Sorpresa: affidare ai lavoratori le imprese in crisi funziona!

“WORKERS BUYOUT” – Dagli anni 80 sono state salvate centinaia di aziende. In genere vanno bene e lo Stato ci guadagna: per ogni euro investito ne tornano 7

31 GENNAIO 2022

Èpossibile dare più potere ai lavoratori in un’economia di mercato funzionante? Secondo una certa vulgata, no. Ma, come spesso accade, la realtà si preoccupa di smentire i luoghi comuni. È il caso dei cosiddetti “workers buyout”, uno strumento di politica industriale che pian piano sta attirando l’attenzione e, soprattutto, pare funzionare.

Di che parliamo? Un workers buyout è l’acquisizione di un’impresa (in crisi, fallita o a rischio di chiusura) da parte dei suoi stessi dipendenti. In Italia questo modello è inquadrato in una specifica cornice legislativa (la Legge Marcora) dal 1986. I risultati sono sorprendenti e fanno intravedere la possibilità di un nuovo tipo di intervento pubblico, a oggi ancora sottovalutato.

Una storia di workers buyout è quella della Cartiera Pirinoli di Roccavione (Cuneo), fallita nel 2012 e poi presidiata per tre anni dai lavoratori. Alcuni di loro, poi, acquisirono l’azienda con il sostegno della partecipata statale Cooperazione Finanza Impresa (Cfi) e della Legacoop. Ed è anche la storia dell’Alfa Engineering di Modena, che produce giunti isolanti monolitici. Nel 2008 la società venne travolta dalla crisi, ma il sostegno di Legacoop, Coopfond e Cfi, insieme ai fondi della cassa integrazione e mobilità, permise di costituire il capitale di una nuova cooperativa e rimettere l’azienda sui binari della produzione.

Nella loro forma moderna i workers buyout nascono negli Stati Uniti. Nel 1956, in un Paese sì capitalista, ma pragmatico, Louis Kelso, un avvocato di San Francisco, creò il primo Esop (employee stock ownership plan, piano di azionariato dei dipendenti). Nei decenni successivi si diede una forma più strutturata a questo strumento, che nel 1979 fu addirittura utilizzato per salvare la Chrysler.

Qualche anno dopo, fra 1981 e 1982, in un’Italia attraversata dalla crisi, un’intuizione simile la ebbe il ministro dell’Industria Giovanni Marcora (ex partigiano e promotore della legge sull’obiezione di coscienza alla leva): perché non utilizzare una parte dei fondi assistenziali del governo per costruire occupazione?

Marcora non fece in tempo a vedere la sua idea diventare realtà. Ma a due anni dalla sua morte, nel 1985, in Italia venne approvata una legge che istituiva il “Fondo destinato alla salvaguardia dell’occupazione attraverso la formazione di imprese cooperative tra dipendenti di aziende in crisi”. La Legge Marcora, per l’appunto.

Nel 1986 fu istituita Cooperazione Finanza Impresa (Cfi), la società pubblica che da allora gestisce il Fondo. Oggi, oltre al ministero dello Sviluppo Economico, Cfi ha come soci 325 cooperative, Invitalia e i fondi mutualistici di Agci, Confcooperative e Legacoop.

Cfi lavora con cooperative di produzione e lavoro e cooperative sociali, purché rispettino i limiti di piccola e media impresa. Una volta che un progetto è stato valutato positivamente e i lavoratori hanno messo a disposizione alcune risorse (come l’anticipo della mobilità o del Tfr), Cfi interviene con una partecipazione di minoranza. Ma attenzione: non si tratta di una nazionalizzazione mascherata. Infatti, la partecipazione può durare al massimo dieci anni, deve essere progressivamente rimborsata e deve essere “non superiore al valore del capitale sociale, delle riserve patrimoniali e del prestito sociale della cooperativa, nel limite massimo pari al doppio del capitale sociale versato dai soci dell’impresa”.

Cfi, che può erogare finanziamenti anche come capitale di debito, ha realizzato nella sua storia investimenti per oltre 300 milioni di euro, finanziando 562 cooperative, di cui 319 attraverso workers buyout (coinvolti oltre 10mila lavoratori per due terzi nell’industria). E sono proprio i numeri su questo strumento che fanno strizzare gli occhi. Balza all’occhio, ad esempio, la longevità media delle imprese rigenerate: 15,2 anni contro i 12 anni della media delle imprese italiane, come riportato da Aldo Viapiana su lavoce.info. Non parliamo di aziende che stanno in piedi per miracolo, dunque, ma che per la gran parte si inseriscono nei loro mercati di riferimento producendo occupazione e ricchezza.

