Libertà di Mattia Feltri La Stampa

Ieri Aleksej Navalny, il più celebre oppositore di Vladimir Putin, è stato condannato per frode a nove anni di reclusione da un tribunale di Mosca. Si cominciò a sentir parlare di Navalny, perlomeno qui in Occidente, quando nel giugno del 2013 decise di candidarsi contro quello che già definiva un satrapo. Blogger anti corruzione, lo qualificò l’Ansa. Un mese e dieci giorni più tardi subì la prima condanna: cinque anni per appropriazione indebita. Da allora, Navalny non ha più avuto requie, è stato avvelenato con un agente nervino, è stato aggredito con un colorante chimico per cui ha quasi completamente perso l’uso di un occhio, è stato ripetutamente arrestato per manifestazioni non autorizzate e ieri, dopo la condanna, ha gridato che Putin ha paura della verità. Voi che cosa fareste al posto di Navalny? Lo chiedo perché non so se difenderei armi in pugno l’Italia dall’invasore, non so se da ucraino resterei sotto le bombe, penso che la resistenza ucraina più sarà prolungata e più obbligherà Putin a trattare, e penso che un po’ ci sfugga l’enormità epica di questi ragazzi che da tutta Europa tornano a casa per morirci dentro, piuttosto che vedere il loro paese ridotto in schiavitù. Lo chiedo perché nessuno sa, finché non se le ritrova davanti, se le circostanze più estreme farebbero di lui un eroe o un vile. Non so se, al posto di Navalny, avrei ceduto, se mi sarei arreso in cambio della libertà. So però che non è la libertà a cui Navalny aspira per sé e per la Russia. Perché sia chiaro, non è Putin a rinchiudere Navalny in carcere, è Navalny che decide di resistere in carcere, come gli ucraini sotto le bombe.

Mattia Feltri

Ipocrisia di Salvatore Merlo Il Foglio

Il Parlamento più putiniano d’Europa, quello che tra il 2018 e il 2020 aveva imposto la cretinocrazia di tutti gli estremismi antioccidentali degli ultimi 40 anni, ieri si è convertito. Emma Bonino osserva, e sorride. “Ipocriti”, dice. “Basterebbe ricordare le ventidue onorificenze a personalità del regime russo date dai governi di Lega e M5s in pochi anni per rendere l’idea di cosa è successo in Italia. Di quale pasta è fatto questo Parlamento”. Ma questo accadeva prima. Oggi è il giorno della purificazione, del lavacro. E ripulendosi, con quindici applausi e due lunghissime standing ovation a Volodymyr Zelensky, ecco che il Parlamento italiano si libera dell’ombra di Putin e si abbandona a un liberatorio calcio al dittatore impantanato e isolato. Applaude la Lega e applaude il M5s, assieme a FdI e al Pd. In fondo accade soltanto a ogni visita di Papa. Applaudono tutti. A scandire ogni sintomatico passaggio del discorso di Mario Draghi che risponde a Zelensky: la condanna della Russia, l’Italia che sostiene l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue, la difesa della libertà. Ed è entusiasta il vicesegretario di Salvini, Lorenzo Fontana, come pure Edoardo Rixi, lui che era stato bandito dall’Ucraina poiché era andato in visita nella Crimea “annessa” da Putin. E allora tutto a Montecitorio dà la sensazione furbetta della patacca, pur nel riscatto della dignità di un attimo: l’applauso che fa tirare il fiato. Siamo tornati normali. Forse.

Volevano uscire dall’euro e allearsi con Putin e con la Cina, con gli “amici” che avrebbero certamente comprato il nostro debito pubblico e salvato l’Italia. È finita con il presidente della Bce nominato premier, nel 2021, e con l’invio di armi contro la Russia, nel 2022. Ieri Mario Draghi lo ha ripetuto: l’invio di armi continuerà. E loro applaudivano. Poi Draghi diceva che “l’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea”. E loro applaudivano, ancora. Persino i ragazzi di Giuseppe Conte. Quegli stessi che nel 2014, facendo l’interesse della Russia, si opponevano al trattato di libero scambio tra l’Ue e l’Ucraina. Ora vogliono Zelensky in Europa. Ma se Putin è stato il feroce autarca illiberale descritto da Draghi, se è stato l’orrore che il Parlamento ha condannato ieri con i suoi dodici applausi, ebbene questo è stato possibile anche per gli eccessi di idolatria, per la stupida servitù dei tanti camerieri disinteressati che lo hanno servito nel mondo. In Europa. E anche in Italia. Dov’erano i difensori della democrazia quando Putin assassinava giornalisti e incarcerava avversari politici? Erano sulla Piazza rossa, come Matteo Salvini, a dire che “mi trovo meglio qui che in certa Europa”. E insomma è lecito che il Parlamento voglia liberarsi così, applaudendo, di colui che lo ha cavalcato da Mosca: ma restano calci di fine partita, nel sottopassaggio, verso gli spogliatoi. Perché in questi applausi d’ipocrisia si esaurisce davvero la stagione della corte dei miracoli. Lega e 5 stelle si spellano le mani, e il loro stesso clap-clap sembra accompagnarli tutti alla porta.

