“Riformare la giustizia senza tante storture. Basta tentennamenti”
Gustavo Zagrebelsky: “Gli avvocati che abusano della prescrizione non sono buoni cittadini”
di Silvia Truzzi | 27 GIUGNO 2021
La Giustizia come professione è il titolo dell’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky. Avrebbe potuto essere anche Confessioni di un giurista: il saggio è una guida ragionata attorno al diritto come traduzione mondana di una virtù morale, la giustizia. Ma è anche una lunga lettera d’amore al mestiere di giurista, non priva d’amarezze come accade sempre nei rapporti duraturi.
O forse una lettera d’addio al diritto?
Non ho una risposta sicura. Dopo più di mezzo secolo nel mondo del diritto sento l’esigenza di respirare anche altre atmosfere. Soprattutto visto come viene concepito oggi il mestiere del diritto: una girandola di commi, contro-commi e combinati disposti.
Una severa critica è riservata al diritto come tecnica, cioè all’uso strumentale che professionisti, più o meno consenzienti, fanno del diritto. Il diritto non è più mite?
In buona parte ha cessato di essere cultura, ed è per l’appunto diventato tecnica. Quando si ha a che fare solo con la tecnica (i giuristi di oggi amano parlare di ragionamenti “tecnico-giuridici”) il diritto diventa ciò di cui scrive il Manzoni quando l’avvocato dice al povero Renzo: “Figliuolo a te spetta di dire le cose come stanno, a me di ingarbugliarle”. La riprova sta nel fatto che il diritto in tutti i suoi settori è diventato non un fine, ma un mezzo per sostenere quasi tutto quel che si vuole o che interessa.
Perché rivolgersi all’autorità giudiziaria “è già un fallimento”?
Perché significa l’incapacità di risolvere le controversie di cui la vita è ricca in un rapporto a tu per tu. Nel Vangelo di Matteo un versetto dice: “Prima di andare dal giudice mettiti d’accordo con il tuo avversario”. In altri termini: il ricorso al giudice, in una società sana, è da considerare l’extrema ratio. Mentre nella nostra società, che da questo punto di vista sana non è, in presenza di qualsiasi contrasto si va per avvocati. Questa è una disumanizzazione.
Lei scrive: “La prescrizione è una norma di civiltà. Ma si può ammettere che sia usata per vanificare il processo? Difendersi non vuol dire vanificare”. Perché è un nodo politico così centrale?
Due considerazioni. La prescrizione dei reati che sono lontani nel tempo è una esigenza di civiltà. Diversa è la prescrizione che si determina non perché il reato è sepolto nel tempo, ma perché la macchina della giustizia è inefficiente. Ora l’inefficienza si combatte con l’efficienza. La prescrizione che deriva dall’inefficienza, in linea di principio, non dovrebbe essere assunta come ragione per non perseguire reati che non sono sepolti nell’oblio. Una cosa è la prescrizione sostanziale, necessaria; un’altra cosa è la prescrizione processuale, dovuta all’inefficienza del processo.
E la seconda considerazione?
La prescrizione sostanziale è un’esigenza di giustizia, la prescrizione processuale è una sconfitta della giustizia. Non solo: è diventata uno strumento di abuso del diritto quando viene utilizzata – con tutte le tecniche, i cavilli e gli artifici dalle difese degli imputati – per impedire che si faccia giustizia. Impedire alla giustizia di fare il suo corso non è una cosa buona. Gli avvocati che abusano della prescrizione saranno magari dei bravi legulei nell’interesse dei clienti, ma non sono dei buoni cittadini. Lo stesso dicasi per il legislatore.
Con gli avvocati non è, manzonianamente, tenero. In un passaggio parla degli studi legali come aziende: la giustizia è un brand?