1955, in agro di San Marco di Santa Maria a Vico. Un omicidio per vendetta di partite perse al biliardo nella sede del M.S.I. di Ferdinando Terlizzi 

 

Il prof. Giovanni Scalese, della Medicina Legale dell’Università di Napoli  e il Dr. Mario Pugliese, di Santa Maria Capua Vetere, nominati dagli inquirenti periti settori eseguirono l’esame necroscopico sul cadavere di Orazio Piscitelli, nel cimitero di San Felice a Cancello,  assassinato per vendetta a colpi di pistola, da Alfonso Della Rocca,  appartenente ad una ‘nota’ famiglia di Santa Maria A Vico. Al prof. Francesco Tarsitano, medico legale dell’Università di Napoli, fu invece affidata la perizia istologica su un lembo di cute del cadavere. Il responso fu che la morte del Piscitelli fu fatta risalire a 24 ore prima dell’autopsia; che la causa fu una cospicua ed infrenabile emorragia  interna ed esterna; che il mezzo usato fu una pistola 7,65;  che non vi fu colluttazione ed il Piscitelli fu attinto da tre colpi pistola, di cui due nella regione anteriore,  ed uno alle spalle. I colpi furono tutti mortali essi furono esplosi a distanza; ed inoltre, l’offeso e l’offensore dovevano trovarsi sullo stesso piano – e in un primo tempo – di faccia, successivamente l’offeso dovette mostrare le spalle all’offensore.  Il maggiore artigliere Sebastiano Vicinanza, dal canto suo operando un esame balistico sull’arma del delitto concluse che ‘l’arma era pienamente efficiente, aveva esploso otto colpi ed aveva ancora un colpo in canna’.

Gli avvocati di parte civile Vittorio Verzillo e Mario Zarrelli , difensori della famiglia della vittima, il 14 maggio del 1955 presentarono al Giudice Istruttore del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, un foglio di lume con il quale evidenziavano alcuni aspetti oscuri antefatti al delitto.

“Nell’interesse  della madre e dei fratelli dello sventurato Orazio Piscitelli – esordirono i legali – barbaramente trucidato con numerosi colpi di pistola, evidenziamo i seguenti punti: Non è vero che la sventurata vittima nutrisse astio o risentimento contro l’imputato per l’incidente avvenuto circa quaranta giorni prima mentre si giuocava a bigliardo. Il Piscitelli non sporse querela per la subita violenza per quiete vivere; l’estesissimo clan familiare  dei Della Rocca incuteva ed incute timore nella piccola frazione di S. Marco e pertanto la più elementare prudenza consigliava di subire pienamente la violenza degli avversari. Quale fu effettivamente il contegno di Orazio Piscitelli, dopo quell‘incidente, potrà essere esaurientemente chiarito da vari testimoni: Pasquale Verlezza, Nunzio Nestrino, Consiglia Telese e Giuseppe Ferrara”.

 

“E così la soppressione dello sventurato giovane, scel1erato sugello dell’incontrastato prestigio del clan dei Della Rocca – precisarono ancora gli avvocati della famiglia della vittima –  fu astutamente preordinata fidando sull’immancabile mendacio di compiacenti compari nello schema – altre volte sperimentato – della legittima difesa, onde sottrarre, con l’intimidazione e col denaro, l’esecutore materiale alla meritata galera. Anche Giuseppe Della Rocca, congiunto dell’attuale imputato, cinico uccisore dell’Ing. Ugo Pierucci, orchestrò per il suo delitto la legittima difesa, facendo rinvenire una pistola ai piedi della vittima! Ma il trucco fu immediatamente sventato dai carabinieri  e l’assassino ed i falsi testimoni furono tutti condannati esemplarmente dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere con sentenza del 20 luglio del 1953.  Scongiuriamo pertanto – conclusero gli avvocati Zarrelli e Verzillo a conclusione del loro foglio di lume diretto al giudice istruttore – V.S. Ill/ma di voler escutere gli indicati testimoni nella fiducia illimitata che lo zelo di V.S. Ill/ma saprà smascherare gli intrighi ed i trucchi abilmente orditi dai Della Rocca per far rifulgere la verità imbavagliata dalla corruzione e dalla paura”.

Il conflitto sciolto dalla Cassazione:  non è omicidio colposo  ma omicidio volontario. Per i difensori  era invece legittima difesa –

Il 18 aprile del 1956, il Pubblico Ministero della Procura sammaritana chiedeva al Giudice Istruttore di rinviare al Giudizio del Tribunale, Alfonso Della Rocca, il quale dopo un periodo di latitanza si era costituito ai carabinieri, per rispondere del delitto di omicidio colposo per avere, eccedendo per colpa i limiti consentitigli dalla necessità di difendere la sua persona dall’aggressione di Orazio Piscitelli cagionato la morte di costui sparandogli vari colpi di pistola ed inoltre chiedeva, per il reato di favoreggiamento reale, l’assoluzione anche per Antonio Piscitelli.