Salvatore Merlo

 

Primavera di Marina Corradi Avvenire

Da mesi gli americani insistentemente avvertivano dell’ammassarsi di convogli militari russi alla frontiera con l’Ucraina, senza essere da molti ascoltati. Oggi Biden mette in guardia dal rischio di uso di armi chimiche in quel Paese.

Continua a ripeterlo. Lo si sente al tg, anche qui, stamattina, al bar accanto al mercato. Eppure, osservo, i milanesi fanno la spesa come sempre. Casse di splendide fragole brillano dai banchi. Tra i vestiti che sventolano – in questo sole di marzo ogni cosa appare bella – spiccano le fantasie anni 70, e i pantaloni a zampa di elefante. Nugoli di donne svuotano un banco che svende tutto per sei euro. Poi ci sono i ciclamini e le viole mammole – e bisogna non avere un cuore, per resistere. Si torna dunque a casa stracarichi e soddisfatti: finalmente, primavera.

Mi sono sempre chiesta come si viveva in Europa appena dopo il 1 settembre ’39, invasione tedesca della Polonia. Forse ne discutevano solo quelli che leggevano i giornali?

Forse ci si diceva che la Polonia era lontana? Ma era una fine d’estate così bella: le famiglie benestanti erano al mare, immagino, e nelle campagne si preparava la vendemmia. Si sta, in certi momenti, come sul crinale di una montagna, fermi nelle proprie abitudini, non volendo credere al sussurrare dell’ansia. Si vive come se fosse tutto normale. Solo, cambiando canale rapidamente, a certe immagini del tg, la sera.

Marina Corradi

 

Balordi di Massimo Gramellini Corriere della Sera

Dopo averlo fermato per strada con una scusa, i due ragazzini hanno messo il coltello alla gola di un coetaneo, lo hanno chiuso nel cofano della sua minicar e, mentre uno abusava di lui, l’altro riprendeva la scena in diretta su Facebook. Utilizzandolo come scudo umano, lo hanno costretto ad accompagnarli a casa sua, in un quartiere di Roma, dove hanno abusato anche della madre, da cui poi si sono fatti cucinare un toast. Infine, hanno preteso che il coetaneo li riportasse in giro con la sua automobilina, senza minimamente considerare che nel frattempo la madre avrebbe dato l’allarme. Quando la polizia li ha fermati, erano persino stupiti di tanto chiasso: «Volevamo solo divertirci un po’». Qualcuno ha sottolineato che erano extracomunitari, qualcun altro che erano minorenni, ma in una hit-parade delle sottolineature metterei al primo posto la mancanza di reazioni emotive. Le nuove bande giovanili sono oltre la banalità del male. Il male non lo percepiscono proprio più. Riprendono l’abuso con il telefonino, come se fosse una bravata qualsiasi. E, invece di scappare dal luogo del misfatto, si attardano a mangiare un toast sotto lo sguardo terrorizzato delle vittime.

A segnalare la deriva dell’adolescenza si corre sempre il rischio di passare per vecchi tromboni: in fondo Arancia Meccanica è un film di 50 anni fa. Ma qualcosa deve essere successo a questa generazione di balordi. Non è che non sanno quello che fanno. Lo sanno, ma sembra che non gliene importi più niente di saperlo .

Massimo Gramellini

Eco e Bobbio di Aldo Cazzullo Corriere della Sera

 

Caro Aldo,

nell’intervista a Giampiero Mughini lei definisce Umberto Eco il più importante intellettuale italiano del dopoguerra. E Norberto Bobbio, dove lo mettiamo?

