mercoledì, 25 Dicembre 2024
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Líex sindaco di Lodi Simone Uggetti assolto in appello per il "caso piscine" ascolta la sentenza a Milano, 25 Maggio 2021 Ansa/Matteo Corner

LA GIUSTIZIA? E’ UNA FARSA! VIENE ASSOLTO “PER NON AVER COMMESSO IL FATTO” FINANCHE CHI HA CONFESSATO

“Polpetta” per Maresca: Cesaro a rischio manette

“Polpetta” per Maresca: Cesaro a rischio manette

L’ossimoro del centrodestra. Il pm anticamorra Catello Maresca, sotto scorta per le minacce di morte del clan dei Casalesi, candidato sindaco di Napoli a capo di una coalizione dove è un punto di riferimento, nell’ombra, la macchina dei consensi del senatore di Forza Italia, Luigi Cesaro, inseguito da inchieste e richieste di arresto per collusioni camorristiche. “Non salirò mai su un palco con lui”, la risposta tranchant di Maresca a una domanda del quotidiano Domani. Un pochino più sfumata la risposta, rilasciata in una successiva intervista al Mattino, a una domanda sull’eventuale imbarazzo a stare nello stesso schieramento di Cesaro: “Non posso nutrire alcun imbarazzo per qualcosa che non esiste e non potrà mai esistere”. Che sembra quasi invitare Cesaro a uscire da Forza Italia, una casa dove il senatore abita da più di venti anni. Mentre il magistrato c’è appena entrato come ospite. Civico.

Non è semplice stare appresso a tutte le inchieste che hanno colpito (i) Cesaro. Dell’ultima c’è stato un recente sviluppo: il Senato ha autorizzato l’utilizzo di 6 intercettazioni contro Luigi ’a purpetta, estrapolate da un’indagine della Dda di Napoli sulle infiltrazioni del clan nel comune di Sant’Antimo. Il nastro va riavvolto al giugno 2020, quando furono arrestati (di nuovo) i fratelli Aniello e Raffaele Cesaro (già sotto processo per altra inchiesta del 2017 che pure toccò Luigi) e fu arrestato per la prima volta l’altro fratello Antimo. Mentre per Luigi Cesaro, anche lui indagato di concorso esterno in associazione camorristica, il gip Maria Luisa Miranda decise di non decidere sulla richiesta di arresto in carcere. Preferì chiedere prima al Senato un chiarimento sull’utilizzabilità di alcune intercettazioni indirette del parlamentare. Di quelle 28 conversazioni, ora gliene tornano indietro sei. In base alle quali provvederà sulla richiesta di arresto.

L’eventuale ordinanza verrebbe poi notificata al Senato per il consueto iter sull’accoglimento o meno che Cesaro conosce bene, non essendo la prima volta che gli capita. Finora, come nel 2014 per il Pip di Lusciano (fu poi prosciolto), o come l’anno scorso per un’accusa di corruzione della Procura di Torre Annunziata, il Riesame l’ha sempre annullata prima che la giunta per le autorizzazioni analizzasse il fascicolo.

Cesaro ha attraversato acquazzoni senza bagnarsi. Salvandosi anche con le guarentigie parlamentari o le modifiche giurisprudenziali sull’utilizzo delle intercettazioni. Come nel caso dell’inchiesta di Torre Annunziata su un progetto di housing sociale di Castellammare di Stabia sponsorizzato da Adolfo Greco, imprenditore del latte che negli anni 70 con altri due soci acquistò il Castello Mediceo a Raffaele Cutolo e nel 1981 accompagnò gli uomini dei servizi segreti nel carcere di Ascoli Piceno a trattare con il boss della Nco, la liberazione dell’assessore regionale Ciro Cirillo rapito dalle Br. Cesaro fu rinviato a giudizio – e assolto – nel maxi-processo ai cutoliani nel quale emerse che si era rivolto a donna Rosetta Cutolo per chiedere protezione. Ora i pm torresi lo accusano di aver ricevuto da Greco una mazzetta da 10 mila euro. Hanno intercettato l’imprenditore mentre dice “prepara diecimila, debbo fare un servizio…”. Intercettazione, come altre, inutilizzabile per il Riesame, perché proveniente da altra indagine su reati di camorra a carico di Greco. Il ricorso in Cassazione dei pm è stato accolto. Ma le motivazioni non sono ancora uscite, a distanza di mesi. Il tintinnio di manette è un rumore di fondo della vita di Cesaro. Ma è rimasto, per l’appunto, solo un rumore di fondo.