 Il 19 maggio del 1956 i difensori di fiducia di Alfonso Della Rocca,  prof. Alberto Martucci e avvocato Clemente Memoli, con una relazione dettagliata – diretta al giudice istruttore – concludevano con una richiesta di assoluzione per il loro assistito invece che per ‘omicidio volontario’ addirittura per aver agito per ‘legittima difesa’.  I difensori si riportavano all’episodio del bigliardo, alla lite, agli schiaffi, alla mancata conciliazione e alla vendetta finale del Piscitelli nei confronti di Della Rocca.

Ma quella che sembrava una battaglia vinta della guerra ingaggiata con la giustizia si rilevò, a breve, una sconfitta. Contro il rinvio a giudizio del giudice istruttore per omicidio colposo insorse, infatti, con estrema urgenza il Procuratore Generale, ricorrendo contro la sentenza di rinvio a giudizio e chiese alla Suprema Corte di Cassazione,  l’annullamento della stessa.

La Prima sezione della Corte di Cassazione, con sentenza del 5 luglio 1958, accolse il ricorso del Procuratore Generale e risolvendo il conflitto tra il giudice istruttore e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dichiarò la competenza della Corte di Assise, quale giudice cui era devoluta la cognizione del più grave delitto di omicidio volontario, allo stato imputabile ad Alfonso Della Rocca, annullando, di conseguenza, la sentenza del G.I. di Santa Maria Capua Vetere del 30 giugno 1956, nel punto in cui definiva come omicidio colposo per eccesso in legittima difesa il fatto originariamente imputato come omicidio volontario.

La sentenza della Cassazione fu paragonata ad un ‘ordine di scuderia’. Il giudice istruttore del tribunale di Santa Maria Capua Vetere dovette adeguarsi. Per gli ermellini era omicidio volontario. E il giudice istruttore, infatti, su parere conforme del pubblico ministero (che aveva evidenziato il fatto che il Piscitelli fu colpito ripetutamente anche quando era già caduto a terra ed anzi anche quando aveva dato le spalle all’avversario.  In questo comportamento dell’imputato – chiosò il pubblico ministero – non è consentito scorgere l’esimente della legittima difesa e neppure l’eccesso colposo, come in un primo tempo ritenuto dal giudice istruttore) fu ‘costretto’ a rettificare il tiro rinviando, in data 24 febbraio 1959, al giudizio della Corte di Assise  il Della Rocca per rispondere, questa volta, di omicidio volontario.

Nei primi giorni del 1960, a distanza di ben 5 anni dal delitto, il processo venne incardinato nel ruolo della Corte di Assise allora presieduta da Prisco Palmiero, con giudice  a latere, Guido Tavassi. “E’ pacifico  – scrissero i giudici nella motivazione della loro sentenza in diritto – che circa 40 giorni prima dell’omicidio nella sede del Movimento Sociale di San Marco di San Felice a Cancello si verificò un incidente tra il Della Rocca e il  Piscitelli.  I particolari di tale incidente furono riferiti già nel corso della prima indagine ed in istruttoria da Cornelio Piscitelli,  bidello della sede MSI e da suo figlio Francesco.  Alfonso Della Rocca,  mentre giocava al biliardo fu più volte urtato dal Piscitelli in modo che perdette delle partite, ed alla fine reagì pronunciando l’invettiva di ‘cafone’ colpendo con la stecca sul capo l’importuno che rimase tramortito. Né vi ha dubbio che sia da ricercarsi in questo episodio la causale dello scontro del 12 marso conclusosi con l’uccisione del Piscitelli,  tanto più che sono emersi altri motivi di astio tra i due giovani. Il Piscitelli dopo aver molestato il Della Rocca, era stato a sua volta umiliato, e gravemente, in pubblico, con l’ingiuria e la violenza, donde la necessità per lui di procacciarsi la vendetta data la legge ‘vigente’ nell’ambiante che impone di ritorcere le offese,  pena la sconfessione del proprio prestigio”.