Daniele Borletti, Genova

Caro Daniele,

i due nomi che lei fa sono complementari. Appartengono a generazioni diverse e hanno studiato campi diversi, ma hanno condiviso lo stesso humus. Si incontrarono nella fervida Torino degli anni 50 («Torino dura e viva» è il titolo del capitolo del Provinciale in cui Giorgio Bocca racconta quel decennio). Il giovane Eco, arrivato da Alessandria, seguì i corsi del professor Bobbio all’università, la cui sede era allora a Palazzo Campana, a due passi dai portici di via Po. Umberto frequentava allora l’Azione Cattolica, e poi sarebbe entrato nella neonata Rai con i suoi amici Furio Colombo e Gianni Vattimo (e si legò a Enza Sampò, che prima era fidanzata con un giovane giornalista siciliano, Emilio Fede). Frequentava quell’ambiente anche un promettente ragazzo di Trieste, Claudio Magris. Bobbio divenne l’editorialista principe della Stampa, il cui editore Giovanni Agnelli frequentava la casa sotto i portici di via Sacchi, vicino alla stazione di Porta Nuova. Eco ruppe con il suo maestro Luigi Pareyson, che gli aveva preferito Vattimo come erede, e insegnò prima alla Statale di Milano con Enzo Paci e Antonio Banfi, poi a Bologna, dove fondò la semiologia e il Dams. Entrambi conobbero grande fortuna editoriale, non solo in Italia: prima Eco con Il Nome della Rosa e gli altri romanzi, quasi tutti (cosa che non si fa mai notare) ambientati in Piemonte; poi Bobbio con il suo Destra e sinistra, pubblicato da Donzelli, che nel paesaggio della scienza politica sconvolto dal crollo del Muro risistemò alcuni fondamentali (a chi sostiene che destra e sinistra non esistono più, ricordo che Obama non fu Bush e Biden non è Trump; libero poi ognuno di scegliere). Nonostante il successo, sia Bobbio sia Eco — come Vittorio Foa e Franco Cardini, per citare un intellettuale di sinistra e uno di destra — restarono sino all’ultimo aperti al confronto con studenti, lettori, giornalisti, nonché disponibili a mansioni anche noiose tipo la rilettura delle bozze dei libri: a conferma del fatto che i veri grandi sono sempre persone accessibili, mentre quelli che se la tirano non valgono niente.

Aldo Cazzullo

 

Pinocchio di Maurizio Crosetti la Repubblica

L’insopportabile Pinocchio. Il furbo e falso Pinocchio. L’edulcorato, consolatorio Pinocchio. Il bravo bambino Pinocchio. Pinocchio che fu costretto a tradire la prima versione di sé stesso, dove il discolo moriva impiccato ma i piccoli lettori di Collodi insorsero, piangevano calde lacrime e allora l’editore obbligò l’autore a un lieto fine di carne e bontà. Lieto? «Ma per niente! Lì dentro non c’è nulla di pedagogico, nulla di vero, soltanto legno».

Aurelio Picca, scrittore di fiamma e solitudine, voce aspra e irregolare, potentissima, della nostra letteratura, il burattino l’ha letto soltanto l’anno scorso. Poi ha deciso di scrivere Contro Pinocchio (Einaudi Stile libero). Segue dibattito.

Ma cosa le ha fatto di male Pinocchio?

«Ammetto che già mi era antipatico prima, e la lettura ha rafforzato l’impressione. Pinocchio è furbino, è scemo, è egoista, è cattivo, è violento, è ingannatore. Se almeno fosse rimasto un eroe gotico della morte, magari mi sarebbe anche piaciuto».

Durò poco, quel burattino nero. Lo spazio di un’edizione. «Eppure era un perfetto toscano d’Etruria con tutte le ombre della Garfagnana e il culto delle tombe, lo dico perché in gioventù sono stato tombarolo anch’io. E invece la retorica s’impose, insieme alla logica del commercio: Pinocchio salvato e redento, Pinocchio bravo bambino vendeva di più. Ma quel finale è illeggibile, di un’insignificanza totale. Invece, crescere è perdersi nel mondo».

Ma questa non è una favola di formazione?

«Macché, Pinocchio resta un cuore di legno anche quando diventa bambino. Simula un’umanità che non possiede. E poi vorrei almeno sapere di quale legno fosse fatto: all’inizio si parla di materiale di scarto, poi però diventa una gamba di seggiola e allora dev’essere legno duro, durissimo. E io domando: faggio? Rovere? Castagno? Abete? Ma ce lo volete dire una buona volta che legno è?».

