi arrivavano al segretario dell’Udc insistenti telefonate per convincerlo a entrare nella maggioranza. Una centralità da vecchia Dc, una ridda di voci sul prossimo cambio al ministero della Famiglia, dalla renziana Bonetti all’ultracattolica Binetti.

Nessuno poteva immaginare che in città stesse arrivando lo sceriffo, direttamente dal Far West.

Lo sceriffo è Nicola Gratteri, il Far West — il nostro Far West — la Calabria. Di solito l’uno e l’altra fanno fatica a suscitare attenzione e interesse. Stavolta è uno sconquasso. L’avviso di garanzia che ha raggiunto ieri Cesa — indagato per “associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso” — sconvolge le trattative per salvare il governo Conte e contribuisce ad avvicinare l’Italia alle elezioni. Cesa, per la cronaca, è travolto da un’inchiesta della Procura distrettuale di Catanzaro ribattezzata “Basso profilo”, che ha portato all’arresto di 49 persone, 13 in carcere e 36 ai domiciliari, tra cui l’assessore regionale al Bilancio Franco Talarico, Udc pure lui. Cesa, per la politica, si è dimesso da segretario dell’Udc. Giura la sua innocenza — lo accusano di scambio di voti e favori con la ‘ndrangheta — ma intanto esce dai giochi di questa scivolosissima crisi di governo.

Parentesi su Gratteri (che, per la storia, Renzi nel 2014 scelse come ministro della Giustizia per fare la “rivoluzione di codici”, parole del magistrato: il presidente Napolitano mise una croce sul suo nome). Il procuratore nega ovviamente qualsiasi proposito di “giustizia a orologeria”. Ma quel che conta di più è che a Giovanni Bianconi che gli chiede “perché le indagini della sua Procura con decine o centinaia di arresti vengono spesso ridimensionate dal tribunale del Riesame o nei diversi gradi di giudizio”, risponde che i gip gli danno ragione, poi “se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Bianconi lo incalza: che significa? Ci sono indagini in corso? Pentiti ‘ndranghetisti che parlano anche di giudici? “Su questo ovviamente non posso rispondere”.

Sono insinuazioni gravissime sui numerosi magistrati del Riesame e della Cassazione che hanno ammaccato o azzerato — come nel caso dell’ex presidente calabrese Oliverio — l’operato di Gratteri. Ma i riflettori si spegneranno appena il “Basso profilo” del procuratore smetterà di intrecciarsi con la crisi di governo. Il sordo contrasto tra il magistrato di punta nella lotta alla mafia più potente e settori cruciali della magistratura tornerà ad essere un affare calabrese, quindi di scarso o nessun interesse nazionale.

Di sicuro interesse nazionale è la crisi di governo, che il caso Cesa aggroviglia ancora un po’. A questo punto la situazione si può riassumere così:

— Conte deve trovare una maggioranza convincente al Senato entro mercoledì, quando si voterà la relazione del ministro Bonafede sulla riforma della giustizia: il no dei renziani stavolta è certo e per il governo sarebbe la fine, senza più scappatoie. Quindi il presidente del Consiglio deve inventarsi la “quarta gamba” del governo prima di quell’appuntamento. Se ci riuscisse, potrebbe anche anticipare i giochi e andare prima al Quirinale per lanciare la terza versione del suo premierato. Ma è difficile: non c’è la corsa a salire sul suo carro che Conte sperava. Alessandro Trocino scrive: “All’ultima fiducia al Senato erano 156, ai quali bisogna aggiungere un senatore M5S assente per Covid. Si conta di recuperarne 4-5 dall’Iv, 3 da Forza Italia, 2 dall’Udc. E siamo a 167. Togli tre senatori a vita si arriva a 164. Abbastanza per vivacchiare, non abbastanza per governare sereni”.

— Renzi, però, ha cambiato registro e punta a rappattumare, a rimettersi d’accordo con gli alleati con cui si è appena preso a stracci in faccia davanti al Paese. Sembra uno scherzo ma è vero: lo dice sia ai fedelissimi — “Vedrete che entro una settimana non potranno fare a meno di noi e torneremo in maggioranza” — sia pubblicamente — “Il mio personalissimo suggerimento al presidente del Consiglio e a tutti gli altri è: smettiamola di fare polemiche. Se volete confrontarvi noi ci siamo”. Ritiene ancora improbabile che si voti, ma qualche dubbio comincia ad averlo anche lui.

— Il Partito democratico infatti dice che se cade questo governo si vota davvero. Lo fa probabilmente per spaventare i centristi ancora esitanti e farli uscire dalla tana. Ma come di consueto, la posizione del Pd si articola in almeno un paio di sensibilità: quella dei ministri, contrari al voto, e la leadership del partito — Zingaretti — che invece lo accarezzerebbe. In effetti, dicendo mai più con Renzi e mai con il centrodestra, il Pd si sta lasciando zero vie d’uscita. Ma quelle vie, quando si tratterà di schiacciare davvero il bottone delle elezioni, potrebbero riaprirsi.

— Il centrodestra, da parte sua, continua a chiedere il voto e dice no a governi istituzionali che “sono stati bocciati in primo luogo da loro” (e se non fossero più bocciati?). Berlusconi, dopo la clamorosa defezione della sua cosiddetta badante e quella di un altro forzista, chiama i suoi indecisi uno per uno per convincerli a non passare con Conte. Tace da un po’, invece, Giorgetti, massimo sostenitore di un governo di unità nazionale che legittimerebbe la Lega agli occhi dell’Europa.

Da tenere d’occhio, stamattina, una riunione dei membri della commissione Affari costituzionali della maggioranza — alla presenza anche del governo — per accelerare sulla legge elettorale proporzionale con cui si cerca di sedurre i centristi di ogni risma, Forza Italia compresa.

Attenzione però: alla fine a dire basta e ad andare al voto potrebbe essere proprio Conte, la cui autostima — dopo gli ultimi sensazionali tre anni di una biografia fin lì oscura — rischia di andare fuori controllo (e Antonio Polito ricorda al premier che i personalismi di molti suoi predecessori sono andati a finire male).