IL DECRETO LEGISLATIVO SULLA PRESUNZIONE DI INNOCENZA FA CALARE IL SIPARIO SULLE INDAGINI-SPETTACOLO
14/12/2021
D.lgs. n. 188/2021 : presunzione d’innocenza cosa cambia
E’ in vigore dal 14 dicembre il d.lgs. n. 188/2021 che, recependo una Direttiva UE, introduce alcune disposizioni tese al rafforzamento della «presunzione d’innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali».
In ordine al primo aspetto, il fulcro del decreto consiste nella disciplina relativa alla diffusione delle informazioni riguardanti i procedimenti penali e gli atti di indagine.
In tal senso, l’art. 2 dispone che
«è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili».
In caso di violazione del divieto l’interessato, oltre ad avere diritto al risarcimento del danno, può chiedere la rettifica della dichiarazione e, in caso di inottemperanza dell’autorità, può agire ex art. 700 c.p.c., chiedendo al tribunale di disporre la pubblicazione della rettifica.
Va precisato che il divieto è rivolto alle autorità pubbliche in generale e quindi, oltre ai magistrati, a qualsiasi autorità investita di potestà pubblicistiche.
Dunque, ai funzionari pubblici e agli esponenti della politica non saranno più consentite esternazioni sulle indagini in corso nelle quali un indagato venga additato come colpevole.
Per converso, posto che l’art. 2 non riguarda i privati ed in particolare gli organi di informazione, il decreto non incide direttamente sul fenomeno dei processi mediatici. Inoltre, il provvedimento inserisce alcune rilevanti novità nel testo dell’art. 5 del vigente d.lgs. n. 106/2006.
Detto articolo, dispone che i rapporti con gli organi di informazione competono esclusivamente al procuratore della Repubblica o a un magistrato dell’ufficio appositamente delegato.
L’art. 3 del nuovo decreto aggiunge che la diffusione di notizie può avvenire esclusivamente attraverso comunicati ufficiali o tramite conferenze stampa e a condizione che «risulti strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini» o ricorrano «altre specifiche ragioni di interesse pubblico».
La decisione di procedere a conferenza stampa, comunque, è assunta con atto motivato «in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano».
Gli ufficiali di polizia giudiziaria possono fornire informazioni, con le medesime modalità, sugli atti di indagine compiuti soltanto se autorizzati dal procuratore con atto motivato.
Al di fuori di questi canali ufficiali, non è consentito dare ulteriori notizie ai cronisti. In ogni caso, le informazioni devono essere diramate in modo da assicurare alla persona sottoposta ad indagini o all’imputato il diritto
«a non essere indicati come colpevoli» fino a quando la colpevolezza non sia stata definitivamente accertata. Infine, il comma 3-ter precisa che nei comunicati stampa e nelle conferenze è fatto divieto «di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza».
In pratica, nei comunicati ufficiali i procedimenti non potranno più essere denominati con appellativi dal tenore colpevolista. Anche in questo caso, la norma non si rivolge agli organi di stampa, ma l’attribuzione alle inchieste di nomignoli denigratori espone, d’ora in poi, i giornalisti ad un maggiore rischio di incorrere in azioni legali. Si osserva che rispetto a quanto era già stabilito dall’art. 5 del d.lgs. n. 106/2006, il nuovo decreto non ha apportato novità radicali, fatto salvo il divieto di intitolare le inchieste giudiziarie con denominazioni scandalistiche.
Criticabile, inoltre, è stata la scelta di legittimare le conferenze stampa e quella di lasciare un eccessivo margine di discrezionalità ai procuratori i quali possono consentire la diffusione delle informazioni sul generico presupposto delle “ragioni di interesse pubblico”.
Tuttavia, il decreto è espressione di un’importante presa di posizione culturale. Infatti, gli artt. 114 e 329 c.p.p., in tema di divieto di pubblicazione di atti e di obbligo del segreto, sono finalizzati a impedire che la divulgazione di notizie rechi nocumento alle indagini in corso e al contempo a evitare che il giudice del dibattimento possa essere influenzato nella propria decisione.
Quanto al d. lgs. n. 106/2006, il cui citato art. 5 è rimasto sinora lettera morta, la sua originaria ratio era quella di precisare le regole di condotta all’interno degli uffici del pubblico ministero nel rispetto dei rapporti gerarchici. Il nuovo decreto, invece, è il segno di un cambiamento storico posto che il suo scopo è dichiaratamente quello di tutelare la persona indagata o imputata.
Per la prima volta, è stato sancito il diritto dell’indagato a non subire la spettacolarizzazione dell’indagine che, di per sé, lede la reputazione e compromette la serenità della difesa. Il provvedimento rappresenta quindi un deciso passo in avanti verso la concreta attuazione del principio, non solo europeo ma anche costituzionale, della presunzione d’innocenza.
