Il calendario di settembre è pieno di possibili rievocazioni storiche, spesso dimenticate. Tutti ricordano la data dell’11 settembre, quando in un attentato terroristico crollarono le due torri gemelle di New York e fu attaccato il Pentagono, con oltre 3.000 morti innocenti.

         Pochi ricordano che il 1° settembre 1939, le armate hitleriane attaccarono la Polonia, dando inizio alla 2° guerra mondiale che provocò all’incirca cento milioni di morti.

         Ricordiamo, invece, la data infausta dell’8 settembre 1943, soprattutto per ragioni eminentemente politiche connesse alla fine del regime fascista, alla dissoluzione dell’esercito italiano, alla fine della guerra contro gli Alleati e all’inizio della guerra civile. Come è stato autorevolmente detto, quella data segnò la fine della patria.

         Ma ci sono altre date, ancora, che sarebbe opportuno ricordare, che fanno parte della nostra storia, per i molti immemori, per le persone che quelle vicende vissero in parte con i loro nonni e i loro padri oppure in famiglia, per i giovani che poco o nulla conoscono della storia patria. Viviamo appiattiti in un presente senza spessore culturale, immersi in una società del gossip, dove si ride di Johnny of Maio e With You e non ci si arrabbia, perché si cerca di non pensare e di tirare avanti, con pochi soldi, scarse prospettive e molti problemi. Figurarsi se c’interessa la storia!

         La prima data è quella del 12 settembre 1919, appena un anno dopo la 1° guerra mondiale, con l’impresa di Fiume e D’Annunzio, un grande scrittore esecrato dalle generazioni del dopoguerra e quasi dimenticato. L’evento di Fiume non fu trascurabile, allarmò tutte le Cancellerie europee e costrinse l’allora governo italiano a far sentire la propria voce. Non ci furono molti morti, ma alcuni ci furono nel cosiddetto Natale di sangue. Dopo Fiume tutto fu diverso, anche se dannunzianesimo e fascismo non andarono mai d’accordo e le loro strade si separarono[1].

         La seconda data da ricordare è quella del 20 settembre 1870, quando le truppe italiane entrarono a Porta Pia e terminò il potere temporale dei Papi[2]. Oggi Roma, per quanto degradata, è naturalmente la capitale d’Italia e pochi ricordano le attese dei liberali e i vari tentativi falliti per ottenere questo risultato. In cinque ore di scontri morirono 49 ufficiali e soldati italiani e 19 pontifici. Davvero un’inutile strage per fermare il corso degli eventi. Finiva così la storia plurimillenaria dello Stato della Chiesa. Un evento, che nella dimenticanza generale, oggi, è diventato appropriazione solo di sparuti gruppi di laici integralisti.

         Per rievocare compiutamente questi due eventi e le loro implicazioni allego due diverse memorie.

         Se siete curiosi, potete semplicemente leggerle, se v’interessano, potete stamparle e anche diffonderle. Potrebbero essere utili ai vostri figli o ai vostri nipoti. La nostra storia ha radici antiche, ma chi è senza radici non ha futuro, neppure nella società dell’apparire, del business e del web.

Il 12 settembre 1919, cento anni fa, una spedizione italiana, al comando di Gabriele d’Annunzio, entrò nella città di Fiume, proclamandone l’annessione all’Italia.

Questo evento, ormai dimenticato dai più, fu uno degli episodi più drammatici che seguirono alla fine della 1° guerra mondiale.

D’Annunzio entrò in una fase politica per lui nuova, dopo il suo attivismo militare della Grande Guerra, interpretò il sentimento dei nazionalisti, sfiorò con il suo prestigio personale il fascismo nascente, senza farsene coinvolgere, mise in crisi il Governo Nitti di allora, del tutto impotente.

