1957, Vico di Pantano – In seguito ad una rissa scoppiata tra mediatori di cocomeri fu ucciso uno dei partecipanti di Ferdinando Terlizzi

Con la fascia di sindaco l’avvocato Pompeo Rendina difensore dell’imputato

Il 26 luglio del 1957 in Villa Literno, Ambrogio Carofano di anni 30, bracciante agricolo,  assieme Domenico Di Fraia, di anni 33 e Michele Misso, di anni 27,  e Giuseppe Gravante, di anni 21, tutti da Villa Literno diedero corso ad una violenta rissa che si concluse con un omicidio la cui vittima fu Giovanni Gravante che aveva preso parte, assieme al fratello,  alla scaramuccia.  Soltanto il Carofano però,  fu accusato di omicidio per aver esploso alcuni colpi di pistola.

Dopo il rapporto dei carabinieri e la emissione degli ordini di cattura e di comparizione, il giudice istruttore Vincenzo Cimmino, incaricato della delicata istruttoria, diede incarico al perito settore dottor Saverio Di Giacomo  di eseguire l’autopsia sul cadavere di Giovanni Gravante rimasto ucciso nel corso della rissa. Al medico legale era stato chiesto di chiarire l’epoca della morte, la natura e mezzi che l’avevano prodotta, la distanza e posizione tra offeso ed offensore, la causa della morte e il numero dei colpi. Il responso fu che “la morte rimontava a 35/40 ore prima dell’autopsia; che il mezzo che avevano prodotto la morte  era una pistola automatica di probabile calibro sei; che la distanza e la posizione reciproca in cui si trovavano offeso ed offensore – al momento del fatto – doveva essere probabilmente una metro, un metro e mezzo e la posizione dell’offensore doveva essere di fronte all’ucciso, ma tutto spostato sulla sinistra di quest’ultimo. La causa della morte fu prodotta da un dissanguamento per emorragia dovuta a lesione sopratutto della epigastrica superiore e poi anche dalla milza. Quattro sono strati i colpi che hanno raggiunti la vittima.

A chiusura dell’istruttoria furono rinviati al giudizio della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di rissa aggravata Ambrogio Carofano, Domenico Di Fraia, Michele Misso e Francesco Gravante,  fratello della vittima Giovanni anch’egli compartecipe alla rissa. Ambrogio Carofano, inoltre, per aver esploso nel corso della rissa alcuni colpi di pistola che attingevano Giovanni Gravante in parti vitali uccidendolo.

La vicenda fu così ricostruita. Verso le ore 12 e 30 sotto il sole cocente  del giorno 26 luglio del 1957, nella piazza Garibaldi di Villa Literno, detta “quadrivio”, si verificò una sparatoria tra alcuni giovani del luogo. Uno di costoro certo Giovanni Gravante riportò lesioni a seguito delle quali decedete di lì a poco mentre veniva trasportato all’Ospedale civile di Aversa. I carabinieri iniziarono subito una indagine e non tardarono ad apprendere che nella stessa mattinata del 26 luglio, verso le ore 9 nella piazza Garibaldi e precisamente dinanzi all’abitazione di Amedeo Elia, il Giovanni Gravante, suo fratello Francesco Giuseppe e tali Domenico Di Fraia e Michele Misso che frequentavano tutti il quadrivio di Villa Literno per esercitare in società il mestiere di mediatori di cocomeri, avevano avuto un diverbio con Ambrogio Carofano che pure esercitava lo stesso mestiere, in quanto pretendevano che quest’ultimo corrispondesse loro una parte del compenso di mediazione versatogli da alcuni commercianti di Sorrento (identificati successivamente in Luigi Cioffi e Vittorio Inserra) per un affare concluso per suo tramite. Il diverbio era presto degenerato in una zuffa nel corso della quale il Giovanni Gravante aveva riportato un graffio al viso ed aveva a sua volta colpito con una sedia non solo Ambrogio  Carofano ma anche, per evidente errore, il proprio socio Michele Misso che aveva riportato una ferita lacero contusa al cuoio capelluto sì da essere costretto a ricorrere alle cure del sanitario il dott. Paolo Passarelli che gli aveva applicato dei punti. I carabinieri successivamente accertarono altresì che verso mezzogiorno i fratelli Gravante, il Di Fraia e il Misso si trattenevano nella piazza, all’ombra di un albero, nei pressi dell’Osteria di Giuseppe Molitierno  ove erano anche Giovanni Tavoletta, Tammaro Iannone, Tammaro Ucciero, Augusto Ucciero e il ragazzo Vincenzo Catena  quando all’improvviso si era verificata la sparatoria.

Tammaro Ucciero in particolare raccontò che i primi tre colpi erano partiti dalla piazza; che quindi molti altri colpi erano stati sparati da Giovanni Gravante e dal Di Fraia; che infine il Di Fraia ed il Francesco Gravante – il quale aveva raccolto la pistola del fratello caduto a terra gravemente ferito – avevano rincorso il Carofano; che il Carofano aveva sparato su Giovanni Gravante alla distanza di circa 4 metri.

