2775° Natale di Roma di Innocenzo Orlando
Roma che ci ha dato tanto, e di quel tanto abbiamo preso tutto. Troppo.  Il mio omaggio alla città eterna, unica, inimitabile, ineguagliabile.

A Roma come l’abbiamo amata, come l’abbiamo conosciuta, come l’abbiamo vissuta. La quieta indolenza delle sue strade alberate; la minima, eppure sagace, innocua cialtroneria e furbizia trasteverina; il pigro spirito, caustico quanto basta, ma capace di definire in una frase un trattato di sociologia. Il giornale sfogliato su una panchina ai giardinetti, mentre le mamme guardano le carrozzine e i bambini che giocano; addio alla pace di una mezz’ora seduti tranquilli a un tavolino di un bar, ad osservare il viavai della gente, senza assilli; l’ombra dei platani, dei tigli, dei lecci e dei pini, caduti come i sogni quando albeggia. I negozietti, le botteghe, le serrande abbassate marchiate dalla tracotanza costante di scritte oscure, sedicenti graffiti, disprezzo degli altri; la semplicità di un sorriso, di un grazie, di un buongiorno scambiato con uno sguardo, per la via. Il silenzio di certe ore del giorno e di certi giorni d’estate, quelli dipinti da De Chirico; l’ora enigmatica di quell’orologio si è fermata. Il dialetto antico, nostro, lento, cadenzato, a quei suoni parlati con bonario calore, come un cenno d’intesa, come lo parlarono Aldo, Aldo Fabrizi, e Anna, Anna Magnani. Si parlava così, con quel tono leggero, di piccola sprezzatura e innocente spavalderia, verso il resto del mondo. Roma che aveva visto tutto, e il contrario di tutto, e andava avanti, con quella classe innata di aristocratico torpore che odorava di pecorino e di acqua santa, di miracoli e vicoli, di imperatori e ladri.
Addio ai banditi che si sapeva che erano banditi, che ce l’avevano scritto in fronte e sui vestiti azzimati “da coltello”, giù a Testaccio e Magliana, e diventavano un po’ leggenda, romanzo popolare, e un po’ una presa in giro. E il generone, ingioiellato grezzo, che il popolino canzonava dietro, tra principesse vere, poche, e Tumistufi, e cravattari senza umanità. Roma che non riconosci e che ti chiede aiuto e nessuno risponde. Roma, dove si aggirano fantasmi di altri tempi, di ere imponenti senza piccolezze, insieme a spettri senza una ragione. Forse è meglio così, forse è destino. Se mi guardo intorno, sento una nostalgia che mangia dentro: Roma che ci ha dato tanto, e di quel tanto abbiamo preso tutto.