L’impresa di Fiume fu audace, nobile e sollecita. D’Annunzio ne fu l’assoluto protagonista, artefice e gestore della Reggenza del Carnaro, autore, assieme al sindacalista Alceste de Ambris, della sua carta costituzionale, la Carta del Carnaro, frutto di una visione idealistica e corporativa che in parte fu ripresa dal fascismo, ma fu altresì fortemente innovativa circa la tutela dei diritti umani.

Dopo poco meno di due anni di difficile sopravvivenza, lo Stato Libero di Fiume terminò la sua esistenza con il Natale di Sangue e l’occupazione della città da parte dell’Esercito italiano. La parola, ormai, dopo il trionfalismo della retorica dannunziana, passava alla diplomazia e a un nuovo governo italiano, con l’ormai ottantenne Giolitti.

 

1 – La fine della 1° guerra mondiale

 

La fine della 1° guerra mondiale vide il disfacimento di tre Imperi belligeranti: l’Impero austro-ungarico, dilaniato dalla fame e dalle tensioni separatiste dei popoli assoggettati alla monarchia asburgica, l’impero prussiano, sconvolto dalle enormi perdite umane e dai fermenti repubblicani, anarchici e comunisti, l’impero turco, anche qui ridimensionato dalla rivolta araba e da una sollevazione militare interna.

Due anni prima era già scomparso l’Impero zarista, con Lenin e la Rivoluzione di ottobre e la formazione di nuovi Stati indipendenti (Polonia, Repubbliche baltiche, Ucraina).

La dissoluzione del sistema imperiale europeo e l’applicazione della dottrina di Wilson portò all’esplosione delle varie nazionalità sottomesse, che rivendicavano la loro indipendenza dagli imperi multinazionali, con scontri, dispute di confine e guerre civili, riformulando la carta geopolitica europea.

Nel Medio Oriente, dopo la dissoluzione dell’impero turco, prevalsero gli interessi coloniali franco-inglesi, che costituirono una serie di Stati fantoccio (Siria, Iraq, Transgiordania) e due protettorati, in Libano e in Palestina.

In Africa, i possedimenti coloniali tedeschi furono assegnati a Francia e Inghilterra.

 

2 – Le promesse mancate

 

L’entrata in guerra dell’Italia fu preceduta da un lungo mercanteggiamento. L’Italia era alleata della Triplice (Austria e Germania) ma non essendo stata consultata in occasione dell’ultimatum alla Serbia e trovandosi di fronte al fatto compiuto, si riservò per un anno, la neutralità.

Intanto si accendeva all’interno il contrasto fra gli interventisti (D’Annunzio e Mussolini) e i pacifisti (popolari e socialisti).

Il mercanteggiamento con ambedue le parti in guerra (l’Intesa e la Triplice) serviva, secondo gli interventisti, a completare le guerre risorgimentali contro l’Austria-Ungheria e, comunque, ad avere importanti concessioni territoriali, in Europa e, se mai, anche in Africa.

Comunque, in caso di risultati positivi, questo negoziato avrebbe dato una valida giustificazione politica all’entrata in guerra, tacitando i pacifisti.

Le promesse fatte dagli anglo-francesi furono importanti (Trieste, l’Istria, la Dalmazia settentrionale e, forse, qualche fetta dei domini tedeschi in Africa).

Da parte della Germania vi fu una certa disponibilità nei confronti delle richieste italiane, perché non riguardavano specifici interessi territoriali tedeschi, ma non da parte di Vienna, ostile a concessioni sui territori dell’impero.

Fu così che l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa.

 

3 – Il ruolo di Wilson

 

Le sorti della sanguinosa guerra di logoramento si risolsero con l’intervento americano a fianco dell’Intesa e lo sfinimento delle capacità militari tedesche, anche a causa del blocco navale anglo-americano. Il contributo americano fu importante (oltre un milione di uomini), ma soprattutto consentì agli Stati Uniti (l’unico Paese che non aveva subito devastazioni territoriali) la possibilità di dettare legge sulle condizioni di pace imposte ai Paesi sconfitti.