FONTE: Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense
– di Vincenzo D’Anna * –
Corsi e ricorsi storici, l’uomo che non cambia costumanze né modi di essere, anche mutando i contesti storici. La lezione del napoletano Giambattista Vico resta fortemente attuale, sopratutto nella sua patria e nell’agone politico.
Correvano gli ultimi anni del secolo scorso e brillava la stella politica di Silvio Berlusconi, novello principe che predicava la rivoluzione liberale, la fine dell’oppressione tributaria, la revisione dello Stato, bolso e ridondante. Una rivoluzione patinata, scorporata da messaggi violenti e da odi sociali che spesso caratterizzano i profondi e repentini cambiamenti sociali ed economici. La politica italiana svecchiava d’incanto abbandonando semantica, logica e liturgie antiquate. La propaganda politica puntava sull’immagine stereotipata, sul sogno di felicità a portata di mano, i politici si rigeneravano finanche nell’aspetto, mandando in soffitta le vesti austere e le consuete grisaglie scure ministeriali.
Un principe, quello impersonato dal Cavaliere, che non somigliava a quello scaltro di Niccolò Machiavelli per il quale la politica era ispirata alla massima che “governare è lasciar credere”. Il personaggio aveva ambizioni, mezzi televisivi e danaro disponibile per atteggiarsi ad un principe mediceo, uno di quelli che governando Firenze avevano dato vita al Rinascimento italiano. Infatti, si era circondato di un folto nucleo di intellettuali, filosofi, economisti, giornalisti e politici di stampo liberale, confezionando il più bel programma di governo visto in Italia, dai tempi di Cavour. I cittadini venivano liberati dalla tirannia dello Stato, padre e padrone, dalle esose gabelle e dalle catene di mille obblighi a cui assolvere. Cittadini liberati dalla farraginosità di uno Stato ancora ottocentesco, che si era portato dietro, oltre ad un immane debito pubblico, questioni ancora irrisolte a cominciare dalla rinascita del Mezzogiorno d’Italia. Tutto questo nel mentre fischiava il vento secessionista della Lega Nord che tentava di distruggere l’Unità d’Italia e la coesione sociale.
Il parterre dei collaboratori del Cavaliere era regale: Marcello Pera, Carlo Scognamiglio, Antonio Martino, Gianni Baget Bozzo, Luigi Compagna, Ferdinando Adornato, Giuliano Ferrara, Carlo Pelanda, Dario Antiseri, Paolo del Debbio, Marco Taradash, Francesco Forte e così via, fino a redento filosofo marxista Lucio Colletti. Tuttavia, sappiamo come siano finite le cose dopo venti anni, usurate sia dal tempo edace, sia dalla politica politicante, dai vizi e dai vasti interessi dal magnate Brianzolo.
Ma non bisogna dimenticare, oppure sottovalutare, l’incidenza dei metodi di lotta politica che Berlusconi ha subito, un micidiale combinato disposto, una tacita, a volte più che esplicita, intesa tra sinistra, magistratura politicizzata, forze economiche ed industriali concorrenti, nazionali ed internazionali, in grado di orientare stampa ed informazione che erano nella loro disponibilità. Un fuoco di fila micidiale, una gogna continua, che avrebbe sepolto chiunque in pochi mesi sotto la coltre del fango, delle accuse, delle pruderie intime e personali, dei veri e falsi scoop giornalistici che finivano regolarmente in procura e poi in Parlamento a delegittimare la figura di un concorrente che non si riusciva a sconfiggere nelle urne. Finanche la modernizzazione della politica, lo sdoganamento di termini e di opinioni furono messe al bando ed esecrate dalla egemonia culturale degli statalisti e dai marxisti. Parole e prassi marchiate come forme di un decadimento culturale e politico, salvo farle proprie qualche anno dopo.
Quella storia politica si è concluse con una legge retroattiva “contra personam”, la legge Severino, oggi dimenticata e raramente applicata, che espulse dal Parlamento uno dei principali protagonisti politici. Insomma, l’introduzione di fattori ed interventi extra-politici determinarono un evento che in democrazia, col consenso elettorale, non era mai stato raggiunto.
Oggi quella plumbea atmosfera aleggia intorno al nuovo leader di fatto del centrodestra, quel Matteo Salvini contro il quale protestano, ad ogni stormir di foglia, i centri sociali, i residuati bellici della sinistra e del giornalismo fazioso. Purtroppo non manca all’appello la forza politica togata, quella più potente, la magistratura strabica ed ideologicizzata che tuttora la fa da padrona, determinando esiti e sbocchi che la politica subisce. Politica che scontando il fio della accondiscendenza e della pavidità che mostra in Parlamento, per ripristinare i corretti rapporti di forza costituzionali.
Non ho simpatie per le idee che il “Truce” Salvini rappresenta, ho invece in simpatia il diritto che egli ha di manifestarle e di essere combattuto con la politica e nella politica. Viviamo il tempo della disillusione nel popolo e della ignoranza al potere, non serve il tintinnio delle manette per migliorare l’esistente.
* ex parlamentare
FONTE: APPIA POLIS ON LINE