Tammaro Iannone e il giovane Vincenzo Catena affermarono invece che ai primi spari si erano rifugiati in casa del Molitierno e non erano quindi in grado di fornire i particolari dell’accaduto. Non fu possibile sentire il Carofano, il Di Fraia, il Misso ed il Francesco Giuseppe Gravante i quali si resero tutti irreperibili, né reperire sul luogo ove avvenne il fatto di sangue armi e bossoli.

Vico di Pantano cocomeri e pomodori il pomo della discordia delle risse e degli omicidi

All’epoca la camorra era una espressione alla “Pascalone e Nola”, si occupava di frutta e mediazione prima di fare il salto di qualità e diventare camorra imprenditrice come oggi ma aveva già sperimentato i loschi affari delle truffe Aima,  volgarmente detti “centri di scamazzo”,  dove finanzieri e camorristi – negli anni Ottanta –  hanno lucrato milioni di lire. Sulla sparatoria i carabinieri di Villa Literno inoltrare due rapporti uno il primo agosto e l’altro più corposo il 5 agosto rappresentando i fatti e denunciando i responsabili.

Mediante le indagini autopsiche si accertò che Giovanni Gravante era stato attinto da un colpo di pistola automatica – probabilmente di calibro 6 – e alla regione anteriore sinistra del torace all’altezza della nona costola e da altri tre colpi di pistola dello stesso tipo all’arto inferiore sinistro, e precisamente alla regione femorale anteriore ed alla regione posteriore della coscia; che probabilmente al momento dello sparo l’aggressore trovavasi spostato sulla sinistra della vittima; che il Gravante era deceduto per l’imponente emorragia seguita alla lesione alla epigastrica superiore e della milza determinata dai colpi di pistola.

Si procedette quindi alla formale istruzione a carico del Carofano del di Fraia del Misso e del Gravante. Vennero contestati al primo con mandato di cattura i reati di omicidio volontario, rissa aggravata per l’omicidio e detenzione e porta abusivo di pistola; a tutti gli altri – con mandato di comparizione – il reato di rissa; al Di Fraia ed al Gravante, sempre con mandato di comparizione, la detenzione ed il porto abusivo di armi.

Il Carofano, costituitosi dopo tre mesi dal delitto – confermava quindo già emerso dalle prime indagini circa la questione della vendita dei cocomeri avvenuta con la sua mediazione e aggiungeva che il Misso, il Gravante ed il Di Fraia la sera del 25 luglio ebbero a chiedergli metà del compenso da lui percepito, al che egli oppose un netto rifiuto giacchè il denaro gli occorreva per il mantenimento dei suoi figli: quanto poi ai fatti del 26 luglio dichiarava che in detto giorno – a prima mattina egli si recò nella piazza Garibaldi, come di consueto, per esercitarvi il mestiere di mediatore ed ivi incontrò il Gravante, il Di Fraia e il Misso. Costoro ripreso la questione della ripartizione del compenso di mediazione e ad un suo nuovo rifiuto lo aggredirono. Giovanni Gravante gli tirò una sedia che invece colpì il Misso; ed infine il litigio ebbe termine a seguito dell’intervento pacificatore di Amedeo Elia e di altri.

Verso mezzogiorno il Carofano stava per rincasare quando fu all’improvviso circondato dai suoi avversari che stando ciascuno in un angolo del quadrivio, cominciarono a sparare. Vistosi in serio pericolo – egli aveva sparato per difendersi – a casaccio, e poi si era dato alla fuga restando illeso.

Il Francesco Giuseppe Gravante ed il Di Fraia si protestarono innocenti  assumendo di non avere aggredito il Carofano e di non aver sparato contro di lui. Il Misso, invece, non si presentava al giudice istruttore per rendere il suo interrogatorio. Dopo l’escussione dei testimoni – i quali confermavano in buona sostanza le risultanze delle prime indagini – e la ispezione della località, che formava anche oggetto di rilievi planimetrici e fotografici, il giudice istruttore con sentenza del 30 luglio 1959 ordinava il rinvio del Carofano, del Di Fraia, del Misso e del Francesco Giuseppe Gravante al giudizio della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere del reato di rissa, il primo, inoltre del reato di omicidio.

Nel dibattimento il Carofano – al quale veniva contestata la recidiva specifica infraquinquennale – ripeteva l’interrogatorio reso in istruttoria ed aggiungeva che il Giovanni Gravante nella lite avvenuta a prima mattina aveva estratto un coltello e nel secondo episodio aveva per primo portato la mano nella tasca dei pantaloni per estrarre una pistola ed era stato anche il primo a fare fuoco. Il Di Fraia ammetteva anche lui di aver esploso due colpi di pistola contro il Carofano; ma solo quando questi si era dato alla fuga ed era indi molto di distante da lui. Il Misso negava di aver partecipato alla contesa. Infine Francesco Giuseppe Gravante si riportava a quanto dichiarato in istruttoria.

