La conclusione è che se non si fa una politica seria si andrà avanti per palliativi di cui faranno le spese soprattutto i Paesi mediterranei (Grecia, Italia e, in parte, Spagna). Le politiche nazionali saranno solo misure tampone. Dev’essere ben chiaro che il problema è tale che non si può affrontare se non su base continentale.
Ma se metto in mare una scialuppa con duecento persone consapevoli dei rischi che corrono, e deliberatamente la faccio affondare, in attesa dei soccorsi, quelli sono naufraghi volontari che andrebbero riportati indietro.
In principio, di fronte a questo fenomeno di massa, siamo tutti impotenti. Da anni si suggeriscono soluzioni in parte scontate, ma, realmente, nessuno è stato in grado di dare un segnale positivo. L’Europa, di fatto, è impreparata a fronteggiare questo esodo che affronta in ordine sparso e contraddittorio.
Il primo obiettivo serio e comune, sul quale tutti dovrebbero essere d’accordo, almeno in via di massima, dovrebbe essere quello di contrastare il traffico di esseri umani. Si fa contro la pirateria, in mare, si fa contro i trafficanti di droga e, se pur più blandamente, contro lo schiavismo, perché non farlo contro questo mercato ignobile di esseri umani? Gli Stati, tutti gli Stati, non solo quelli europei, dispongono di uomini e risorse capaci di schiantare queste organizzazioni criminali. Ovviamente, è necessaria una volontà comune, ma politicamente questo sarebbe un inizio di riassetto del problema.
Il secondo obiettivo dovrebbe essere quello d’interpretare correttamente le norme sul diritto del mare. Il principio di salvare un naufrago è fondamentale e va rispettato, ma se metto in mare una scialuppa con duecento persone consapevoli dei rischi che corrono, e deliberatamente la faccio affondare, in attesa dei soccorsi, quelli sono naufraghi volontari che andrebbero riportati indietro. Il fatto che le navi delle varie ONG incrocino in acque dove sperano di soccorrere questi naufraghi è una finzione umanitaria internazionale. Tanto varrebbe che andassero in Libia a imbarcarli direttamente sui loro scafi. Questo sarebbe più serio e realmente umanitario. Inoltre, la distinzione fra profughi da guerre e profughi per fame, oggi, non ha più senso.
La chiusura dei porti è sostanzialmente inutile. Per definizione un porto è aperto. Può esserci una cintura di sicurezza al limite delle proprie acque internazionali, ma negare l’accesso ai porti, una volta superata questa cintura, è solo un palliativo. La gente sbarca lo stesso in porti minori, meno sorvegliati, con imbarcazioni più piccole che sfuggono ai controlli radar. Per questo l’esodo con piccoli gruppi è inarrestabile.
Il terzo obiettivo dovrebbe essere quello comunitario. In Europa ci sono Paesi che non vogliono sentir parlare d’immigrati e d’immigrazione. È un loro diritto. Non sono Paesi cattivi, ma Paesi con governi gelosi della loro identità nazionale. Poi ci sono Paesi con una storia secolare d’immigrazione coloniale e post coloniale, come la Francia e il Regno Unito. Hanno milioni d’immigrati, in gran parte storicamente inseriti nel tessuto nazionale. Si capisce che non vogliano aumentare il numero di queste presenze.
Infine, c’è la Germania, che ha accolto milioni di Turchi e di Siriani e poi, in pratica, ha detto basta. Ha fatto la sua parte.
Il tutto è disciplinato dal famoso Trattato di Dublino che, stilato in tempi molto diversi, prevedeva un obbligo di ricevimento e di assistenza per il Paese di primo approdo. Data la configurazione del Mediterraneo, questo interessa Spagna, Grecia e Italia. La logica vorrebbe che questo Trattato fosse rivisto, ma per modificarlo occorre l’unanimità. Inutile farsi delle illusioni. L’idea di sanzionare i Paesi che rifiutano l’accoglienza e la redistribuzione è suggestiva, ma quanto praticabile? Alla fine, forse, sarà anche possibile un compromesso, ma ci vorrà molto tempo e si susciteranno molti malumori.
