CALENDA  GRECA di Vincenzo D’Anna*

Carlo Calenda ha da poco celebrato il congresso del suo partito denominato “Azione”, in ricordo di una vecchia formazione politica che ebbe un ruolo importante nella lotta al fascismo e successivamente nella guerriglia partigiana (dopo l’8 settembre del 1943) e che si ispirò all’analoga creatura mazziniana che sostenne le campagne di Garibaldi per l’Unità d’Italia. I protagonisti di quell’avventura politica si richiamavano al liberal socialismo che Carlo Rosselli aveva indicato nell’omonimo libro e che aveva fatto da documento fondativo di Giustizia e Libertà, organizzato in Francia nel 1929 da esuli politici.

Con la caduta del regime mussoliniano questo movimento si trasformò, appunto, nel Partito d’Azione nelle cui file militarono uomini di grande spessore culturale e politico come Ferruccio Parri, Norberto Bobbio, Emilio Lussu, Leo Valiani, Piero Calamandrei, Adolfo Tino, Ugo La Malfa e Carlo Azeglio Ciampi che ricoprirono ruoli importanti nella neonata Repubblica Italiana. Il progetto azionista nasceva sul presupposto che la dicotomia tra il liberalismo ed il socialismo potesse essere superata, con un’economia di libero mercato, in un regime di libertà e diritti civici garantiti dalla Costituzione. Nello stesso tempo l’edificazione del nuovo Stato democratico necessitava di un riformismo spinto che potesse attingere anche a idee socialiste, per dar vita ad una “rivoluzione liberale”. Un capitalismo ben temperato, insomma, quello propugnato dal PdA, che lasciasse spazio a riforme di sistema lontane dalle logiche speculative della finanza e della ricchezza non derivata dal lavoro e dalla produzione di beni. La principale preoccupazione degli azionisti era quella di tutelare il blocco sociale dei piccoli borghesi che erano cosa ben diversa dalla opulenta borghesia capitalistica. L’analisi degli azionisti sulle cause dell’instaurarsi del fascismo era che la piccola borghesia, sentitasi schiacciata nella tenaglia tra il marxismo rivoluzionario e gli interessi del grande capitale, avesse sposato, per stato di necessità, la causa mussoliniana onde ottenerne protezione. Solo il riformismo e le libertà liberali avrebbero potuto conciliare le esigenze di quel blocco scongiurando l’instaurarsi di un nuovo totalitarismo ed il bisogno del cosiddetto “uomo forte” al governo. Postulati teorici che, come abbiamo visto nei decenni successivi, sarebbero rimasti tali con l’instaurarsi di uno Stato detentore di monopoli, privative e vantaggi, reo dello sperpero del pubblico danaro. Insomma il pauperismo e l’assistenzialismo socialista sarebbero scaduti nel clientelismo e nella partitocrazia.

Per dirla con altre parole: gli originari assunti di equivalenza tra riformismo e liberalismo si sarebbero rivelati falsati dalle pratiche di gestione del potere sfociato in cripto socialismo. Ritentare, come dice Calenda, quell’operazione di sintesi potrebbe rappresentare una soluzione nel vuoto pneumatico che affligge gli attuali partiti. A parte la supponenza, che spesso diventa albagia, l’ex dirigente dem ha almeno le idee chiare ed il pregio di partire da un contesto di valori di riferimento chiari e dichiarati. Va apprezzato il coraggio di definire un’identità politica, una storia, un’idea dello Stato e dell’economia come presupposto dell’azione politica da svolgere. Non è dato sapere, in questi tempi di semi-analfabetismo diffuso, che penetrazione sociale possa avere questo approccio culturale per costruire un nuovo movimento politico. A meno che, come spesso è accaduto di recente, le idee ed i valori si dissipino come bruna nei campi di mattina e ci si “ritriterà” innanzi al settimo dei partiti imperniati intorno ad una persona. E tuttavia Calenda merita quantomeno fiducia anche perché egli ha già delineato un quadro di alleanze dalle quali escludere l’anti politica populista del M5S e la destra sovranista di Giorgia Meloni. Si potrà non convenire sul progetto ma gli va riconosciuto che l’impostazione è corretta e caratterizzata da un ritorno alla buona prassi politica. Quello che resta da chiarire sono gli atti pratici che verranno, di come, cioè, si possano conciliare il socialismo ed il corollario dello statalismo con i principi liberali e liberisti. Quale possa essere, insomma, il punto di equilibrio sostanziale tra l’uguaglianza delle opportunità, postulata dalla dottrina liberale, e l’uguaglianza degli esiti, postulata dal socialismo. In breve: quale sarà l’aliquota di Stato pervasivo, onnipresente e monopolista a cui rinunciare e quella del mercato, del merito e della concorrenza da incrementare. Se riformismo vero sarà non potremo fare a meno di una riforma costituzionale, della democrazia diretta e maggioritaria, con il ritorno al sistema elettorale maggioritario. Speriamo, però, non alla…”Calenda” greca.

 

*già parlamentare