Alfredo A

 Soltanto il Carofano però,  fu condannato dalla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere a 16 anni di reclusione per omicidio per aver esploso 4 colpi di pistola durante la rissa che attinsero il Giovanni Gravante.

 

“E’ rimasto pianamente accertato – scrissero i giudici nella motivazione della loro sentenza – che i fatti per cui è processo presero origine da una questione sorta tra Giovanni Gravante, suo fratello Francesco Giuseppe, il Michele Misso e il Domenico Di Fraia da una parte e Ambrogio Carofano  dall’altra circa la spartizione del compenso da quest’ultimo riscosso per la mediazione completa di una compravendita di cocomeri tra tale Vittorio Inserra e Luigi Cioffi   commercianti di Sorrento e dei contadini di Vila Literno”.

 Di qui il risentimento del Misso e dei suoi soci. Costoro,  non tollerando che il Carofano avesse trattato un affare che avrebbero potuto trattare loro, intimarono allo stesso, di dividere con loro il compenso di lire 2.400 da lui riscosso. Ma invano. Ciò risulta non soltanto dal racconto del Carofano, ma anche dalle dichiarazioni resa ai carabinieri dall’Inserra e dal Cioffi.

Per quanto accaduto il giorno del delitto il Carofano – innanzi alla Corte – assunse di essere stato costretto a sparare per la necessità di difendersi giacchè, mentre attraversava la piazza per recarsi a casa, si vide all’improvviso accerchiato da Giovanni Gravante col fratello Francesco Giuseppe, dal Misso e dal Di Fraia i quali si erano collocati all’angolo del quadrivio per attaccarlo.

Ma la sua versione fu totalmente smentita dai testi Giovanni Tavoletta, Tammaro Ucciero,  Tammaro Iannone, Augusto Ucciero e Vincenzo Catena. Inoltre il Carofano sostenne che Giovanni Gravante fu il prino a portare la mano nella tasca dei pantaloni per estrarre una pistola e fu anche il primo a far fuoco. Senonchè, anche questa ulteriore affermazione (fatta, però, solo in dibattimento e non in istruttoria) risultò mendace.

Tutti insomma erano pronti a difendersi.  Ed infatti i giudici ritennero che non andava affatto riconosciuta – come del resto chiesto dalla difesa – la esimente della legittima difesa che non è configurabile se non quando ricorrono gli estremi stabiliti per la causa di non punibilità e per colpa si oltrepassano i limiti per essa previsti. Pertanto il Carofano doveva rispondere dell’uccisione del Gravante a titolo di omicidio volontario. Ma a parte la causale i giudici osservarono che egli si armò della pistola proprio per compiere il delitto – (né lui, infatti, né gli avversati, quando avvenne la prima fase della lite ore nove, misero fuori le pistole, segno che non ne portavano addosso); ebbe cura prima di sparare di portarsi a breve distanza sdagli avversari: fece fuoco contro Giovanni Gravante ben 4 volte morando verso parti vitali del corpo, tanto è vero che lo attinse tra l’altro al torace. Tutte queste circostanze dimostrano irrefutabilmente che egli non volle soltanto ferire il Gravante bensì sopprimerlo.  

 La Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Prisco Palmiero;  giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese; giudici popolari: Giovanni Ferraioli, Ida Micillo, Maria Vincenza Pesce, Gennaro Merola, Vanda Vitolo e Secondino Graziano) ritenne di infliggere al Carofano per l’omicidio la pena di anni 22 di reclusione da ridursi per la provocazione ad anni 15 e per le attenuanti generiche ad anni 12 e da aumentarsi, infine, per la recidiva specifica ad anni 16 e per la rissa – nei confronti tutti gli altri imputati – ad anni 1 e mesi 6 di reclusione.

La decisione del primo giudizio venne appellata dalle parti e dal Procuratore Generale, ma poi quest’ultimo non presentò i motivi a sostegno. La seconda sezione della Corte di assise di appello di Napoli (Mario Marmo, Presidente; Domenico Leone, giudice a latere; Fedele Reali, procuratore generale) con sentenza del 8 luglio del 1963 – in parziale riforma della sentenza di primo grado – dichiarò inammissibile l’appello proposto del Procuratore Generale contro Ambrogio Carofano per rinuncia del gravame assolvendo tutti gli imputati dal delitto di rissa perché il fatto non costituiva reato. Confermando la condanna per omicidio per l’imputato principale. Ma neppure la sentenza di appello fu ritenuta equa. Ed anche i ricorsi per Cassazione dei difensori avvocati  Garofalo e De Marsico, che avevano chiesto l’assoluzione per lo stato di legittima difesa, la legittima difesa putativa, l’eccesso colposo, l’attenuante del particolare valore morale e sociale e il  minimo della pena, vennero rigettati. Gli avvocati impegnati nei processi furono: Giuseppe Garofalo, Alfonso Martucci, Alfredo De Marsico e  Pompeo Rendina.