Se, come sembra, Francia e Germania accetteranno un 25% ciascuna degli immigrati sbarcati in Italia, a chi toccherà l’altro 50%? Almeno un altro 20/25% all’Italia. E gli altri? Sarebbe, comunque, una soluzione transitoria. Come si vede, quest’opzione comunitaria è tanto necessaria quanto difficile e, comunque, se la pressione migratoria aumentasse, non risolverebbe il problema se non alle calende greche.
Il quarto obiettivo, infine, dovrebbe essere quello di cercare d’interrompere il flusso degli emigranti, trattando direttamente in loco, con i vari governi. Anche questa è una difficile scelta per vari motivi. Se uno vuole andarsene, legittimamente o clandestinamente, c’è poco da fare.
Nelle menti dei più illuminati aleggia l’idea che l’Occidente, in particolare l’Unione europea, dovrebbe lanciare una specie gigantesco Piano Marshall per l’Africa, volto a stabilizzare le popolazioni con lo sviluppo d’iniziative economiche importanti. Non è un’idea irragionevole ma con molti limiti: il consenso europeo, le risorse disponibili, i tempi necessari per l’attuazione dei vari progetti, le difficoltà ambientali (corruzione dilagante, contese religiose, guerre tribali endemiche, sicurezza degli investimenti e del personale addetto). \ Inoltre, per un Piano Marshall gigantesco servono risorse gigantesche. Saranno disponibili i cittadini europei ad accollarsi nuove tasse e una crescita dell’indebitamento per aiutare i fratelli africani?
In genere, si pensa a un’immigrazione africana, ma non è così. Gli immigrati vengono da tutto il mondo, non solo dall’Africa. Abbiamo Cinesi, Indiani, Pakistani, Palestinesi, Siriani, Filippini, Bengalesi, Yemeniti, Latinoamericani, non solo Africani, anche se questi sono la maggioranza. In particolare, in Africa, la pressione demografica è altissima. Fra venti/trent’anni, la popolazione africana supererà quella cinese. Dove andrà tutta questa gente giovane e vogliosa di vivere meglio? Parlare di controllo delle nascite sembra una bestemmia, condannata da tutte le religioni, ma laicamente è una necessità di autodifesa collettiva.
Negoziare con i Paesi di transito, come la Libia, è inutile. A parte la difficoltà di trovare un governo serio, il massimo ottenibile, pagando profumatamente le autorità locali, sarebbe di lasciar marcire nei campi profughi libici la gente che c’è arrivata.
Affrontare il problema con i Governi di partenza è altrettanto difficile. Spesso, non ci sono interlocutori credibili. Il vuoto politico africano è inimmaginabile. Colpa nostra, forse, e delle passate esperienze coloniali. Abbiamo fatto dighe e pozzi, ma poco o nulla sulla formazione delle persone che è essenziale nel tempo per avere una classe dirigente adeguata. Ma è inutile stracciarsi le vesti. La situazione attuale è quella che è.
L’Africa è piena di risorse ma ciò non toglie che molti immigrati africani provengano dalla Nigeria, è uno dei più ricchi Paesi del continente. Le risorse ci sono in loco, ma sono nelle mani delle grandi multinazionali cui non importa nulla di esodo, di solidarietà o di diritti civili, ma solo di far quattrini. Dovrebbe essere soprattutto un compito loro, ma anche questa è una pia illusione in un sistema in cui il pensiero dominante è “mordi e fuggi”.
La conclusione è che se non si fa una politica seria si andrà avanti per palliativi di cui faranno le spese soprattutto i Paesi mediterranei (Grecia, Italia e, in parte, Spagna). Le politiche nazionali saranno solo misure tampone. Dev’essere ben chiaro che il problema è tale che non si può affrontare se non su base continentale.