1955,  in Arienzo di San Felice a Cancello, Alfonso Della Rocca uccise a colpi di pistola Clemente Palermo suo antagonista nella vendita delle gazzose. Una faida con una lunga scia di sangue di Ferdinando Terlizzi   

 

Il 5 maggio del 1955 proditoriamente, in Santa Maria a Vico, con pugni e calci Vincenzo Palermo venne aggredito da Alfonso e Gerardo Della Rocca,  e ridotto a mal partito. Fu un avvertimento al delitto che ne seguì dopo pochi giorni con l’assassinio di  Clemente Palermo avvenuto in Arienzo, nella pubblica Piazza Valletta il 3 giugno. Infatti, il comandante della stazione di Arienzo maresciallo Gennaro De Mattia,  veniva informato tramite il carabiniere Giacinto Morgillo che in quella piazza giaceva esamine – crivellato di colpi nella sua auto – il cadavere di Clemente Palermo. Nella segnalazione che ne seguì il rappresentate della Fedelissima indicava anche l’assassino identificandolo in Alfonso Della Rocca di anni 27, da San Felice a Cancello, il quale dopo il delitto si era dato alla latitanza. Il 16 giugno i carabinieri inoltravano un dettagliato rapporto all’A.G. significando che sulla scena del crimine erano intervenuti prima il medico legale Aniello Annunziata,  che aveva constatato  il decesso della vittima,  (il suo prestigioso orologio “Heberard” aveva cristallizzato l’ora del delitto le lancette erano ferme alle 18 e 53) e poi il vice Pretore Dr. Arnaldo Nuzzo,  che ne aveva ordinato la rimozione. Nel portafogli della vittima oltre ad altre documenti: porta d’armi, tessera dell’Unione Industriali, un libretto di assegni del Banco di Napoli,  17 mila lire in monete di carta e 290’ lire in metallo; una lettera con intestazione On. Prof. Avv. Giovanni Leone, Presidente della Camera dei Deputati, Montecitorio, Roma; e un biglietto da visita dell’avvocato Giuseppe Irace, noto penalista di Sessa Aurunca. Sulla scerna del crimine vennero repertati 4 cartucce di pistola automatica calibro 42  e identificati vari personaggi che avevano assistito al delitto: Giovanni Ippolito, Romolo Guida, Francesco Porrino, Giovanni Del Gaudio e Giuseppe Scalera, che subito vennero sottoposti ad interrogatorio. Giovanni Ippolito, in particolare riferì di aver visto il Della Rocca dirigersi dal luogo del delitto verso di lui e di altre persone con una pistola in pugno, che dopo pochi passi ripose nella cintola. Giunto alla sua altezza gli rivolse la frase: “Zio Giovanni, salutatemi mia moglie, perché io me ne vado”. Allontanandosi, poi , verso via Delle Torrette. Il teste chiariva di essere imparentato con il Della rocca e che tra la vittima e l’assassino non correvano buoni rapporti essendo entrambi produttori di gazzose e concorrenti tra di loro. Ma chiarì che alla base del delitto c’era la vendetta per il pestaggio che – una ventina di giorni prima – il fratello minore del Della Rocca, a nome Gerardo, nel comune di Santa Maria a Vico ebbe ad aggredire un figlio di Clemente Palermo. Dopo qualche tempo il Della rocca si costituì ai carabinieri  e racconto di essere stato sparato dal Palermo e quindi di essersi difeso uccidendo lo stesso ed avendo addirittura – prima di allontanarsi dal luogo del delitto – raccolta la pistola del suo avversario rimasto ucciso. Gli avvocati Ciro Maffuccini e Vittorio Verzillo, nell’interesse della vedova e dei figli di Clemente Palermo,  – rivolsero un foglio di lumi al giudice istruttore Vincenzo Cimmino,  che era stato incarico all’istruttoria del processo,  chiarendo allo stesso “di mettere in luce alcuni punti per chiarire la causale remota e prossima del grave delitto  ed a conferma che esso fu indubbiamente premeditato col concorso morale e materiale anche dei fratelli Gerardo e Pasquale, dell’esecutore materiale Alfonso Della Rocca”.

