“Perché la Franzoni è innocente” Tutti i dubbi sul delitto di Cogne

Il professor Carlo Taormina, difensore di Annamaria Franzoni, racconta a ilGiornale.it il Delitto di Cogne: “Credo ancora alla sua innocenza”. Poi sulla magistratura: “I giudici dello Stato fuori dalle aule di giustizia”

Sono passati esattamente 19 anni dal delitto di Cogne, 13 da quando Annamaria Franzoni fu condannata per la morte atroce del figlio Samuele, di soli 3 anni. Protagonista di una delle vicende di cronaca nera più drammaticamente segnanti della cronaca nera è stato il professore e avvocato Carlo Taormina, al tempo, difensore della Franzoni.

“Sono ancora convinto della sua innocenza”, dichiara alla redazione de ilGiornale.it.

Professore, il delitto di Cogne è passato alla memoria collettiva come “la madre dei delitti“. Perché?
“C’è stata grandissima attenzione alla contrapposizione che emergeva tra l’immagine della madre e la terribile vicenda, della quale si pensava potesse essere stata l’artefice. Cogne ha dato luogo a una sorta di sentimento ancestrale collettivo del quale si sono fatti interprete i media, da ciò ne è conseguita una miscela esplosiva che spiega la definizione di “madre dei delitti“. In quel periodo sono iniziate le prime indagini cosiddette ‘scientifiche’, era un momento in cui si cominciava a parlare di Dna sulla scena del crimine. Le forze dell’Ordine cominciavano ad avere un assetto nuovo, dal punto di vista della tecnologia e delle professionalità sul piano dell’investigazione, che lasciava il terreno tradizionale fatto spesso di intuizione e improvvisazione. Il 2002 è stato un anno di transizione e Cogne, senza ombra di dubbio, è stata una circostanza unica nel suo genere”.

In che misura ha inciso l’incursione mediatica sullo svolgimento del processo?
“Cogne è la prima vicenda in cui l’intervento mediatico è stato incredibile sia dal punto di vista televisivo che giornalistico. Al tempo, sono stati fatti anche degli studi neuroscientifici per capire quanto questo bombardamento mediatico potesse incidere nella mente e sull’operato delle professionalità giudicanti. Ma penso che alla fine non sia stato determinante. Ha inciso sotto un profilo specifico, ovvero quello del controllo sullo svolgimento regolare del processo. In quel periodo i tribunali e le aule di giustizia erano inaccessibili, i pubblici ministeri se ne stavo barricati tradizionalmente nelle loro stanze. La polizia e i carabinieri prima di allora parlavano e discutevano solo con i pubblici ministeri. Era un mondo, quello della giustizia, molto circoscritto e chiuso. L’incursione mediatica ha interrotto quel ciclo, aprendo una nuova strada. Devo dire che sia a livello di giudice dello Stato sia a livello di giuria popolare, non ho riscontrato conseguenze negative per la mediatizzazione della vicenda. Noi facevamo il processo con circa l’80% dell’opinione pubblica che era colpevolista. Ma il processo si è svolto regolarmente, e io escludo che almeno in quel caso ci sia stato un condizionamento nelle menti di chi ha giudicato e operato. Insomma il sistema ha retto”.

E invece quanto la sovraesposizione mediatica della signora Franzoni è stata condizionante per l’esito del caso?
“Al tempo abbiamo avuto una situazione molto particolare dal punto di vista della libertà personale. Nonostante l’aggressività mediatica – tutti ritenevano la Franzoni colpevole – io sono riuscito, e i giudici mi hanno dato seguito, a fare scarcerare la signora. La Franzoni è stata pochi giorni in carcere perché riuscimmo a dimostrare con una perizia psichiatrica che fosse innocua per l’altro figlio: gli psichiatri lo esclusero e la donna fu scarcerata. Questo attesta che la mediatizzazione non ha danneggiato dal punto di vista delle libertà personali. Moltissimi omicidi stanno in carcere dall’inizio fino alla fine del processo. La signora Franzoni che, secondo l’accusa, era un’omicida più tremenda delle altre perché avrebbe ucciso il suo bambino di soli tre anni, è stata liberata. Non solo, ma è tornata a casa con la famiglia e ha avuto un altro figlio”.