IN TERZA PAGINA
Draghi è un nuovo Monti? Risponde Rino Formica
Che idea stupida, il suffragio universale (Grasso)
La sinistra, Renzi e i regimi islamici (Gabutti)
L’uomo cui hanno trapiantato volto e mani (Cuppini)
Le pulci di Lorenzetto
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IN QUARTA PAGINA
CALA IL SIPARIO SU ROCCO CASALINO

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Fra l’incredibile (molto credibile) delle intercettazioni a Luca Palamara, esce una storia particolarmente dolorosa. Sono i giorni in cui il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, è candidato alla guida della procura di Roma.
Una pm antimafia di Palermo chiede in chat a Palamara di giurare «che il porco cade subito». Il porco naturalmente è Creazzo. La procura generale della Cassazione convoca dunque la pm per avere chiarimenti, e lei ne dà: nel 2015 ha subito violenza sessuale da Creazzo, ecco perché lo chiama porco, e ancora «porco mille volte» e «essere immondo».
Ed ecco perché si industria per complicargli la carriera. Ora nei confronti della pm è stato aperto un procedimento disciplinare, per avere usato metodi scorretti in ostacolo a Creazzo. Lei ne è sconvolta, sente sulla pelle un secondo stupro, ed è molto comprensibile, ma che altro si potesse fare non lo so, poiché la vittima mai ha denunciato il carnefice. Metodi scorretti dicevamo, e il metodo corretto era di andare in procura – dove peraltro lei lavora – e mettere la faccenda nero su bianco.
Dice di non averlo fatto per tutelare l’istituzione, ma mi domando se si tuteli così un’istituzione dentro cui si muove ai massimi livelli uno stupratore (presunto, tocca aggiungere), o la si tuteli rivolgendosi alla legge, di cui lei dovrebbe essere una sacerdotessa. Non credo, anzitutto, che si sarebbe riservato altrettanto scrupolo per un’altra istituzione, e mi chiedo come si possa chiedere a chi subisce un torto, e soprattutto alle donne violate, di rivolgersi alla magistratura se è poi la magistratura la prima a non rivolgersi a sé stessa.
Il disprezzo delle solite élite ora prende di mira Casalino