 

 

L’istruttoria del delitto – Le perizie autoptiche e balistiche  – La costituzione e la versione dell’assassino –  Il rinvio al giudizio della Corte di assise

 

Il 6 giugno del 1957 il giudice istruttore Vincenzo Cimmino depositava la sentenza di rinvio a giudizio contro  Alfonso Della Rocca, Gerardo Della Rocca, Clemente Ippolito, Pietro Piscitelli, Pasquale Della Valle e Salvatore Piscitelli; i primi due da San Felice a Cancello; il terzo e il quarto da Arienzo e gli altri da Santa Maria a Vico, per rispondere il primo, ‘per avere con premeditazione ucciso,  in Arienzo,  il 3 giugno del 1955,  Clemente Palermo sparandogli contro diversi colpi di pistola calibro 12; il primo ed il secondo, per avere procurato in concorso tra loro, mediante pugni e calci, a Vincenzo Palermo lesioni personali volontarie in Santa Maria a Vico il 5 maggio del 1955; il quarto, il quinto e il sesto,  per avere falsamente affermato – deponendo innanzi al giudice istruttore- il terzo e il quarto il 20 agosto del 1956 ed il quinto ed il sesto il 14 dicembre del 1955 di aver visto Alfonso Della Rocca – subito dopo il delitto – in possesso di due pistole e di aver sentito lo stesso pronunciare frasi che avrebbero dovuto giustificare il suo gesto criminoso, circostanze queste smentite recisamente dagli altri testi oculari sentiti  dai carabinieri subito dopo il delitto in Arienzo e Santa Maria a Vico il 20 agosto e il

Attraverso la perizia necroscopica – eseguita nel cimitero di Arienzo –  si accertava, però, che il Palermo era stato attinto da ben 8 colpi di pistola. Infatti i periti settori dottori Gaetano Papa e Mario Pugliese, entrambi con studi medici in  Santa Maria Capua Vetere al termine del loro incarico peritale affermavano che ‘il decesso della vittima era avvenuto circa 24 ore prima e che la causa della morte andava ricercata ad una copiosa emorragia interna ed esterna conseguente a lesioni di organi vitali; che il Palermo venne attinto da ben 8 colpi di arma da fuoco a canna corta di calibro 12 e che gli stessi vennero esplosi da breve distanza e che la vittima e l’offensore dovevano trovarsi l’uno di fronte all’altro e su uno stesso piano’.

Dopo alcuni giorni di dibattimento alla richiesta di 30 anni di reclusione chiesti dal pubblico ministero fece eco il verdetto della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere che condannò a 25 anni di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche. Naturalmente la sentenza fu appellata. Tra i motivi addotti dai difensori spiccava il mancato riconoscimento della legittima difesa. Essi dimostrarono che il Palermo, pratico di armi, aveva esploso un solo colpo anche se andato a vuoto. La circostanza, ribadirono i difensori, era stata evidenziata dai testimoni che avevano parlato del fatto che il Della Rocca aveva afferrato immediatamente la mano del Palermo  che impugnava la pistola. Il breve intervallo dello sparo dei colpi – ribadirono i difensori – ipotizza che i colpi non furono sparati in sequenza e che non furono sparati tutti dalla stessa pistola. Ergo al Della Rocca spettava la legittima difesa oltre che la riduzione della pena. Il Procuratore Generale, invece, nei suoi motivi  insistette per la premeditazione e si oppose alla concessione delle attenuanti generiche.

 

 

 

 

L’inchiesta contro i carabinieri per la cancellazione dal registro delle armi della matricola della pistola. Scagionato Lugnano dall’accusa  – La condanna a 24 anni –

 