Gli studi su questo fenomeno ne sottolineano l’effetto positivo sulle comunità locali. In un working paper dell’Euricse del 2015, Marcelo Vieta scrive che, “dove emergono imprese gestite dai lavoratori, i posti di lavoro sono salvati e le capacità produttive delle comunità sono preservate o migliorate”, perché i workers buyout tendono ad avvenire con maggiore frequenza durante le recessioni. Inoltre, “queste imprese contribuiscono alla prevenzione della ‘desertificazione’ delle regioni e agiscono come ‘ammortizzatori’ per i bisogni socio-economici delle comunità”.

“L’aspetto più importante è la motivazione dei lavoratori, che decidono di mettersi in gioco – dichiara al Fatto Camillo De Berardinis, amministratore delegato di Cfi – L’altro aspetto è il modello di intervento che mette a disposizione non solo risorse finanziarie ma anche competenze. Cfi non si limita a valutare le domande di finanziamento, ma assiste i lavoratori nella messa a punto del progetto e nella fase di start-up dell’impresa”.

I dati di Cfi letti dal Fatto mostrano che i workers buyout sono non soltanto efficaci, ma anche efficienti e comportano un notevole risparmio per le casse pubbliche: fra 2013 e 2019 il ritorno per lo Stato sul capitale impiegato è stato di 1 a 7. Com’è possibile? Semplice: un dipendente licenziato costa allo Stato decine di migliaia di euro di ammortizzatori sociali, mentre un workers buyout costa in media circa 12 mila euro a lavoratore e ha successo in circa l’80% dei casi. Insomma, far recuperare le aziende ai lavoratori è una politica attiva del lavoro che funziona e porta pure soldi all’erario: sempre Valpiana su lavoce.info ha calcolato che il fisco dal 1979 al 2018 ha incassato circa 3,3 miliardi da queste imprese.

Da qualche anno anche la politica sembra essersene resa conto. “C’è stata una certa continuità nel sostegno ai workers buyout da parte dei diversi governi succedutisi negli ultimi anni, che hanno progressivamente incrementato la dotazione di risorse – continua De Berardinis – Da settembre 2021 è pienamente operativa la ‘Nuova Marcora’, rafforzata e resa ancora più incisiva dal decreto del ministro dello Sviluppo economico del 4 gennaio 2021: da allora sono già stati deliberati 17 progetti per 7,5 milioni, soprattutto nell’industria. Nel 2022 prevediamo di finanziare 48 interventi fra i 24 e 25 milioni con un forte aumento degli investimenti totali e della dimensione media (da 350 mila a 600 mila euro) degli interventi”.

La riforma del 2021 ha allargato lo spazio di manovra per Cfi e ha abbassato dallo 0,8% a zero il tasso di interesse sui finanziamenti che essa può concedere. Non solo. La legge di Bilancio 2021 ha istituito un nuovo fondo per il sostegno al trasferimento di impresa, per cui sono stati stanziati 15 milioni in 3 anni. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, era il 1993, la Commissione Ue avviò contro l’Italia una procedura d’infrazione per violazione delle norme sugli aiuti di Stato proprio a riguardo dell’operato di Cfi. “I risultati di questi anni dimostrano l’efficacia di questo strumento – dice ancora De Berardinis – tanto che, da settembre 2021 c’è nel Regno Unito un’iniziativa di alcuni parlamentari laburisti per realizzare una legge che prenda spunto dalla Legge Marcora. Stiamo collaborando con loro e la proposta sta andando avanti: nei prossimi giorni parteciperemo a un incontro col ministro del Tesoro britannico”.

Il modello dei workers buyout è sicuramente da ampliare e perfezionare. Ma, ad oggi, è un’alternativa allo “Stato dei bonus”. Rappresenta la possibilità di uno Stato “guida”, che fa politica industriale dando ai lavoratori una prospettiva diversa rispetto al mero sostegno (temporaneo) al reddito. Uno strumento prezioso in questa fase critica.