 Ma l’ex sindaco assolto ha confessato

Lodi, Di Maio chiede scusa. Ma l’ex sindaco assolto ha confessato
 

Quando un caso giudiziario diventa un caso politico, di solito va a finire che a farne le spese sono tanto la giustizia quanto la politica. Il caso Uggetti, per esempio. Si apre il 3 maggio 2016, quando viene arrestato il sindaco Pd di Lodi, Simone Uggetti, successore e fedelissimo del vicesegretario renziano del Partito democratico, Lorenzo Guerini.

Condannato in primo grado a 10 mesi per turbativa d’asta, ora è assolto in appello. Parte la consueta onda dei sedicenti “garantisti” che attaccano la magistratura e il “partito delle manette”, si scagliano contro la “barbarie del giustizialismo” e santificano Uggetti come vittima. A questo però si aggiunge – ecco la novità – la reazione di Luigi Di Maio (il Pd nel 2016 era concorrente dei 5 Stelle, oggi è alleato) che con una lettera al Foglio chiede scusa per la “gogna mediatica” a cui Uggetti fu sottoposto. Giuseppe Conte aggiunge che “riconoscere un errore è una virtù”, Chiara Appendino loda il suo “coraggio”, Stefano Buffagni arriva a proporre di candidare Uggetti nel collegio vacante di Siena, a titolo risarcitorio. Eppure il resto del M5S, rimasto ufficialmente in silenzio, è atterrito dall’ennesima inversione a U e dai toni feroci con cui Di Maio fa autocritica, arrivando a definire i comportamenti di allora come “grotteschi e disdicevoli”.

Ma i fatti, i nudi fatti, come si sono svolti, al di là delle qualificazioni giuridiche e delle altalenanti sentenze? L’arresto del sindaco, chiesto dal pubblico ministero in base a denunce e intercettazioni, fu concesso dal giudice perché Uggetti stava cercando di distruggere le prove e inquinare le indagini. Era accusato di aver truccato un bando d’appalto comunale per favorire un’azienda chiamata addirittura a partecipare alla stesura del bando: una gara self-service. Aveva poi fatto pressioni su una funzionaria del Comune, Caterina Uggè, che gli aveva detto che non se la sentiva di forzare le norme e poi era andata a denunciarlo. Quando poi lo avevano avvertito di essere sotto indagine, Uggetti si era presentato dal comandante locale della Guardia di finanza per chiedere un trattamento di favore. Non avendolo ottenuto, si era dato da fare per cancellare le prove dal suo pc e dal telefono: “Estrai tutti i documenti e formattali!”, ordina (intercettato). Non ci riesce e viene arrestato. Il gip scrive che il sindaco dimostra, nelle intercettazioni e nelle testimonianze, una “personalità negativa e abietta”, “proterva” e “spregiudicata”. Truccava appalti, intimidiva la funzionaria che non lo voleva assecondare, aveva a disposizione talpe che lo informavano sull’indagine, chiedeva un occhio di riguardo al comandante della polizia giudiziaria, provava a distruggere le prove. Dopo il suo arresto, i 5 Stelle chiedono che si dimetta da sindaco. E lui lo fa, anche perché ammette le sue colpe, confessa che sì, ha truccato la gara: ma solo per il bene della città, aggiunge a sua discolpa.

Tutta colpa della piscina di Guerini: Uggetti viola le leggi per cercare di aggiustare una situazione disastrosa creata dal suo predecessore. È il 2007 quando Guerini, allora sindaco di Lodi, lancia il progetto La Faustina, grande centro sportivo comunale con piscina coperta. Costo: 13,6 milioni di euro. È un bagno di sangue. Ci perde il Comune e ci perdono i privati coinvolti nell’operazione di project financing. La ditta costruttrice, la Iter coop di Lugo di Romagna, nel 2014 dichiara fallimento. A gestire La Faustina arriva la società Sporting Lodi, che chiude la stagione 2014-2015 con 500 mila euro di buco, che si aggiungono ai 350 mila della stagione precedente. È a questo punto che Uggetti cerca il modo per aggiustare le cose: lancia una gara (truccata) per la gestione delle due piscine scoperte Belgiardino e Concardi (che a differenza della Faustina rendono bene) e con un bando su misura la fa vincere alla Sporting Lodi, per compensarla delle perdite della Faustina. In primo grado, la sentenza ritiene provata “l’esistenza del fatto antigiuridico e colpevole degli imputati” e sostiene che “non vi è dubbio che Uggetti e Marini (il legale della società favorita, ndr) non solo abbiano interloquito illegittimamente tra loro per tutta la durata della procedura, dalla sua ideazione a oltre l’aggiudicazione, ma abbiano di fatto gestito e diretto l’intero sviluppo della stessa, fino a concordare addirittura il sistema per cancellare eventuali prove compromettenti”. Tutto puntualmente provato in diretta da intercettazioni e documenti e confermato dalla confessione di Uggetti. Il 25 maggio 2021, la Corte d’appello di Milano assolve perché “il fatto non sussiste”. Leggeremo le motivazioni della sentenza, per capire questa svolta. I fatti restano però quelli qui raccontati e ammessi dallo stesso Uggetti, che ora diventa un eroe, ingiustamente sottoposto a “gogna mediatica”. Cui ha partecipato, ammettendo le sue colpe.

