Marino Niola: “In guerra dal salotto con soluzioni semplici: una recita grossolana”

L’ANTROPOLOGO – “Il furore bellico fa effetto anche su chi non combatte. Dobbiamo stare con l’Ucraina, è del tutto naturale. Ma non dobbiamo abdicare al nostro pensiero”

Professor Niola, c’è un furore bellicista, un’arietta da combattimento, una voglia di fare a cazzotti. Sembra quasi che non vediamo l’ora di dirci in guerra con la Russia e regolare i conti definitivamente.

Diceva il grande Max Weber che il furore della follia bellica fa effetto anche a chi non combatte. Magari nel salotto di casa si esercita fantasticando con la mente: bum, bum.

Questo clima non è mai appartenuto all’Italia che ha fatto sempre fatica a schierarsi, a indossare la tuta da combattimento. Andreotti, Berlinguer e Craxi, per dire dei tre maggiori esponenti politici dell’ultimo spicchio di Novecento, hanno sempre scelto di fare un passo di lato davanti a questioni che imponevano una scelta di campo. Eravamo così codardi ieri?

Penso invece che la posizione italiana fosse saggia e intelligente. Si è andata indebolendo quando abbiamo perso interpreti di uguale peso politico.

Oggi sembriamo tifosi.

Per quel poco che capisco di politica mi pare che il clima muscolare sia stato agevolato dalla convinzione che Lega e Cinque Stelle fossero intimi della Russia. C’è così stato un raddoppio di motivazioni, una voglia in più di regolare i conti con Mosca con l’intento non dichiarato di regolarli in casa nostra.

Davvero solo questo?

Abbiamo avuto la pandemia nella quale si è consolidato un linguaggio di parte, muscolare, antagonista, anche patriottico. Avevamo il virus come nemico. Dai canti dal balcone all’inno di Mameli, dai fondi delle pentole come rulli di tamburo siamo passati alla lotta in campo libero. C’è stata la guerra con i no vax: su ambedue i fronti uno scambio intenso di parole come pallottole.

La guerra ci ha dunque trovati già bene armati con le parole.

Sa che Thomas Hobbes, il padre del pensiero politico moderno, utilizzava due distinte parole per dire guerra? La prima, in senso proprio, era war. L’altra, per definire una condizione di stato, era warre. Si avvicina alla nostra guerra fredda. In questo tempo le parole orientano, costruiscono una realtà da cima a fondo. Ricorda la barzelletta?

Quale barzelletta?

Il nonno ateo che al nipotino, allevato alla preghiera dalla mamma timorata di Dio, domanda: piccolo, vuoi più bene al diavolino o alla madonnaccia? La parola dunque influenza, condiziona, risolve persino la questione.

Si dice che la questione è semplice: stare con l’Ucraina oppure con la Russia.

Dobbiamo stare con l’Ucraina, è del tutto naturale. Ma non dobbiamo abdicare al nostro pensiero.

Convengo con lei.

Non deve bastarci questo assunto.

C’è guerra fredda anche tra il popolo della semplificazione e quello della complessità. Chi complica i ragionamenti aiuta la Russia, si dice.

Beh, l’eccessiva semplificazione rappresenta però una recita politica grossolana. Si ricordi che le dittature adottano sistemi semplificati di orientamento del pensiero. La soluzione è sempre a portata di mano, la vittoria vicinissima. La complessità ci aiuta invece a guardare le questioni e approfondire le contraddizioni.

Però gli effetti della cancel culture, la più barbarica delle operazioni di reset di ogni pensiero dissonante, si sono visti anche da noi.

Quel che è accaduto alla Bicocca a Milano, aver cassato il programma di lezioni su Dostoevskij, ci fa capire in quale tempo viviamo.

Il tempo della warre.

Ecco Hobbes, appunto la warre. L’ispessimento delle parole, la voglia di trovare il nemico e metterlo in riga con tutti gli epiteti possibili, anche con la derisione, anche con l’offesa personale. I social sono il catino della contumelia, il deposito dell’oltraggio e di ogni altra zozzeria.

Durerà questa guerra delle parole?

Credo di no, dico di no. Penso che ancora qualche settimana e poi cambieremo programma in tv.

FONTE: 28 MARZO 2022