Taranto è stata avvelenata dalle emissioni nocive prodotte dallo stabilimento Ilva gestito tra il 1995 e il 2012 dalla famiglia Riva. Lo ha stabilito la Corte d’assise di Taranto con la sentenza di primo grado nella quale ha inflitto 26 condanne e 280 anni totali di carcere. Un verdetto pesante, con condanne che superano i 20 anni di reclusione. Al di là dei numeri, la sentenza ha confermato l’esistenza di una vera e propria associazione a delinquere in grado di garantire a Ilva leggi e provvedimenti a essa favorevoli, capaci di neutralizzare la necessità di investimenti costosi per abbattere l’inquinamento o per rendere gli impianti più sicuri per gli operai. L’associazione che aveva al vertice Nicola e Fabio Riva, condannati rispettivamente a 20 e 22 anni di carcere, poteva contare su esponenti del mondo politico, istituzionale, della stampa, delle organizzazioni sindacali, del settore scientifico per concordare soluzioni a basso costo. Tutti alla corte dei Riva.
La logica del massimo profitto al minimo sforzo economico, così, è diventata la causa del disastro ambientale tarantino, dell’avvelenamento di sostanze alimentari che ha costretto le autorità sanitarie ad abbattere oltre 2mila ovini contaminati da diossina e PCB e anche di almeno due incidenti mortali in cui hanno perso la vita due operai poco più che ragazzi: Claudio Marsella e Francesco Zaccaria.
Ieri la Corte d’assise ha presentato il conto. Pesante. Oltre alle condanne per i Riva, il verdetto ha condannato anche una parte della politica: tre anni e 6 mesi per l’ex governatore Nichi Vendola, colpevole di concussione per le pressioni esercitate su Giorgio Assennato, l’ex dg di Arpa Puglia ritenuto troppo severo con la fabbrica. E poi 3 anni per l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido e l’allora assessore all’ambiente Michele Conserva: anche loro avrebbero fatto pressioni sui dirigenti per concedere l’Autorizzazione integrata ambientale alla discarica interna dell’Ilva, che in realtà è stata concessa dopo il sequestro dal governo con uno dei tanti decreti salva-Ilva. La prescrizione invece è intervenuta per numerosi imputati. Tra questi il senatore Nicola Fratoianni, all’epoca dei fatti assessore regionale, che rispondeva di favoreggiamento nei confronti di Vendola e per il quale la Procura aveva chiesto la condanna a 1 anno di reclusione. E prescrizione anche per l’attuale assessore regionale all’agricoltura Donato Pentassuglia, che invece era accusato di favoreggiamento nei confronti di Girolamo Archinà, il potentissimo dirigente che tesseva le trame per combattere i nemici dell’Ilva e che ieri ha rimediato una condanna a 21 anni e mezzo di reclusione.
È stato invece assolto dall’accusa di omissione in atti d’ufficio l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefàno: l’accusa era di non aver adottato alcun provvedimento contro Ilva, nella sua qualità di massima autorità sanitaria del territorio, nonostante fosse pienamente a conoscenza delle “criticità ambientali”. La Procura aveva ritenuto il reato già prescritto, ma la Corte lo ha assolto nel merito perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Assolto anche Bruno Ferrante, ex prefetto di Milano, a capo di Ilva per pochi mesi durante la bufera giudiziaria del 2012.
Il verdetto contiene inoltre le condanne (severe) per i dirigenti dello stabilimento tarantino: pene che vanno da un minimo di 11 anni a un massimo di 21 come nel caso dell’ex direttore Luigi Capogrosso. E infine condanna anche per i membri del cosiddetto “governo ombra”, la rete di fiduciari al servizio di Riva per massimizzare la produzione: a cinque di loro sono state inflitte condanne tra i 17 e i 18 anni di carcere.
La corte ha inoltre accolto la richiesta di confisca dei reparti dell’area a caldo e del profitto incassato grazie agli illeciti amministrativi contestati alle società coinvolte: 2,1 miliardi di euro. Una montagna di denaro cui si aggiungono i maxi risarcimenti che i processi civili dovranno quantificare per le vittime e le istituzioni costituite in giudizio. Oltre 900 in totale: allevatori, mitilicoltori, abitanti del quartiere Tamburi, associazioni ambientaliste, familiari di operai deceduti e di cittadini colpiti da malattie legate all’inquinamento. Uno piccolo esercito di tarantini, che ieri ha sentito più vicino il significato della parola giustizia.