FONTE: di  | 29 MAGGIO 2021

MANI PULITE 25 ANNI DOPO

di Gianni Barbacetto ,Marco Travaglio ,Peter Gomez12€Acquista

La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti

La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti

Il business del candidato di Giorgia Meloni a Roma

Il “candidato civico” di Giorgia Meloni, Enrico Michetti, è sotto indagine della Corte dei Conti del Lazio per alcuni appalti milionari affidati da enti pubblici senza gara. La Procura contabile è abbottonatissima, ma la notizia non depone a favore del cavallo che, forte dei sondaggi, potrebbe correre per il centrodestra la partita del Campidoglio. È anche uno smacco per il candidato-docente che all’Università di Cassino insegna proprio Diritto degli enti locali, e la cui cifra professionale è usata dalla Meloni a metro della distanza coi candidati più “politici” e come livella per gli eccessi istrionici da tribuno delle radio romane.

Ma per chi voteranno i romani? Per il professore, per l’avvocato, l’opinionista o l’imprenditore? Il curriculum di Michetti è lungo ben 18 pagine, più di quello di Draghi. Dal 2017 è insignito del titolo di “benemerito Cavaliere della Repubblica”. Come avvocato dal 1996 difende centinaia di amministratori locali laziali, dal Comune di Ariccia a Zagarolo. Ha difeso Marrazzo, la Regione Lazio, l’Atac e l’Asl dalle pretese della giustizia contabile che bussa ora alla sua porta: lo studio legale in via Giovanni Nicotera 29, a Roma. Qui ha sede legale la “Fondazione Gazzetta Amministrativa”, centro nevralgico di una florida industria di servizi per la pubblica amministrazione (Pa) ma anche fonte di guai per alcuni enti che l’hanno alimentata e si ritrovano ora come Pinocchio tra i gendarmi: l’Anac da una parte, la Corte dei Conti dall’altra.

Abbiamo chiamato il quasi-candidato per saperne di più, non ha mai risposto. Il Michetti-imprenditore potrebbe sembrare solo il “re” dei siti civetta della Pa, ma sarebbe riduttivo. La sua creatura più nota è la Gazzetta amministrativa della Repubblica Italiana, una piattaforma online che per grafica e loghi evoca quella ufficiale edita dal Poligrafico dello Stato. Ma nulla c’entra, e neppure col sito giustiziamministrativa.it. La Gazzetta ha poi figliato “L’Accademia della Pa” per offrire corsi di alta formazione, da non confondere con la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) fondata nel 1957 per sfornare quadri e dirigenti sotto l’ombrello del governo. “Mai sentita”, taglia corto la funzionaria che da 12 anni si occupa di formazione alla SNA. Sul sito di Michetti si cercano docenti “in vista dell’apertura delle sedi dell’Accademia in tutto il territorio nazionale”. Per loro, dicono dal call center, è previsto un rimborso spese. Nel 2013 Michetti lancia poi il sito Quotidiano della Pa, da lui diretto. Sembra un bollettino ufficiale del ministero, ma non lo è.

Torniamo alla Gazzetta, il cuore dell’impero: offre soluzioni di formazione, banche dati di norme, sentenze e notizie agli enti locali. Hanno aderito oltre 1.200 enti che – precisano dal call center – “non pagano per servizi commerciali, bensì versano una quota di sottoscrizione in favore della Fondazione”. La quota minima è 100 euro l’anno ma c’è anche l’“adesione istituzionale” da 10mila. Tra gli aderenti-paganti ci sono piccoli e medi comuni, ma pure l’ Accademia di Brera. Le “quote” raccolte sono briciole di un business che sforna torte ben più grosse, anche grazie ad affidamenti senza gara.