Il Presidente americano, Wilson, al tavolo dei negoziati a Versailles, in pratica, impose il principio del rispetto delle nazionalità che dette luogo all’esodo di molte popolazioni in Europa. Wilson fu anche il fautore della costituzione della Società delle Nazioni quale arbitro di futuri conflitti, cui poi gli stessi Stati Uniti non parteciparono.

Gli imperi sconfitti erano a carattere multinazionale, residuo delle guerre napoleoniche e degli assetti post-napoleonici, soprattutto l’Austria-Ungheria e la Turchia. Occorreva rispondere ai vari irredentismi, dare compensi alla Serbia, la prima vittima della guerra (trasformandola in un Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni), creare Cecoslovacchia, Polonia (che era già in guerra con la Russia sovietica), dare compensi alla Romania a danno dell’Ungheria (Transilvania), ridimensionare la Bulgaria, riconoscere l’indipendenza all’Ucraina (che si era già proclamata repubblica indipendente).

Quanto all’impero turco, c’era il problema della rivolta araba e della pretesa di uno Stato indipendente arabo, osteggiato da Francia e Inghilterra, che si spartirono quei territori creando una serie di Stati fantoccio sotto il loro controllo (Arabia Saudita, Iraq, Siria, Libano, Transgiordania e così via).

Le colonie africane tedesche furono spartite tra Francia (Togo) e Inghilterra (Namibia e Tanzania).

La costituzione del nuovo Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, erede della Serbia, implicava il possesso della Dalmazia e delle sue isole, reclamato dall’Italia.

 

4 – Il problema di Fiume e delle minoranze etniche

 

Mentre per Trieste e parte dell’Istria non vi furono problemi, le maggiori difficoltà si concentrarono sulla Dalmazia, già oggetto della dominazione veneta.

Il nuovo regno di Jugoslavia (Slavi del sud), pupilla di Wilson e della Francia, che non desiderava un eccessivo ingrandimento, anche strategico dell’Italia, aspirava al possesso dell’intera costa dalmata.

L’equilibrio etnico, tanto caro a Wilson, era a favore degli Italiani nelle città costiere dalmate mentre era a favore dei Croati nelle campagne. Ciò era particolarmente evidente nel caso di Fiume (Rijeka).

 

Secondo un censimento ungherese del 1910 (nel quale fu richiesta la lingua d’uso), la popolazione di Fiume era di 49.806 abitanti, e così suddivisa: 24.212 dichiaravano di avere come lingua d’uso l’italiano, 12.926 il serbocroato e altre lingue, soprattutto ungherese, sloveno e tedesco. Il Fiumara era il corso d’acqua che separava la municipalità di Fiume (formalmente dipendente dalla Corona Ungherese in qualità di Corpus Separatum) dal Regno di Croazia. Fiume si era sempre opposta alla propria annessione al Regno di Croazia, un’entità politica inglobata nell’Impero austro-ungarico, reclamata invece dalla minoranza croata.

 

Una guarnigione franco-britannica occupò Fiume, cercando di sedare i contrasti etnici fra Italiani e Croati.

Il fermento nazionalista da ambedue le parti, peraltro, si manifestava in tutta quella regione costiera adriatica (Istria, Zara, Fiume, Ragusa).

 

5 – L’insoddisfazione italiana. La Vittoria tradita.

 

Il ritorno nella società civile dei combattenti e l’ingente numero dei mutilati di guerra e degli invalidi, a fronte dei sacrifici imposti dalla guerra a tutta la popolazione italiana, non fu compensato dai risultati politici e territoriali raggiunti, almeno secondo l’opinione pubblica corrente.

Inoltre, la situazione economica del Paese, dopo la lunga guerra, era disastrosa. Scioperi, contestazioni e violenze quotidianamente creavano un clima incandescente di tensione e di rivalsa che portò gli ex-interventisti a gridare di una Vittoria mutilata, di un tradimento delle promesse fatte con il Patto di Londra e al desiderio di una rivalsa, pronti a menare le mani.