Come da italica tradizione, dismesso il potere ti tirano le pietre che prima trattenevano nelle tasche. Succede a Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio, da sempre criticato sottotraccia e invece, ora, preso di petto come fosse lui il responsabile del marasma. “Peracottaro”, “parvenu”, “isterico”, si divertono i leoni da tastiera “liberali e competenti” che per esserne davvero immuni il populismo se lo sono fatto iniettare in vena.Così, Casalino non viene criticato, legittimamente, per come organizza le conferenze stampa (anche per quello), per una eccessiva pressione sui Tg (anche per quello), per presunte gaffe o scatti d’ira (anche per quello). Su di lui non si esercita la sana critica al potere, ovunque sia collocato, anche nella stanza di fianco a quella del primo ministro.Qualche anno fa il Fatto dedicò un approfondimento al ruolo del portavoce di Matteo Renzi a palazzo Chigi, Filippo Sensi e al suo modo di gestire l’informazione, di palleggiarla, metterla a fuoco in funzione dell esigenze del leader. Allora sembrò scandaloso, per molta stampa intorno a noi, permettersi quella critica.Ma non fu nulla a confronto del risentimento che si scarica su Casalino, dipinto come un vanesio assetato di potere, sgraziato e manipolatore. A cui si estorcono finte interviste che l’interessato deve poi smentire il giorno dopo.Con lui si è andati oltre. Gli è stato rimproverato di essere il Rasputin di Conte, una sorta di anima nera pronto a dare buoni consigli “sentendosi come Gesù nel tempio”. Si è arrivati al punto di tirarlo in ballo nello scontro inscenato da Renzi il quale lo ha additato addirittura come una figura da rimuovere per risolvere la crisi di governo e che, ancora ieri nell’intervista a Le Monde, diceva che la politica non si fa con “i like”. E qui c’è forse la mistificazione più grande di questa storia. Perché colui che ha importato a palazzo Chigi una capacità inedita di costruire l’immagine del capo è stato proprio Sensi, Nomfup per chi frequenta Twitter, abile costruttore di storie quotidiane con il suo #cosedilavoro.Sensi è quello che davvero ha innovato, che ha dato alla comunicazione una marcia in più, spregiudicata o semplicemente professionale che sia, aprendo una strada nuova: le foto con i leader internazionali, quelle dei momenti “riservati”, l’input “Renzi ai suoi”. Casalino quella strada l’ha imboccata senza esitazioni e provenendo dal M5S, nato nel web e con una predisposizione naturale ai social, ha adottato uno stile diverso, abilità diverse, ma ha portato Conte a una popolarità che pochi possono vantare. Invece di insultarlo sarebbe forse più utile chiedergli come ha fatto.Però dileggiare viene meglio, specialmente se si devono regolare conti antichi, come quelli che si stanno regolando in questi giorni. Basta seguire la comunità dei giornalisti su Twitter, le tante frasi sguaiate, l’arroganza e il disprezzo diffuso a piene mani.E qui c’è il punto della questione. L’assalto a Casalino è di una diversa qualità, non è semplicemente scontro politico tra parti avverse. Non è la tradizionale dialettica “amico-nemico” per utilizzare un canone del pensiero politico. Esprime un disprezzo culturale, intellettuale e antropologico. L’altro giorno un giornalista autorevole come Pierluigi Battista ha scritto dieci volte (10) in un messaggio su Twitter: “Casalino ha scritto un libro, Casalino ha scritto un libro, Casalino ha scritto un libro…” e così via. In un Paese in cui i libri li scrivono calciatori e soubrette, alcuni “giganti del pensiero” assurgono ad arbitri della produzione libraria nazionale, veicolando in realtà il riflesso delle élite, culturali e intellettuali (se ci si perdona il termine) verso i nuovi arrivati, verso gli avventurieri o, come sono stati chiamati a lungo i 5Stelle, sempre con disprezzo, “gli scappati di casa”. E così confermando la critica che i vari populisti (ammesso che il M5S si possa considerare tale, cosa che la più recente evoluzione smentisce) muovono proprio alle élite. Che, invece, urlano e si disperano non appena notano l’invasione di un campo che considerano sacro e intoccabile.Chi scrive non conosce Casalino, riceve solo i suoi vari messaggi e le sue comunicazioni. Il personaggio ha certamente gestito in modo criticabile il suo ruolo. Ma criticare Casalino solo per ribadire la superiorità e segnalare una distanza con chi dovrebbe stare in basso è esattamente quello che ha permesso l’esplosione di una forza come il M5S. Storia che nessuno ancora vuole iniziare a capire. Il vero limite delle classi dirigenti in Italia.
Ora c’è la ressa. E l’idea di tenere insieme una maggioranza larga con “personalità d’area”
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Ha già incassato la fiducia dell’Europa e dei mercati, incasserà presto la fiducia del Parlamento. Quarantottore fa Mario Draghi non aveva i numeri per varare il suo governo, ventiquattrore dopo ne ha persino troppi: c’è la ressa. Ci sono i grillini liberatisi dalle mire di Conte, c’è il Pd e ovviamente Renzi, che ha prodotto il big bang nel Palazzo. Poi c’è Berlusconi e in più si approssima Salvini, spinto verso l’ex presidente della Bce dal Nord produttivo prima ancora che dai suoi governatori e dai dirigenti del suo partito.
È l’unità nazionale. Nemmeno Draghi immaginava che il disgelo si verificasse in così poco tempo. Caduto ogni pregiudizio, stanno cadendo pure storici steccati. Il Pd – che aveva già dovuto metabolizzare la crisi del suo governo e il controllo della corsa per il Quirinale – sperava almeno di resistere dietro una gracile linea Maginot: «Mai con i partiti eversivi», come aveva detto tra il serio e il faceto il costituzionalista Ceccanti, poche ore prima che il capo dello Stato assegnasse l’incarico al braccio destro di Ciampi. Con Draghi è cambiato tutto. E ieri Zingaretti l’ha fatto capire chiaramente: «Pd e Lega sono alternativi ma spetterà al premier incaricato costruire la maggioranza». «Troveremo il modo per gestire gli equilibri che dovranno portarci fino all’elezione del capo dello Stato», spiega uno dei notabili dem: «Poi si andrà alle urne».
Se così stanno le cose, anche il percorso sarebbe più chiaro. Il governo di scopo potrebbe avere durata limitata: il tempo di mettere in sicurezza il Paese e assegnare Draghi a un futuro incarico istituzionale. Ma l’ex uomo di Francoforte intanto è concentrato sul presente e si prende del tempo. Ha già previsto il secondo giro di consultazioni che avvierà all’inizio della prossima settimana. Al primo giro, sta facendo ai suoi interlocutori la stessa domanda finale: «Propendete per il governo tecnico o politico?». Le dimensioni che sta assumendo la maggioranza lo inducono a riflettere se sia più opportuno scolorire politicamente l’esecutivo con esponenti di partito capaci di dialogare pur nella diversità di collocazione, oppure — come sembra più probabile — affidarsi a personalità di area.
Il confine è sottile, la differenza è evidente. E chissà se a Draghi giunge l’eco dei partiti, dove già si sgomita per avere un posto finestrino. Per adesso è fermo alle questioni di programma, che espone a ogni gruppo consultato, e che ruota attorno all’ormai nota parola d’ordine: «C’è un debito buono e un debito cattivo», ci sono gli investimenti e i soldi dati a pioggia, gli aiuti all’imprenditoria per rilanciare l’occupazione e i sussidi. Già questo basta per evidenziare un segno di discontinuità rispetto al passato. E rispetto al passato nel Palazzo si assiste a una rivoluzione.

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