Tabulati, allarme dei pm: “le inchieste a rischio”
Servono per capire chi chiama chi e da dove. Ora una sentenza europea ha stabilito che deve essere un gip ad autorizzarli. Riunioni in corso in varie Procuredi Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli | 10 APRILE 2021
Forti preoccupazioni nelle Procure italiane: potrebbe essere limitata e resa più macchinosa l’acquisizione dei tabulati telefonici da usare nelle indagini giudiziarie. I tabulati dicono chi telefona, a chi ha telefonato, quando, quante volte, quanto a lungo. Ma anche dove sono quelli che chiamano e quelli che rispondono, perché individuano le “celle” tra cui si svolgono le chiamate. “Sono un insostituibile strumento quotidiano di lavoro per le nostre inchieste”, spiega Laura Pedio, procuratore aggiunto a Milano. Ora a rischio. Il 2 marzo 2021, infatti, si è pronunciata la Corte di giustizia europea, in risposta a un quesito sollevato a proposito di un processo avvenuto in Estonia. La sentenza della “Grande sezione” della Corte chiede che l’accesso del pubblico ministero ai tabulati sia subordinato all’autorizzazione di un giudice, di una “autorità pubblica indipendente”. Avviene già così per le intercettazioni telefoniche e ambientali, in cui deve essere il giudice per le indagini preliminari (gip) a firmare l’autorizzazione al pm per poter intercettare. Nei casi urgenti, il pm dispone l’intercettazione e poi il gip la convalida (o la sospende).
I tabulati, invece, finora sono acquisiti direttamente dai pm senza bisogno di alcuna autorizzazione. “Possiamo chiedere alle compagnie telefoniche i contatti degli ultimi due anni”, dice Pedio, “e anche più lontani nel tempo, in caso di indagini su reati di mafia e terrorismo”. Ora le Procure italiane s’interrogano su che cosa potrebbe succedere dopo la sentenza della Corte europea. In Parlamento c’è chi si è già mosso per introdurre limitazioni anche in Italia: un ordine del giorno presentato alla Camera da Enrico Costa (ex Forza Italia, oggi Azione) e firmato da Lucia Annibali (Italia Viva) e Riccardo Magi (Più Europa) propone di recepire quella sentenza rendendo obbligatorio, per l’impiego dei tabulati, il consenso del giudice.
Resta però aperta una questione preliminare: la sentenza chiede l’intervento di una “autorità pubblica indipendente” e il pm in Italia, a differenza che in Estonia e in altri Paesi europei, non è soggetto al potere esecutivo, ma fa parte dell’Ordine giudiziario; è dunque “autorità pubblica indipendente”. “Nel nostro ordinamento, il pubblico ministero è già indipendente, dunque quella sentenza potrebbe non valere per noi”, argomenta Pedio. Lo aveva già dichiarato al Fatto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Santalucia (ex capo dell’ufficio legislativo al ministero della Giustizia quando ministro era Andrea Orlando): l’Italia non avrebbe alcun bisogno di una nuova norma in proposito, perché da noi “la pubblica accusa, a differenza che in altri Paesi d’Europa, gode della garanzia e autonomia del pm italiano, che è un magistrato dell’Ordine giudiziario”. “Resta però il rischio”, continua Laura Pedio, “che qualche avvocato possa sollevare in aula eccezione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, con il rischio di una pronuncia che sarebbe retroattiva e coinvolgerebbe anche i processi in corso”. Sarebbe un terremoto giudiziario.
Per evitare sorprese, la Procura di Milano ha già provato, per una sua inchiesta, a chiedere al gip l’autorizzazione all’acquisizione dei tabulati. La risposta del giudice è stata, in base alle norme vigenti, un secco “non luogo a provvedere”: non è – per ora – compito nostro, dice l’Ufficio del giudice dell’indagine preliminare. La questione è stata posta anche in un processo davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano: i giudici hanno respinto l’istanza e tenuto nel loro fascicolo i tabulati, perché erano stati comunque acquisiti prima della sentenza europea.
