*La Città del Sole*
di Vincenzo D’Anna*
Esiste un luogo nel lontano Sri Lanka con una società felice al punto tale da non conoscere conflitti sociali. Un mondo equanime, esente dalla corruzione, in cui uomini e donne sono immuni da invidie, menzogne e soprattutto bisogni materiali. È “la Città del Sole”, dotata di un sistema politico e religioso basato su un potere unico, detenuto da colui il quale è stato scelto in base alla sua superiore sapienza. Costui è denominato il “Metafisico” e “guida” una società ordinata e subordinata al potere gerarchico dei vari sottostanti come il “Potestà”, la “Sapienza” e “Amore”. Una società chiaramente utopica, nella quale anche la foggia dei vestiti è imposta e tutto viene diviso ugualmente, finanche la procreazione che è libera e senza vincoli familiari. Un mondo composto da un coacervo di persone appartenenti ad un unicum sociale senza distinzione alcuna tra loro. Chi ce lo illustra è il filosofo Tommaso Campanella scrittore seicentesco, nel libro intitolato, appunto, “La Città del Sole”. Come tutte le società utopistiche, perfette ed ordinate, sottoposte ad una forzata uguaglianza che sacrifichi la libertà e la diversità degli uomini alla perfezione dell’organizzazione politica e sociale, quella del Sole è sostanzialmente una città tirannica. Non c’è, infatti, perfezione alcuna, per quanto efficiente ed ordinata, che si possa sottrarre dall’essere liberticida e nefasta per la vita dei cittadini se relegati al ruolo di sudditi omologati a regole ferree ed impersonali. Un miraggio, insomma, quello che lo Stato ed il governo possa garantire un’eguale porzione di felicità a tutti, indipendentemente dai meriti e dai talenti di ciascuno, che eradichi sistematicamente la diversità biologica degli uomini e del corpo sociale che n’è la risultante. Una premessa, quella della società immaginata perfetta, che sovviene alla mente ogni qual volta lo Stato come entità impersonale e plurale, deve governare la coesistenza pacifica degli uomini e della società, supponendo di poter realizzare progetti che, a vario titolo, si definiscono perfetti perché così supposti e realizzati. Come ad esempio il caso di tante attività che lo Stato ha preteso di gestire in regime di monopolio, di preminenza o di vantaggio rispetto alla libera iniziativa che può sviluppare l’impresa umana. Situazioni che capitano spesso in Italia e che ricorrono anche nel caso del nostro Sistema Sanitario e che la vicenda Covid ha messo in drammatico risalto. Per dirla in breve, niente funziona meglio di un azienda o di un servizio la cui sopravvivenza dipenda dal gradimento dei suoi utenti. Quindi non il progetto utopico, quanto la concreta realtà, costruita secondo principi di libertà responsabile, può garantire la perfezione, per quanto ottenibile. La sanità non fa eccezione. La legge di riforma della sanità, quella che ha modificato il precedente assetto legislativo, fu quella che porta la denominazione di “legge 833” del lontano 1978, essa prevedeva, l’introduzione del Sistema Sanitario Nazionale. In sostanza si trattò di una legge ambiziosa e lungimirante, in teoria migliorativa di quella derivante dall’applicazione dell’art.32 della Costituzione, quello assicurava solo le cure ai malati indigenti. Il vecchio sistema costruito intorno all’istituto delle Cassa Mutue dedicate a determinate categorie di lavoratori e cittadini. La riforma allargò gli orizzonti degli obblighi sanitari a carico dello Stato, ampliando il novero dei diritti del cittadino, aggiungendo alle cure, uniche per tutti, anche la prevenzione dalla malattie. Entrarono così a far parte dei doveri dello Stato anche gli oneri finanziari perché ad ognuno venisse garantita la tutela non solo delle cure ma anche di tutte quelle opportunità perché potesse mantenere un perfetto stato di benessere psicologico e fisico. Allargato l’orizzonte dei diritti si allargò drammaticamente anche la spesa per garantirli. Il tutto con grave onere per il debito pubblico. Tuttavia, , quello che creò più danni fu l’introduzione, nell’immaginario collettivo e nelle menti dei governanti, dell’idea di aver edificato un sistema perfetto del quale si elogiava l’efficienza a prescindere da ogni verifica dei meriti, della produttività e dei costi. In disparte la pletora di piccoli ospedali spuntati ovunque e diventati il fiore all’occhiello del politico di turno, nonché l’ammortizzatore sociale per assumere personale mediante amplissime piante organiche. Nosocomi diventati successivamente inadeguati ed obsoleti innanzi ala mancanza del corredo tecnologico necessario per poter essere utili a fronteggiare tutte le patologie. I debiti e la mala sanità prodotta da questo sistema immaginato perfetto, sono un dramma laddove non c’è ricchezza per potersi pagare le cure alternative, come nel Mezzogiorno. Il virus ha messo in luce che la mela è marcia al suo interno. Non c’è la “Città del Sole” nella sanità italiana, sarà bene dirlo, ma spesso solo le sue alte e concreti che mura a guisa di Torre di Babele.
*già parlamentare
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