Con i personaggi del libro lei è davvero impietoso, cominciando da Geppetto.

«Un povero onanista, un non padre. Geppetto si crea da sé un finto bambino».

Quando Geppetto incontra Mastro Ciliegia, le cose se possibile peggiorano.

«Quei due mi sembrano Pacciani e Vanni, sono compagni di merende. Non mi riferisco, com’è ovvio, alla componente tragica della cronaca ma al contesto antropologico. I due falegnami di Collodi per me sono tipi grevi, volgari, anche se alla fine è proprio l’asprezza di alcune parti a rendere Pinocchio un libro non tutto da buttare. Anche Pacciani e Vanni sono personaggi letterari».

Il Gatto e la Volpe lo sono?

«Il finto cieco e la finta zoppa? Due para…».

Che dire della Fata dai capelli turchini?

«Un’icona pop, una bambina col viso di cera, una morta truccata da punk. Ammetto che l’aspetto cimiteriale della fiaba mi garba parecchio, per dirla alla toscana».

Solo per Mangiafoco lei fa un’eccezione.

«Perché è simpatico! È umano, si commuove, sembra cattivo e invece è buonissimo. E poi mi ricorda i burattinai del Gianicolo, al teatrino vicino all’ospedale “Bambino Gesù”: ci andavo da piccolo, c’era il ghiaino in terra e Roma sotto. Tra il pubblico bambini malati, convalescenti oppure guariti, e i loro fratellini: pensai che i pezzi di legno assorbissero il male dei bimbi con il miracolo della consolazione».

Torniamo alla morte, che intride Pinocchio dalla prima all’ultima riga, anzi alla penultima.

«L’orribile bellezza della morte. Morte è una parola che andrebbe ripristinata, invece l’hanno rimossa. Ora cremiamo tutti per guadagnare spazio, ma così incendiamo le memorie. Da bambino mi portavano al cimitero, io persi papà quando lui aveva 28 anni, giocavo tra le lapidi e volevo portare a casa i sassetti e i ciuffi d’erba. Ecco, Pinocchio è un libro tomba, una bara carbonizzata. A me non fa neanche ridere, sebbene a volte mi ricordi una burla, anzi una bischerata».

Il burattino si vende l’abbecedario: un segno d’ignoranza?

«Ce lo siamo venduto tutti! Oggi i ragazzi arrivano alle superiori e non sanno né leggere né scrivere. Aveva ragione Calvino, bisogna imparare le poesie a memoria, bisogna sapere Leopardi a menadito: lui, l’ostetrica che sussurra ai bambini il loro destino».

Perché alla fine ha deciso di leggere Collodi?

«Accadde dopo la prima ondata pandemica, quel “liberi tutti” che sapeva di folla e follia. Per reazione sono rimasto a letto quattro mesi e ho letto moltissimo».

Nel libro lei demolisce Pinocchio, ma esalta Cuore e I ragazzi della via Paal. Perché?

«DeAmicis è vicino al Manzoni, i racconti mensili di Cuore sono tra gli scritti d’appendice più alti dell’Ottocento. Cuore è il libro della Patria entusiasta e giovane, ben diversa dalla nostra, imputridita. E non è certamente retorico: questo lo sosteneva la neoavanguardia. Nell’aula scolastica di Cuore ci sono i mestieri dei padri, entrano gli artigiani, le classi sociali, insomma la vita vera, mentre Pinocchio non ha mai lavorato e non conosce la storia. Cuore è un romanzo pieno d’energia: la maestra celo leggeva alternandolo alla Bibbia, e aveva ragione».

Invece i ragazzi ungheresi di Molnár anticipano l’ecatombe.

«Un libro modernissimo, purtroppo: il racconto della guerra in arrivo. Lì dentro c’è il respiro dell’impero e c’è la vita della strada, dove i giovani combattono per un pezzodi terra che nel caso del povero Ernesto Nemecsek sarà la terra della sua sepoltura. Lui è bontà e purezza, altro che Pinocchio. È carità e innocenza».

Lei scrive che la vera innocenza si conserva sempre, in un uomo, se appunto è vera, ma può trasformarsi in ferocia.

«Si tratta di ferocia animale, una reazione di natura, non è crudeltà volontaria. Rispetto all’innocenza è speculare. Gli innocenti sono i più colpiti dalla ferocia del mondo. E i bambini cattivi esistono: l’infanzia idealizzata non potrà mai essere buona letteratura».

Maurizio Crosetti

 

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