 Ma l’istruttoria del complesso processo riservò anche altre soprese. Dopo la sentenza di primo grado il 7 aprile del 1962,  fu depositato da parte dei carabinieri della Compagnia di Caserta – allora al comando del capitano Igino Trebioli – presso la cancelleria della Prima Sezione della Corte di assise di Appello di Napoli un plico sigillato contenente le due pistole  Browning (calibro 7,65) sequestrate a Pasquale Palermo. Nella medesima data il capitano Trebioli assistito dal Tenente Giacomo De Masi, comandate della Tenenza di Maddaloni, faceva pervenire al Procuratore Generale Roberto Angelone, un dettagliato rapporto relativo ai confronti tra i carabinieri che si erano occupati delle relazioni e delle denunce delle pistole. Si era scoperto che vi erano state delle abrasioni dal registro della caserma. Una vicenda che faceva ipotizzare corruzione dei militi e favori  nei confronti dell’assassino che voleva dimostrare di aver agito per ‘legittima difesa’. Si trattata di vari confronti effettuati per stabilire perché era stato cancellato nei registri della caserma dei carabinieri una matricola di una pistola appartenente ai Della Rocca tra il carabiniere Francesco Tucci, il brigadiere Giovan Battista Zito, il maresciallo Massimino Amprino  e Pasquale Palermo.

  L’inchiesta interna dei carabinieri era nata in seguito ad un verbale di ‘istruzione sommaria’ che aveva redatto il sostituto procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Vincenzo Adami, il 5 giugno del 1961, in una cella del vecchio carcere sammaritano “San Francesco”, allorquando il detenuto Alfonso Della Rocca (già condannato dalla Corte di assise a 25 anni di reclusione per l’omicidio del Palermo) aveva chiesto dal carcere di parlare con un magistrato per delle “rivelazioni” gravi e sconcertanti inerenti al processo che doveva celebrarsi a giorni preso le assisi di Appello. Il Procuratore Generale, Roberto Angelone fece una indagine accurata coinvolgendo gli ufficiali dei carabinieri e interrogando tutti i protagonisti del singolare episodio e alla fine concluse con il chiedere la “impromovibilità dell’azione penale”.  Fece la premessa del tutto partendo dal delitto e dalla successiva costituzione del Della Rocca. Tratto al giudizio della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere fu condannata a 25 anni di reclusione. La Corte aveva respinta la tesi secondo la quale il Della Rocca andava assolto per legittima difesa non ritenendo veritiera la ricostruzione del delitto, del colpo sparato dalla vittima, addirittura del possesso della pistola. Avverso la sentenza di primo grado si produceva appello. Senonché qualche giorno prima del giudizio di appello il Della Rocca fece la sua esplosiva rivelazione al giudice Adami. La pistola consegnata era quella che gli aveva dato Lugnano (compenso 20 mila lire) e che la pistola effettivamente tolta alla vittima era stata da lui occultata a casa sua e che i fratelli erano disponibili a consegnarla al Presidente della Corte di assise di appello. Fu chiarito l’equivoco dell’abrasione nel registro delle armi della caserma dei carabinieri di Santa Maria a Vico ed alla fine il Procuratore pur constando le manchevolezze dei carabinieri concluse che “i carabinieri non ebbero la coscienza e la volontà di immutare il vero, ma intesero rendere le registrazioni relative alle armi a suo tempo denunciate da Clemente Palermo conformi alle caratteristiche delle pistole che il figliuolo andava a denunciare come ricevute in eredità dal padre. Pasquale Palermo – nonostante le sue smentite – fu lui a suggerire ai carabinieri di cancellare il numero di matricola annotato sui registri delle armi. Neppure si è avuta la prova certa del coinvolgimento dell’avvocato Francesco Lugnano nello scambio della pistola. In grado di appello al Della Rocca venne scalato un anno ed il successivo ricorso per Cassazione – tendente ad ottenere la concessione della scriminante della provocazione e la richiesta (già fatta in appello) della riduzione della pena – fu rigettato dal Supremo Collegio.

In definitiva il Della Rocca fu condannato dalla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere il 5 maggio del 1959, a 24 anni di reclusione. In appello  con sentenza del 5 ottobre del 1964, la condanna aumentò di un anno. La Cassazione con sentenza del 21 marzo del 1967,confermò. Tra i testimoni il senatore Francesco Lugnano, che era stato il suo difensore e che fu accusato di aver consegnato una pistola. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alberto MartucciVittorio e Michele Verzillo, Carlo Cipullo, Alfredo De Marsico, Bernardo Giannuzzi Savelli, Guido Cortese, Mario Zarrelli, Ferdinando Cioffi, Ciro Maffuccini,  oltre a Francesco Lugnano.