Oltre un milione di euro solo dal Consiglio Regionale del Lazio, che nel 2008 spicca il volo con gli abbonamenti alla rivista giuridica per 33mila euro l’anno. Nel 2011 il Consiglio acquista 1500 accessi online al “sistema informativo e di supporto tecnico-giuridico” per i dipendenti: 675mila euro oltre Iva. Nel 2012 compra anche la formazione per loro: 360mila euro. Spese finite nel mirino dell’Anac: quegli affidamenti, secondo l’Anticorruzione, sono tutti diretti, senza gara pubblica e senza una preliminare ricerca comparativa di mercato e dunque illegittimi. A fine 2018, li deferisce alla Procura della Corte dei Conti. Lo stesso fa con altri. Al fondo c’è un nodo tecnico-giuridico raffinato. Se si telefona alla Gazzetta, il refrain è sempre lo stesso: “Siamo una Fondazione istituzionale partecipata da enti pubblici, non vendiamo servizi commerciali, ma forniamo soluzioni in convenzione con gli enti che aderiscono al progetto, sottoscrivendo le quote”. Per l’Anac però si tratta di comuni “forniture di servizi svolti a titolo oneroso”, acquistate perlopiù da un soggetto privato (Gazzetta Amministrativa Srl) e come tali “non possono sussistere i presupposti applicativi degli accordi tra pubbliche amministrazioni”. Come fosse un paravento per aggirare il codice degli appalti.
La Fondazione per tutto brilla, salvo la trasparenza. Dal 2013 offre ai comuni il servizio “Amministrazione Trasparente”. Pagando la quota di 100 euro possono caricare su un sito ospite bilanci, personale, bandi, spese etc. Ma la Fondazione si preoccupa poco dei propri: sul suo sito non c’è nulla di tutto questo, nonostante la stessa legge (art. 51) li imponga alle “Fondazioni e agli enti di diritto privato… con bilancio superiore ai 500mila euro la cui attività sia finanziata in modo maggioritario da pubbliche amministrazioni”. Sarebbe questo il caso, ma la trasparenza si fa col sito degli altri.

FONTE: di  | 29 MAGGIO 202

I 2 Matteo a cena insieme per festeggiare Angelucci

I 2 Matteo a cena insieme per festeggiare Angelucci

Compleanno. Renzi e Salvini domenica in una villa ai Castelli Romani per il 49º di Giampaolo, figlio di Antonio e editore di “Libero” e “Il Tempo”

Cambia la location, ma non i protagonisti. Se un anno e mezzo fa, nel novembre 2019, Matteo Renzi e Matteo Salvini si erano ritrovati nella villa di Denis Verdini sulle colline di Firenze per bere un bicchiere di Chianti e parlare del futuro del governo Conte-2, poi caduto un anno dopo per mano del leader di Italia Viva, ora che l’ex sherpa berlusconiano è agli arresti domiciliari i due “Matteo” domenica sera si sono incontrati nella villa ai Castelli romani di Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia e re delle cliniche private nel Lazio.

L’occasione era il quarantanovesimo compleanno di Giampaolo Angelucci, primo dei tre figli di Antonio che detiene la Tosinvest ed è l’editore dei quotidiani di famiglia Libero, Il Tempo e i Corrieri del Centro Italia. Chi collega la famiglia Angelucci con Renzi e Salvini, gli unici leader politici presenti alla cena, è sempre lui, Verdini, a cui proprio nel febbraio 2018 Angelucci Jr. affidò la presidenza del ramo dell’editoria di Tosinvest prima dei guai giudiziari che lo hanno portato in carcere e poi ai domiciliari per la condanna a 6 anni e 6 mesi per il crac del credito cooperativo fiorentino. Alla cena del 23 maggio era presente anche Francesca Verdini, figlia di Denis e compagna di Salvini. Attovagliati nella lussuosa villa c’erano solo pochi altri eletti tra cui l’amica di famiglia e assessore all’Istruzione in Lombardia, Melania Rizzoli, mentre non erano presenti giornalisti, nemmeno i due direttori di Libero: né il nuovo arrivato Alessandro Sallusti né Vittorio Feltri, messo un po’ all’angolo nel quotidiano di viale Majno dopo l’arrivo dell’ex direttore del Giornale.

