«Dottore,
non sono più
la persona di prima»
così i malati di Long Covid

Strascichi di Marco Imarisio Corriere della Sera

Bergamo. La nebbia che circonda il Long Covid si dirada già nell’atrio dell’ospedale. «Ogni parte di me ha dovuto recuperare la propria funzione, dai muscoli al cervello. E purtroppo non è ancora finita». Nel febbraio 2020 il chirurgo vascolare Riccardo Gotti cura un anziano che si scoprirà poi essere positivo. Due giorni dopo, anche a lui vengono febbre alta e difficoltà respiratorie. A marzo il ricovero, la terapia intensiva, 55 giorni attaccato alla macchina per la circolazione extracorporea, un incubo descritto in un bel libro intitolato Danza di sguardi, ma che non è finito con il ritorno a casa e la riabilitazione. Oggi è al lavoro. Si muove reggendosi a una stampella. «Quando si parla di strascichi del Covid credo di rappresentare un caso limite, ma per molti dimissioni dall’ospedale e negatività non sono la fine della sofferenza».

Non esiste neppure una definizione precisa per quell’insieme di malesseri, dolori e difficoltà di tornare come prima che costituiscono il lascito del coronavirus, e secondo studi recenti colpiscono almeno il 35% delle persone dopo la loro guarigione ufficiale. Quando si parla di Long Covid, è come muoversi su un terreno sconosciuto. «Nonostante gli esami sulla funzione degli organi vadano quasi sempre bene, c’è un numero significativo di ex pazienti che anche a distanza di molti mesi continua a presentare sintomi invalidanti e debilitanti» dice il professor Fabiano Di Marco, direttore del reparto di pneumologia del Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

I numeri

L’ultima volta che ci avevamo parlato era durante la notte più buia del primo lockdown, quando l’ospedale della città più colpita dalla pandemia sembrava l’ultimo avamposto contro l’avanzata di questo male invisibile. Era quasi asserragliato nel suo ufficio al quarto piano della Torre 4, dove viveva, dormiva e lottava assieme a colleghi e infermieri. Tra il 23 febbraio e il 7 aprile 2020, furono ricoverati 1.328 pazienti. Il 33,7%, 448 persone, morì in ospedale, altri 38 entro un anno dalla dimissione. A distanza di mesi dalla guarigione, oltre un terzo dei 918 superstiti di quella prima ondata presentava o lamentava conseguenze. Con una vasta gamma di sintomi che vanno dalla debolezza diffusa ai dolori muscolari, difficoltà respiratorie, e poi perdita protratta dell’olfatto, ansia, assenza del sonno, fino allo stato che in termini medici è definito brain fog, nebbia della mente. Sono fenomeni che possono essere riassunti in una frase. «Dottore, non sono più la persona di prima».

Era quasi inevitabile tornare qui, dove tutto è cominciato, per parlare di questo enigma chiamato Long Covid. Oggi il professor Di Marco coordina con altri suoi colleghi il programma di assistenza lanciato dalla Lombardia, una serie di ambulatori all’interno dell’ospedale dedicati a pazienti in teoria guariti, ma che non si sentono tali. Radiografie al torace, spirometria e l’esame che tramite la diffusione di uno 0,3% di monossido di carbonio consente di capire eventuali alterazioni polmonari. È quasi la replica del vecchio protocollo usato per le conseguenze delle epidemie di Sars e Mers. «Spesso troviamo cicatrici polmonari che ci aspetteremmo poco rilevanti dal punto di vista clinico, ma che sono accompagnate da a uno stato di spossatezza che risulta essere il detonatore di questo malessere».

A poca distanza dal suo ufficio è ricoverato un pensionato bergamasco che si ammalò durante la scorsa primavera. Ci ha provato in ogni modo, a ricominciare una vita normale. Ma non è riuscito a superare i danni permanenti ai polmoni uniti a un forte disturbo da stress post traumatico. I medici stanno cercando di convincerlo ad accettare un intervento giudicato necessario che lui rifiuta con forza. «La maggior parte dei casi di Long Covid — spiega Di Marco — si risolvono con una nuova riabilitazione in strutture che quasi sempre riescono a cancellare gli effetti a lungo termine. A rendere più complicato un nuovo processo di cure è la paura di non riuscire mai a guarire in maniera adeguata». Il punto nevralgico di questo nuovo percorso di cure è un ambulatorio situato in un’altra ala del Papa Giovanni XXIII. Per raggiungerlo occorre fare un piccolo viaggio in un passato doloroso e recente attraversando il blocco centrale dell’ospedale, la cosiddetta «piastra», adibita a magazzino pieno di pallet e pannelli dismessi. Nel momento peggiore della pandemia fu trasformata in un ulteriore reparto di terapia intensiva, grazie alla generosità delle imprese locali, che lavorarono giorno e notte per fornire i caschi respiratori necessari a salvare vite umane. Era appena venti mesi fa. «A volte ho la sensazione che ci si sia dimenticati in fretta di quel che è stato» sussurra Di Marco.

Il male invisibile

Alla fine di una giornata di visite nell’ambulatorio Long Covid la direttrice del reparto di neurologia Maria Sessa e le sue collaboratrici hanno visto e sentito di tutto. Un operaio di mezza età che non trova più l’olfatto e ha rischiato l’avvelenamento mangiando una confezione di minestrone avariato e scaduto da mesi. Una casalinga che piange perché non riesce più a preparare pranzo e cena alla famiglia. Una manager che confessa di non riuscire a esprimere concetti articolati per un problema di concentrazione. Ma ogni tanto ci sono le buone notizie. «Nella prima ondata molti pazienti svilupparono complicanze neurologiche acute. In quelle successive meno, ma i medici di base continuano a segnalare nuovi casi di disturbi cronici». Studi recenti mostrano una tendenza al miglioramento di questi sintomi immateriali, per i quali non ci sono test diagnostici che tengano. «A oggi non abbiamo gli strumenti per definire un disturbo neurologico da Long Covid. Anche perché non sembra esservi alcuna correlazione con la gravità del contagio iniziale».

In Italia non esistono linee-guida sulla gestione del dopo. La dottoressa Sessa si affida al protocollo in vigore nel Regno Unito, che suggerisce una riabilitazione fisico-cognitiva. «L’unica certezza è l’estremo disagio, talvolta la disperazione, di chi subisce questi effetti così subdoli. Sottostimiamo il ruolo degli odori nella nostra vita, e quanto sia destabilizzante rendersi conto di aver perso alcune facoltà mentali. Ma da questi effetti collaterali se ne esce. La prima cosa da fare è non perdere la speranza». In fondo al corridoio dell’ambulatorio post Covid c’è la stanza degli infermieri, tra i quali sta montando l’insofferenza. Reparti che da mesi erano «puliti», secondo il gergo ospedaliero, si stanno riempiendo di nuovo con pazienti contagiati. Dalla porta socchiusa si intravede una scritta sulla lavagna. «Altro che banale influenza, vaccinatevi c…».