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A GENOVA NON E’ CROLLATO SOLO IL PONTE MA ANCHE L’ONESTA’
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T“Aspi, trust e divorzi finti: così gli indagati nascondono i soldi”
L’inchiesta. La Gdf: l’obiettivo è evitare di pagare i risarcimenti alle vittime
di Marco Grasso | 4 MARZO 2021
C’è chi ha creato un trust, dove ha messo al riparo il patrimonio personale. Chi ha venduto case e le ha intestate a familiari. Chi si è separato, avviando così anche divisioni patrimoniali. C’è fermento all’ombra dei processi nati dal crollo del Ponte Morandi. Procedimenti che prospettano cause penali e civili milionarie. Le stime sui possibili risarcimenti ammontano a 1 miliardo e mezzo di euro, secondo lo Cassa depositi e prestiti, impegnata in un’aspra trattativa per l’acquisizione di Autostrade per l’Italia. Una valutazione non troppo lontana da quella fatta dalla Corte dei Conti, che stima in più di 1 miliardo i costi dei soccorsi prestati durante l’emergenza e i danni all’economia. Insomma, cifre da capogiro. Ed è in questo contesto che gli inquirenti hanno notato un fenomeno ricorrente: alcuni degli indagati nelle inchieste della Procura di Genova hanno cominciato a disfarsi di proprietà e conti in banca.
A segnalarlo è un’informativa della Guardia di Finanza, depositata nelle settimane scorse ai pm Walter Cotugno e Massimo Terrile, i magistrati che si occupano delle indagini nate dal disastro, coordinati dal procuratore capo Francesco Cozzi e dall’aggiunto Paolo D’Ovidio. L’annotazione contiene il tracciamento di alcuni movimenti finanziari sospetti.
Al centro dell’attenzione ci sono una decina di persone, manager di medio e alto livello, nomi ricorrenti in tutti i filoni di indagine. Da una prima scrematura circa la metà di queste posizioni sono ritenute di massimo interesse. Gli investigatori stanno cercando di valutare se si tratta di manovre lecite, oppure se sono la spia di un tentativo di occultamento di capitali o di intestazioni di beni a persone fittizie, insomma movimenti strategici per evitare future aggressioni in caso di guai giudiziari.
La Procura di Genova non indaga solo sulla tragedia del viadotto Polcevera, che il 14 agosto 2018 ha provocato 43 vittime. Da quel fascicolo ne sono nati altri tre paralleli: uno sulla falsificazione dei report sulla sicurezza dei viadotti; un secondo molto simile che riguarda ispezioni ammorbidite sulle gallerie; un terzo sull’installazione di barriere antirumore difettose. Tre filoni che lasciano intravedere una medesima filosofia gestionale, orientata secondo il tribunale alla massimizzazione dei profitti, e che per questo potrebbero a un certo punto essere accorpati in un unico processo.
L’affaire barriere a novembre ha portato all’arresto dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci. Il manager aveva già lasciato il gruppo nel settembre del 2019, dopo la diffusione delle prime intercettazioni che coinvolgevano alcuni fedelissimi. Tra loro l’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli (licenziato due mesi più tardi), registrato mentre chiedeva a personale di Spea (società del gruppo incaricata del monitoraggio delle opere) di ammorbidire i rapporti sulla sicurezza dei viadotti. In un altro messaggio, poche settimane prima del crollo del Morandi, Donferri scrive al suo diretto superiore Paolo Berti che i cavi del ponte “sono corrosi”. Affermazione a cui il suo interlocutore risponde: “Sticazzi, io me ne vado”. E sono sempre i due dirigenti le figure che ritornano in un altro passaggio fondamentale delle indagini. A gennaio del 2020 Berti è appena stato condannato a cinque anni per i morti di Avellino. Minaccia di cambiare versione in appello e di poter mettere nei guai i vertici della società. Donferri lo va a prendere in aeroporto per portarlo a un incontro con Castellucci e in una circostanza lo convince “a stringere un accordo con il capo”.
L’allontanamento di Castellucci, in ogni caso, non è stata un’operazione a costo zero per Aspi. L’accordo di “risoluzione consensuale” prevedeva per il manager una buonuscita da 13 milioni di euro. Castellucci finora si è sempre difeso dicendo di essere stato tenuto fuori dai dettagli tecnici sulla sicurezza. Ma dopo l’aggravamento del quadro indiziario nei suoi confronti, Atlantia ha provato a congelare la liquidazione d’oro e a richiedere indietro anche il primo acconto da 3 milioni. La decisione è stata impugnata di fronte al giudice del lavoro di Roma, che in una prima fase ha dato il via libera al pagamento della seconda tranche. È quasi certo che la controversia sarà destinata ad avere altri sviluppi. Soprattutto quando il tribunale di Genova presenterà il conto da pagare.