E per il futuro? Restano le incertezze e le preoccupazioni. Tanto che i pm della Procura di Roma si stanno riunendo proprio in questi giorni per discutere la questione. Nella capitale indicano come problema vero quello dei reati per cui sarà possibile chiedere l’autorizzazione al gip ad acquisire i tabulati. Si ragiona dunque sui “ragionevoli sospetti di gravi reati”. Ma quali sono i “ragionevoli sospetti” – si chiedono i magistrati capitolini – e quali i “gravi reati”? Per gravi reati si potrebbe intendere quelli che prevedono la possibilità di intercettare: ma questo escluderebbe reati come il traffico di influenze, per dimostrare il quale i tabulati sono invece essenziali. Ecco dunque la preoccupazione che una serie di indagini possano cominciare a saltare.
In questa situazione d’incertezza, il procuratore di Napoli, Gianni Melillo, non è contrario a una regolazione per legge della questione, anche perché altrimenti perdurerebbe un grave stato di dubbio, con il rischio di poter arrivare a mettere in discussione tutti i processi, anche passati, in cui siano stati usati come fonte di prova i tabulati acquisiti senza l’autorizzazione del gip. Una legge metterebbe al sicuro almeno i procedimenti del passato.
Da Milano, Laura Pedio ritiene che sarebbe comunque “una iattura la necessità di chiedere l’autorizzazione al gip: allungherebbe i tempi e ridurrebbe la possibilità di fare indagini”. Suggeriscono una soluzione sia il presidente dell’Anm Santalucia, sia altri magistrati delle Procure italiane: “Le indagini dovrebbero essere protette da una eventuale norma, simile a quella che vale per le intercettazioni, che renda possibile l’intervento d’urgenza del pm, poi eventualmente sottoposto alla convalida del giudice”.
Gaetano Paci, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, aveva spiegato al Fatto nei giorni scorsi che la sentenza della Corte di giustizia amplia la sfera di riservatezza della persona da garantire con un provvedimento del giudice: non solo i contenuti, ma anche i dati estrinseci (tempo, luogo, circuito…) dovrebbero essere protetti e garantiti dall’intervento di un giudice. Anche per lui, la soluzione potrebbe essere quella già in uso per le intercettazioni: decisione d’urgenza del pm e successiva convalida del gip.
Open, ancora guai per Lotti: ora è indagato per corruzione
La Fondazione – La cassaforte del renzismodi Antonio Massari | 10 APRILE 2021
L’inchiesta fiorentina sulla fondazione Open (che vede indagati per finanziamento illecito l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, il componente del cda Marco Carrai e il presidente di Open Alberto Bianchi, quest’ultimo accusato anche di traffico d’influenze) lavora da tempo su un’ipotesi di reato più grave, la corruzione, contestata in questi giorni a Lotti, Bianchi, all’imprenditore abruzzese Alfonso Toto e a un altro uomo legato al Giglio magico, Patrizio Donnini, creatore di Dot Media, società di comunicazione che ha lavorato anche per la kermesse renziana, la Leopolda. I quattro hanno saputo di essere indagati con la notifica della proroga delle indagini per altri 6 mesi.
Nel documento è contestato il reato, ma non è descritta la condotta illecita. I difensori di Lotti, Ester Molinaro e Franco Coppi, ieri hanno precisato di “non poter offrire, al momento, alcuna ulteriore informazione poiché l’atto non descrive i fatti sui quali vertono le indagini”. I nomi degli indagati, incrociati con gli atti dell’inchiesta, consentono però di delineare il perimetro investigativo nel quale si sono mossi il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi. Patrizio Donnini e la società Renexia del gruppo Toto emergono in un altro filone d’inchiesta già nel 2019. In quel momento, Donnini è accusato di autoriciclaggio e appropriazione indebita in concorso con l’amministratore delegato di Renexia, Lino Bergonzi. Il motivo: tra il 2016 e il 2017 la Immobil Green Srl (di cui Donnini deteneva il 5%) vende alla Renexia Spa cinque aziende operanti nell’eolico e, piazzandole al quadruplo del prezzo d’acquisto, incassa una plusvalenza di 950 mila euro in totale.
L’eolico però non è il business abituale di Donnini. Che non si limita a fare da mediatore. Rischia in proprio: acquista e poi rivende. Da qui il sospetto degli investigatori: era certo che avrebbe rivenduto a Renexia? E perché?
