HomePrimo PianoCome non si fa politica estera (di Stelio W. Venceslai)
Come non si fa politica estera (di Stelio W. Venceslai)
597
La Turchia è oggi una presenza inquietante dal punto di vista geopolitico. Il sistema politico creato da Erdogan sembra monolitico e voglioso di espansione, nel Caucaso, in Medio Oriente e nel Mediterraneo. È un regime non più tanto laico, anzi, con una forte tendenza ad identificarsi come uno Stato islamico, sorretto da un esercito che è il vero bastione della più recente storia del Paese.
La Turchia, con 82 milioni di abitanti, è un gigante di media grandezza, tra Occidente e Oriente.
La politica di Erdogan è sorretta da una serie di alleanze equivoche, talune più tradizionali, altre più recenti, in virtù delle quali Erdogan si muove con la disinvoltura del nuovo padrone sui confusi assetti politici di queste regioni del globo.
Per muoversi meglio, Ankara fa collezione di Trattati da usare a piacimento suo.
La Turchia è da molto tempo membro influente della NATO e, quindi, un alleato degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. È, però, anche un recente alleato della Federazione russa, da cui riceve importanti forniture militari, fuori dal processo di standardizzazione degli armamenti auspicato (sic!) dalla NATO.
Ha combattuto contro lo Stato islamico rifornendolo, allo stesso tempo, di uomini e di risorse, trafficando con il petrolio prodotto da quello pseudo-Stato.
Ha combattuto contro i Kurdi siriani, che si battevano contro la Siria e lo Stato islamico. In associazione con i Russi, ha sostenuto e sostiene il sanguinario e traballante regime siriano.
Nell’ultima guerra per il Nagorno-Karabach è intervenuta pesantemente a favore dell’Azerbaigian contro gli Armeni, ma con l’ostilità di Mosca che non gradisce l’estensione dell’influenza diplomatica, economica e militare turca nei nuovi Paesi turcofoni nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
È entrata in Libia, nel vuoto diplomatico e d’idee di Francia e Italia nel Mediterraneo, atteggiandosi a protettrice di una delle fazioni libiche, quella di Haftar, fornendo assistenza militare e costruendo una linea fortificata nel deserto, che separa definitivamente, dal punto di vista militare, la Cirenaica dalla Tripolitania, secondo un vecchio disegno di spartizione della Libia che interessa molto l’Egitto, peraltro solidissimo alleato degli Stati Uniti. In Libia, però, è in contrasto con la Russia che appoggia, invece, un’altra fazione, cui fornisce i mercenari del gruppo privato Wagner.
Non sono giri di valzer, ma questa è la narrazione di un disegno d’espansione nei territori dell’antico impero ottomano e l’antico mare nostrum sta diventando un mare ottomano. Alla lunga, tutte queste contraddizioni non potranno non esplodere ma, al momento, stanno ridisegnando gli equilibri politici regionali.
I rapporti con l’Unione europea sono pessimi, e a buon ragione.
La Turchia ha fatto la fila per decenni per entrare nell’Unione, urtandosi contro l’ostilità preconcetta della Francia e, alla fine, l’adesione è fallita. È stato un gravissimo errore perché l’ingresso di Ankara avrebbe rafforzato l’Unione, dimostrato la tolleranza religiosa occidentale e creato una maggiore coesione tra la NATO, l’Unione europea e la Turchia.
Oggi la Turchia, a torto o a ragione, molesta le acque greche e si pone in una posizione di ricatto rispetto all’Europa, nei cui confronti può scatenare l’esodo di 4 milioni di rifugiati siriani nel suo territorio.
Bruxelles paga 6 miliardi di euro perché Erdogan se li tenga a casa sua e, intanto, ad Ankara i diritti civili sono progressivamente limitati (a quando il partito unico del Presidente?), si parla di ristabilire la pena di morte (abolita al tempo in cui la Turchia sperava di entrare nell’Unione) e si denuncia il Trattato di Istanbul per i diritti delle donne, nonostante le proteste di piazza.
Ad Ankara si è recata la Von der Layen per rinegoziare l’accordo sugli emigranti. In realtà, non è un accordo, ma l’accettazione di un ricatto.
L’incapacità europea di definire una sua politica nei confronti dell’immigrazione la trasforma in una comoda mangiatoia per gli interessi imperiali di Erdogan. Come il non compianto Trump e Bolsonaro, Erdogan non ama il multilateralismo, preferisce le trattative bilaterali, con il bastone e la carota.
Ad Ankara, tre ministri seduti e la Presidente dell’Unione lasciata in piedi davanti al neo Califfo sono l’espressione evidente dell’opinione di Erdogan sulle donne e sull’importanza da attribuire all’Unione europea. Una vacca da mungere e nulla di più.
Per l’Europa, non è un bel momento, anzi, è il prologo dell’affondamento. La Presidenza von der Layen comincia ad essere un disastro, tra regole tanto severe da essere inutili e confusioni e le gravissime incertezze sui vaccini. La politica estera non c’è, non basta la potenza economica degli Stati membri, peraltro gravemente insidiata dalla pandemia, dietro non c’è un esercito che faccia paura.
I tempi del sembrare sono finiti, occorre essere, e l’Europa non c’è.