Il boia faceva la camorra vendendo i pezzi della corda degli impiccati. Quando fu richiamato disse che i giudici condannavano ma era lui che doveva uccidere anche gli innocenti condannati a morte.
A Capua c’era il tribunale e la prigione nel Castello del Pirotecnico.
Nella Reggia di Caserta si tenne una riunione per l’arresto di Medici ritenuto un traditore. Nel corso del pranzo che ne seguì arrivarono caciotte, mozzarelle e provole affumicate da Carditello. Il tutto innaffiato con
Un commerciante tale Francesco Iaselli di Caserta fu impiccato quale cospiratore. Si rifiutò di fare il delatore in cambio della vita. Scelse la morte.
I familiari di Ercole D’Agnese, il casertano di Piedimonte di Alife, presidente della commissione esecutiva della Repubblica avevano pagato duemila ducati per salvargli la vita. D’Agnese era già morto in carcere ed era stato portato cadavere sul patibolo.
Un’ amara considerazione dell’autore – che riporta una frase di Malaparte – “La Legge è come l’onore delle puttane”.
Prossimamente in tutte le librerie LE RAGIONI DEL BOIA il nuovo libro di Giuseppe Garofalo
– E’ stato licenziato per i tipi di Graus Edizioni di Napoli, per la collana Tracce, Le Ragioni del Boia, che sarà in tutte le librerie ad ottobre ed è l’ultimo lavoro del penalista Giuseppe Garofalo.
La trama del libro è avvincente. L’autore con estrema abilità riesce a condurre il lettore nei meandri della giurisdizione, mostrandone il lato umano, crudele e privo di quella logica incisa nei libri, che raramente è presente nelle aule dei tribunali. La giustizia mirabilmente dipinta è quella delle leggi soggette ad interpretazione, dettata dall’arbitrio dei giudici, di una legalità fatta di concetti precettistici che sono incompatibili con la ben diversa realtà dei tribunali e del patibolo.
Uno degli avvocati più illustri della città di Napoli si ritrova ai piedi del patibolo, condotto col cannale al collo, come una bestia da macello, pronto ad essere messo a morte in uno dei secolari teatri della giustizia, dalla scure del boia.
Giudici, accusatori, vittime e regnanti, tutti sembrano essere nell’atto di recitare una tragedia invece che presenziare ad un processo di pena capitale. La scena teatrale non manca, Castel Capuano e Piazza Mercato sono solo tra le più citate scenografie davanti alle quali i sanguinosi atti di governo si consumano. È una narrazione fatta di processi giudiziari che si svolgono a cavallo tra il XVIII e XIX secolo nella Napoli borbonica, e i cui protagonisti sono vittime e colpevoli, non tanto di ciò di cui vengono accusati, quanto della giustizia che processa se stessa.
“Ho indossato la toga per 70 anni – scrive, tra l’altro, Giuseppe Garofalo nel prologo del libro – non c’è teatro iudiciale (soppresso o nuovo di zecca) dove io non abbia recitato la mia parte. Anche in due fuori del comune: la Chambre d’accusation di Parigi e la CAF (Commissione di Appello Federale) dove conobbi lo strano volto della giustizia sportiva.
Non ho di che pentirmi. Non senza difficoltà in questo lungo tema ho dovuto adeguarmi ai continui cambi di linguaggio della giustizia, a volte incomprensibile, contraddittorio e sgrammaticato.
Ho difeso politici, professionisti, magistrati, associati a delinquere, assassini per amore, odio, vendetta, denaro, rapinatori, ladri, truffatori per mestiere o per necessità, bancarottieri abituali e occasionali, sedotte e sedotti abbandonati.
Ho sostenuto cause giuste e cause ingiuste, ho sofferto sconfitte immeritate e goduto vittorie altrettanto immeritate. Inizialmente ho guadagnato poco pur lavorando molto e alla fine ho guadagnato molto lavorando poco. Ho ricevuto riconoscimenti attestati e lusinghieri commenti. Ho scritto libri che hanno avuto successo.
Nel deporre definitivamente la toga in armadio ho voluto ricordare le vicissitudini di un avvocato, protagonista di questo racconto, non perché sia stato a suo tempo un novello Demostene, ma perché visse tutte le giustizie e controgiustizie di un particolare periodo della storia di Napoli.