Bianchi è a sua volta indagato per finanziamento illecito e traffico di influenze. Nel 2016 la Toto Costruzioni affida a Bianchi una consulenza legata a un accordo per una transazione con Autostrade Spa da circa 70 milioni di euro. Una consulenza che però, secondo gli investigatori, è in realtà un finanziamento a Open camuffato, poiché in parte entra proprio nelle casse della Fondazione. Oggi si scopre che anche a Bianchi (come a Donnini) viene contestata la corruzione (una “ipotesi vaga e fumosa” commenta l’avvocato di Bianchi, Nino D’Avirro).
Ma andiamo avanti. La stessa Fondazione Open, sempre secondo l’accusa, è a sua volta il camuffamento di qualcos’altro: nei fatti sarebbe l’“articolazione” di un “partito politico”. Nelle informative della Guardia di Finanza c’è un passaggio in cui si legge di un interessamento di Lotti: “Si rileva l’interessamento dell’onorevole, all’epoca sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, con il quale Bianchi, ai primi del mese di gennaio 2016 (presumibilmente il 4 gennaio 2016), avrebbe avuto una riunione e consegnato l’‘appunto Toto 15.7.15’, riferendogli l’esito di una riunione tenutasi il 5 aprile 2016 in merito alle trattative in corso tra Rti e Aspi”. Aspi è Autostrade per l’Italia Spa. In questo quartetto – Lotti, Bianchi, Donnini e Toto – l’unico a vestire il ruolo di pubblico ufficiale, quindi il potenziale corrotto per un dovere contrario ai propri doveri d’ufficio, è proprio Lotti. Che però non ha ruoli nel ministero per le Infrastrutture, quello più sensibile per Toto, che è retto da Graziano Delrio (non indagato, ndr).
In quei mesi appare in Finanziaria un emendamento che sembra cancellare 400 milioni di euro di debiti che Toto deve all’Anas. Delrio ribatte: “La sentenza di un tribunale dice che quei soldi vanno al ministero delle Infrastrutture. L’emendamento mira a un’altra cosa: garantire da subito la partenza dei lavori per la messa in sicurezza dell’autostrada A24-A25 dove il rischio sismico è altissimo. Abbiamo concesso che questi soldi vengano restituiti più avanti”.
Toto Costruzioni ieri ha precisato che Alfonso Toto ha da tempo lasciato le cariche societarie per far valere le sue ragioni e che l’incarico conferito a Bianchi aveva un solo fine: tutelare la società nelle controversie legali.
In morte di un bastardo
Jovan Divjak raccontava di essere vissuto a Sarajevo sempre nello stesso quartiere, a due passi da un’antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo, e salendo la via, poco sopra, c’era il seminario cattolico della Bosnia.
Divjak era un militare, era stato della guardia personale di Tito, era nato a Belgrado ed era serbo, e quando i serbi assediarono Sarajevo decise di diventare il traditore, di guidare la resistenza di Sarajevo per le sue chiese ortodosse, le sue moschee, le sinagoghe, le etnie conviventi in uno scandaloso meticciato e che facevano di Sarajevo, agli occhi dei nazionalisti, la città bastarda. Scelse di essere bastardo e di stare coi bastardi perché vedeva il mondo al contrario, e pensava che gli uomini sono tutti uguali, e ucciderli per la loro fede e la loro nazionalità è la barbarie.
E mentre i serbi ancora sparavano per fare fuori i bastardi, e bruciavano le scuole e le biblioteche, Divjak guardò oltre la guerra e fondò la sua scuola per gli orfani, che fossero croati, bosniaci, serbi, ebrei, musulmani, cristiani, rom, perché nel suo mondo al contrario sono tutti uguali, specialmente gli orfani. Dalla scuola sono usciti ingegneri, avvocati, registi e scrittori, e in un video su internet, mentre l’artiglieria serba infuria dalle colline, lo si vede issarsi sulle mani con le gambe all’insù.
Lo fece anche davanti a Gigi Riva, allora inviato del Giorno: ho 55 anni, disse Divjak, e per mostrarsi giovane si issò sulle mani con le gambe all’insù. O forse, nel suo mondo al contrario, talvolta provava a vederlo come lo vedono i dritti. Divjak è morto giovedì a Sarajevo.
Da Cingolani sì alle trivelle: sette permessi per 11 pozzi
Gas e Petrolio – Il ministro autorizza progetti per cui non vale la moratoria: uno è per esplorare in Sicilia. Altri sono in fase istruttoria: saranno firmati
di Virginia Della Sala | 10 APRILE 2021