Fonti vicine al segretario del Carroccio confermano la presenza di Salvini alla cena ma fanno sapere che “non si è incrociato” con Renzi. A quanto risulta al Fatto, però, i due si sarebbero visti eccome finendo anche a tavola insieme.

I due “Matteo” si sono fermati a lungo a parlare con Angelucci padre e figlio. Cosa si siano detti non è dato saperlo. E non è una questione di poco conto visto quello che si sta muovendo nei giornali di destra: mentre non è ancora stata trovata la soluzione al busillis della direzione del Giornale, si racconta che la “dipartita” della coppia Feltri-Senaldi a Libero sia stata motivata dalla voglia degli Angelucci di dare un’identità più “governista” al quotidiano milanese. E sullo sfondo resta anche la questione politica visto che negli ultimi mesi Renzi e Salvini hanno ripreso a sentirsi con regolarità, almeno dal dicembre scorso quando il leader di Iv decise di aprire la crisi del governo Conte-2.

Dopo aver condiviso la scelta di un governo di larghe intese guidato da Mario Draghi, nelle ultime settimane i due “Matteo” hanno portato avanti delle battaglie comuni: dalle riaperture alla Giustizia passando per un asse parlamentare che si è consolidato sulla presidenza del Copasir (entrambi hanno incontrato lo 007 Marco Mancini) e, da ultimo, sul ddl Zan con i renziani che chiedono di modificare il testo come la Lega. Nel mezzo, il 23 e il 24 dicembre scorso, la visita separata nel carcere di Rebibbia all’allora detenuto Verdini. L’antivigilia di Natale a trovare Denis passò anche Antonio Angelucci.

Il giallo dell’altra funivia: chiusa dopo il Mottarone

Il giallo dell’altra funivia: chiusa dopo il Mottarone

C’è una “coincidenza”, definita dalla Procura di Verbania “significativa e singolare”. Dopo gli arresti per la strage di Stresa, c’è un’altra funivia ad aver chiuso frettolosamente: l’impianto Nostra Signora di Montallegro, in provincia di Genova. Il Comune di Rapallo, un paio di giorni fa, si è affrettato a comunicare che si tratta di una “manutenzione ordinaria già programmata”. Una versione che non convince gli investigatori che stanno indagando sulle cause del disastro che domenica scorsa ha provocato la morte di 14 persone, fra cui due bambini.La struttura chiusa in Liguria, notano i magistrati, ha lo stesso direttore d’esercizio appena finito in carcere: Enrico Perocchio, 51, “dipendente della Leitner”, società di Vipiteno che aveva ristrutturato fra il 2014 e il 2016 l’impianto del monte Mottarone, e che ne curava la manutenzione. Inoltre la funivia Nostra Signora di Montallegro non viene interrotta in un momento qualsiasi, ma proprio “a seguito dell’arresto di Perocchio”. I sospetti si accompagnano a un nuovo scenario, emerso nelle ultime ore: le prime falsificazioni dei documenti emerse nell’impianto del Mottarone, attribuite al capo del servizio Gabriele Tadini, a cui, scrivono i pm, “potrebbero aggiungersene altre”.

i primi interrogatori vanno in scena già domenica 23 maggio, a poche ore dalla strage. I carabinieri della compagnia di Verbania, guidati dal capitano Luca Geminale, convocano in caserma i dipendenti della società di gestione Ferrovie del Mottarone srl: Emanuele Rossi, Stefania Bazzarro, Ahmed El Kattabi, Pietro Tarizzo, Fabrizio Coppi. Tutti confermano una pratica “assolutamente vietata”, quando “si trasportano passeggeri”, “perché inibisce l’innesco del sistema d’emergenza”: l’utilizzo dei cosiddetti “forchettoni”, staffe di metallo che, inserite, bloccavano i freni d’emergenza. Non è un dettaglio. I freni sono un dispositivo “essenziale” e “obbligatorio”, perché, in caso di rottura del cavo traente (caso rarissimo, che però è esattamente ciò che si è verificato domenica scorsa) possono salvare le vite di chi è a bordo, agganciando la cabina alla seconda fune, detto portante. Proprio per evitare che qualcuno li dimentichi, erano stati colorati di rosso.