“E che egli avvertisse il bisogno di vendicarsi – chiarirono ancora i giudici nella motivazione della sentenza – è ampiamente provato dalle risultanze processuali: non denunziò né all’autorità giudiziaria né al medico – che subito dopo l’incidente gli curò la ferita al capo – di essere stato percosso; e tale sua rinunzia a far valere le proprie ragioni per via giudiziaria è chiaro sintomo che intendeva farsi vendetta con le proprie mani. Non vale obiettare che egli potette astenersi dal denunziare perché voleva perdonare l’offensore, come ebbe a dire a Carlo Della Rocca, padre di Alfonso che, preoccupato per la vendetta che incombeva sul figlio, si recò da lui la sera stessa del giorno in cui si verificò l’indicente per proporre una riappacificazione ed a Camillo Russo e Vincenzo Ruggiero che, per incarico di Carlo Della Rocca, gli rivolsero anch’essi inviti analoghi. E’ vero che ai predetti egli disse: “Non vi preoccupate, tutto è finito” ma è evidente che queste sue risposte non furono che una simulata manifestazione di perdono che mascherava ben altri sentimenti: anche volendo prescindere dalla circostanza riferita da alcuni testi, che egli sarebbe andato in cerca di ‘un pugno di ferro’ per punire il Della Rocca sta di fatto che quando Camillo Russo gli si avvicinò in compagnia di Alfonso Della Rocca e propose di sancire la riconciliazione con una ‘stretta di mano’ egli, a differenza del suo avversario che si mostrò pronto ad aderire all’invito, oppose un netto rifiuto, che non spiega se non con il fatto che il suo animo era gravido di propositi di vendetta”.

 

 

 La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere lo condannò a 9 anni di reclusione con la scriminante della provocazione e la concessione delle attenuanti generiche.

 

Parimenti non può contestarsi   che sia stato il Piscitelli come si è visto non aveva affatto dimenticato l’offesa ed anzi anelava a vendicarsi, a prendere l’iniziativa nello scontro che si concluse tragicamente con la sua morte. Ne  consegue che il Della Rocca deve essere ritenuto responsabile, in relazione alla seconda parte dell’azione da lui compiuta della uccisione del Piscitelli per le modalità dell’azione ed in particolare per il numero dei colpi esplosi e per il fatto che i colpi furono diretti verso organo vitalissimi del corpo della vittima e gli va condannato per omicidio volontario.

Non erano d’accordo, naturalmente gli avvocati della difesa di Della Rocca che obiettarono: “Non è vero… perché’ sia pur  dopo che il Piscitelli era caduto a terra continuava a sussistere la originaria situazione di pericolo per essere caduto lo stesso ancora armato,  e comunque, anche se il pericolo era cessato, il Della Rocca non se ne rese conto ed insistette nell’azione sempre allo scopo di difendersi, di guisa che anche per gli ultimi spari sarebbe applicabile l’esimente della legittima difesa reale o putativa, o quanto meno dovrebbe riconoscersi uno stato di legittima difesa putativa determinato da errore colposo e pronunciare condanna ‘per omicidio colposo’.

In definitiva la Corte decise che al Della Rocca, comunque spettava l’attenuante della provocazione – avendo egli agito in stato d’ira originato in lui dalla ingiusta grave aggressione subita. E non solo ma anche la concessione delle attenuanti generiche, che non si negano a nessuno in considerazione dei suoi ottimi precedenti e della età molto giovanile. Nella determinazione della pena da irrogare (nel conteggio cioè che i giudici debbono fare, perché la pena è un fatto matematico dove due più due fanno quattro) i giudici partirono dalla pena dell’omicidio di anni 21 riducendoli – per la concessione della attenuante della provocazione – ad anni 14 ed ancora ridotti ad anni 9 per la concessioni delle attenuanti generiche.

Ma l’agguerrito collegio difensivo di Alfonso Della Rocca non si diete per vinto. E’ vero, la pena di anni 9 per un omicidio è insignificante, (anche se il Della Rocca aveva già sofferto 4/5 anni di reclusione), ma fu tentata la carta dell’appello. La difesa può accettare la ricostruzione per la esplosione dei primi colpi – ribadirono i difensori ma non può accettarla per la ricostruzione relativa ai colpi successivi –  e conclusero chiedendo alla Corte di Assise di Appello di Napoli di voler riformare la sentenza di primo grado e di assolvere Alfonso Della Rocca, trattandosi di persona non punibile per avere agito in stato di legittima difesa obiettiva o putativa; di volere nella ipotesi subordinata ritenere che il Della Rocca abbia agito in situazione di difesa putativa per di errore da colpa o in situazione di difesa putativa per errore da colpa o in situazione di accesso colposo di legittima difesa condannandolo alla pena contenuta nei limiti del sofferto. Bella richiesta. Ma la corda quando si tira troppo si spezza. L’appello confermò il verdetto e la Suprema Corte pose una pietra tombale sul verdetto dell’Assise di Santa Maria Capua Vetere. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Guido Del Cogliano, Clemente Memola, Ettore Botti,  Mario Zarrelli, Adriano Reale, Luigi Fedele, Alberto Martucci e Vittorio Verzillo.  Oltre al delitto di cui sopra la famiglia Della Rocca si macchio di altri fatti di sangue. Nel 1950 Giuseppe Della Rocca uccise l’ing. Ugo Pierucci che riteneva colpevole della morte del fratello e nel 1955 Alfonso Della Rocca ( n. 1928) uccise il suo concorrente nella vendita della gazzose Clemente Palermo 

 

 

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