FONTE:
La mafia di Foggia, nata dal cattivo “seme” di Cutolo
Un faro. Illuminare il fenomeno aiuta a combatterlo
Le mafie non crescono in un istante. Il seme germoglia, le radici affondano, la pianta cresce e se nessuno la recide infesta ovunque può. Nel Tavoliere, nel “granaio d’Italia”, uno dei semi della “Quarta Mafia” lo portò con le sue mani Raffaele Cutolo, sul finire degli anni 70, presenziando da latitante – era da poco evaso dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa – all’incontro che si tenne nell’hotel Florio di Foggia: il suo obiettivo non era quello di organizzare in modo stabile la delinquenza, ma di aggregare alla sua Nuova Camorra Organizzata i più talentuosi delinquenti pugliesi e, in quell’occasione, il visionario boss di Ottaviano diede i gradi ad affiliati liberi e affiliati in carcere. Era il 1979.
C’è voluta una strage con due vittime innocenti, ben 34 anni dopo, per mostrare a tutti la ferocia – e persino la stessa esistenza – della mafia germogliata da quell’incontro. Ora che Cutolo non c’è più – è morto due settimane fa – la sua pianta foggiana gli sopravvive. Sono molti i motivi che dovrebbero spingerci a leggere Quarta mafia – La criminalità organizzata foggiana nel racconto di un magistrato sul fronte, scritto dal procuratore aggiunto di Foggia, Antonio Laronga, edito da Paper First . Tra questi, il primo motivo è proprio conoscerla. Conoscerla per smettere di pensare che non esista. Conoscerla e fare in modo che la conoscano anche gli altri. Il più possibile. Quarta mafia non è soltanto un libro. È anche l’incipit di un impegno civile: quello di illuminare un fenomeno che si è rafforzato – e Laronga ci racconta fino a che livello – proprio grazie al “buio” che l’ha favorito. Quarta mafia per la prima volta sistematizza, rendendola comprensibile a chiunque, la complessa geometria delle mafie foggiane. Il seme portato da Cutolo – è da qui che inizia una storia che a tratti sembra incredibile – cresce con linfa e peculiarità proprie. La ferocia, innanzitutto. Terminata la lettura, si ha l’impressione di aver attraversato un cimitero, e che gli unici a restare vivi siano in due: Laronga e il lettore. Una processione di lapidi, di morti ammazzati che diventano l’ostensione di un messaggio: volti annientati dall’esplosione dei proiettili, per negare ai parenti della vittima anche la più remota possibilità di guardarli un’ultima volta. Ferocia e vendette. Ma anche amore e pentimenti. L’amore di una donna che lascia il boss di un clan perché sedotta dal suo principale avversario. Ma si ritrova a vivere sotto il sospetto costante dell’intera “nuova” famiglia e, per proteggere i suoi figli, decide di mollare tutto e collaborare con la giustizia. “Lo Stato per fortuna oggi si muove”, scrive don Luigi Ciotti nella prefazione, “la quarta mafia” è stata recentemente definita dal procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho una vera e propria emergenza nazionale. E dopo la ‘strage di San Marco in Lamis’, che nel 2017 è costata la vita ai fratelli innocenti Aurelio e Luigi Luciani, ci sono state scelte forti che hanno evidenziato una presenza più attenta e fattiva delle istituzioni sul territorio”. Il 10 gennaio 2020, a Foggia, 20mila cittadini hanno risposto all’appello di Libera partecipando a un corteo contro mafia, corruzione e violenza. “Tutto questo – commenta Ciotti – esprime il bisogno di riscatto di una comunità stanca”.
“Le forze di polizia del territorio – scrive l’autore nella sua introduzione – hanno ricevuto importanti rinforzi: sono stati istituiti lo squadrone eliportato carabinieri cacciatori di Puglia, il reparto prevenzione crimine Puglia settentrionale della polizia di Stato, una sezione operativa della direzione investigativa antimafia”. E poi aggiunge: “Ma la risposta a livello repressivo non basta. È necessaria un’operazione di contrasto con un impegno corale e su più livelli. Occorre, a livello educativo, sensibilizzare la società civile verso questa criminalità così poco indagata dai media e dalla letteratura sul fenomeno mafioso, divulgarne le caratteristiche e le potenzialità strategiche, le connessioni con settori della Pubblica amministrazione, far conoscere la sua ferocia e i disastri che ha provocato su benessere e sviluppo delle comunità assoggettate. Le mafie foggiane devono uscire dall’anonimato in cui sono state relegate per decenni e del quale si sono avvantaggiate, approfittando del clima di generale sottovalutazione”. Ecco, con Quarta mafia, leggendolo e consigliandone la lettura, ciascuno di noi può schierarsi e dare un contributo a questa lotta: le mafie foggiane – al pari delle altre – devono essere considerate un problema di tutti i cittadini italiani. Soltanto allora potranno essere sconfitte. Le mafie non crescono in un istante e non basta un istante per annientarle. Ma conoscerle e comprenderle è il primo dei passi necessari.