La svolta arriva martedì, quando i pm convocano il capo degli operai, Gabriele Tadini, veterano della funivia, da 38 anni fidato braccio destro del proprietario della concessionaria, Luigi Nerini: è Tadini a inserire i forchettoni, per sua stessa ammissione (i dettagli della sua deposizione nell’articolo a fianco). Una decisione che, però, per chi indaga “viene condivisa e avallata” dai suoi superiori, “Nerini e Perocchio”, si legge nella richiesta di misure cautelari di undici pagine depositata ieri dal procuratore Olimpia Bossi e dal sostituto Laura Carrera. È “irrealistico”, proseguono i magistrati, che non ne fossero informati. I malfunzionamenti andavano avanti da un mese, e “la necessità di non interrompere il funzionamento dell’impianto” sarebbe legata alle “ripercussioni di carattere economico”. La Procura chiede il carcere per tutti e tre, esigenze cautelari motivate dalla “reiterazione del reato”, dal “pericolo di fuga” e da possibile “inquinamento probatorio”.

Sia Nerini che Perocchio (assistiti dagli avvocati Marcello Perillo e Andrea Da Prato) negano le contestazioni. Riguardo alla chiusura di Rapallo, Perocchio precisa, documenti alla mano, come fosse già prevista il 26 aprile. L’ingegnere aveva già sollecitato il Comune di Rapallo a provvedere. Ma forse la chiusura dopo gli arresti è una coincidenza su cui chiedere un chiarimento proprio all’amministrazione comunale.

“Fortuna”, quando i bambini vengono traditi dagli adulti

“Fortuna”, quando i bambini vengono traditi dagli adulti
Fortuna. Nicolangelo Gelormini

Una bambina (Cristina Magnotti) con due nomi, Nancy e Fortuna, una madre e una psicologa (alternativamente interpretate da Valeria Golino e Pina Turco), e una vita difficile. Non a dettare, bensì a ispirare è una tragedia: la morte di Fortuna Loffredo, bambina di sei anni gettata dall’ottavo piano di un palazzo al Parco Verde di Caivano, Napoli, nel 2014. È Fortuna, opera prima di Nicolangelo Gelormini, già assistente di Paolo Sorrentino, che prende la strada più stretta: sottrarre il fatto di cronaca nera al genere d’elezione, il (Neo)realismo, e sublimare nel pudore fantastico.

Alle nostre latitudini non è solo un rischio, ma un azzardo: buona parte della critica italiana ritiene che al sordido, al criminale, all’aberrante si confacciano unicamente la poetica e lo stile informati nel Dopoguerra cinematografico, rielaborati dall’impegno anni Settanta e più recentemente corroborati da Gomorra ed epigoni. Nondimeno, la trasfigurazione non ha evitato le polemiche: il padre di Fortuna, Pietro Loffredo, ha sporto denuncia e chiesto il blocco del film, istanza rigettata dal tribunale di Napoli giacché l’opera non implica danno o dolo ai familiari, ovvero non lede il diritto alla privacy e all’oblio. Del resto, l’intento di Gelormini è dichiaratamente altro dal film-inchiesta. Il regista prende l’inquadratura dallo statuto più ambiguo, se non infido, la semi-soggettiva e ci fa un lungometraggio intero: se il piccolo schermo è uso al Chi l’ha visto?, questo grande, e non solo per formato, si vota al “Come l’ha visto?”, con una terza persona che non è esclusivo appannaggio della protagonista ma di tutti noi. Anziché rassicurare, Gelormini, che scrive con Massimiliano Virgilio, eleva il non riconoscimento – nominale: Nancy/Fortuna; facciale: la madre Rita e la psicologa Gina che si scambiano Golino e Turco – a valore ideologico, traslando il senso di non appartenenza di Fortuna nella sensazione di spaesamento dello spettatore. Fosse soggettiva tout court l’esperienza della piccola vittima sarebbe derubricabile ad alterazione psicofisica, viceversa, la semisoggettiva ci richiama all’assunzione di responsabilità: spogliata dell’infanzia, dell’amore materno, della solidarietà umana, Fortuna pensa di essere una principessa in attesa di tornare sul suo pianeta nello spazio, e noi, chi pensiamo di essere? Il film delega molto allo spettatore, gli chiede di abitare il fuoricampo e di tradurre la sottrazione spettacolare in posizione morale: non è facile, questa trasformazione del fatto di cronaca in epifania cinematografica (ed etica), ma è preziosa. Con Anna e Nicola, gli amici del cuore con cui condivide le giornate di giochi nel palazzone, Fortuna dice di quel che avrebbe potuto essere il suo essere bambina, e di quel che non è stato: il miracolo dell’osceno di Gelormini non elude le colpevolezze, ma alla fedina penale preferisce la fede nel potere immaginifico – e salvifico – del cinema. Non perdetelo.