Mussolini da un canto, con Il Popolo d’Italia, e D’Annunzio, dall’altro, con la sua oratoria sfolgorante, imputavano al governo una scarsa sensibilità e una sostanziale incapacità di negoziato al tavolo dei vincitori (v. l’abbandono di Orlando e il suo ritorno a Versailles).

Socialisti per un verso e anarchici per un altro si opponevano alle ragioni dei nazionalisti, ispirati da una visione internazionalista che considerava le frontiere, vecchie o nuove, solo divisioni arbitrarie per soffocare la libertà dei popoli (e dei lavoratori), e che si rifaceva agli slogan anarchico-marxisti: la proprietà è un furto (Pierre-Joseph Proudhon) e proletari di tutto il mondo unitevi (Karl Marx).

Uno strisciante clima di guerra civile insanguinava l’Italia del dopoguerra, dove le imprese del nascente squadrismo fascista davano sfogo alla violenza dei più esaltati.

 

6 – I fermenti nazionalistici. Il reducismo.

 

Nel biennio 1919-1920 le tensioni politiche interne raggiunsero l’apice.

La Rivoluzione russa era un punto di riferimento importante per le masse operaie, repubblicane e anarchiche, confluite nel socialismo, che ambivano ad abbattere la monarchia e alla creazione di una repubblica socialista, sull’esempio russo.

L’idea che il socialismo rivoluzionario dei popoli rendesse inutili le frontiere in una comunità di lavoratori impegnati nella lotta contro il capitalismo agrario era tale che la questione dalmata diventava secondaria e ininfluente.

I socialisti, anche allora, erano molto divisi fra oltranzisti (tra cui Bordiga e Gramsci, che se ne staccarono, fondando il partito comunista), e fazioni meno intransigenti, ma politicamente più fiacche, disponibili a cooperare anche con il Re (Bissolati, Bombacci, Nenni).

Dall’altro canto, il reducismo, alimentato da Mussolini, Federzoni, D’Annunzio e altri, poggiava le sue fortune sul mantenimento della monarchia e sull’idea di una rivoluzione social-popolare di stampo nazionalista, per cui la questione dalmata e, soprattutto, quella di Fiume, che ne divenne un simbolo, erano essenziali.

Il Governo, di fatto, era impotente, dovendo spesso impiegare addirittura l’esercito per sedare scioperi, occupazioni e violenze.

 

7 – Il colpo di mano di D’Annunzio.

La figura di D’Annunzio era un mito per gli intellettuali e per le masse più colte. Il suo comportamento in guerra era considerato leggendario e ciò gli procurava grandi simpatie fra i reduci e nell’ambiente militare.

Al fascino dell’uomo, grande scrittore, grande seduttore, grande esteta, tra i primi aviatori, valoroso eroe di guerra, si univa il ricordo delle sue gesta leggendarie (il volo su Vienna, la beffa di Buccari) e delle sue ferite di guerra.

Con Mussolini esisteva un’intesa che andò, via via, raffreddandosi. Uniti nella propaganda per l’intervento in guerra, feriti ambedue per le vicende belliche, le loro sorti s’erano andate divaricando, Mussolini agendo sul piano interno, per dare corpo al fascismo che, al momento, aveva solo pochi sostenitori mentre, al contrario, D’Annunzio poteva contare su simpatie molto più importanti e diffuse, data l’aureola che s’era conquistato nei ceti intellettuali e soprattutto nell’esercito e fra le alte gerarchie militari.

Nell’incertezza della situazione politica interna e internazionale, D’Annunzio decise di mettere il mondo di fronte al fatto compiuto, organizzando quella che sarà poi chiamata la marcia di Ronchi, dandone avviso anche a Mussolini, cui chiese sostegno.

 

8 – La marcia di Ronchi

 

Il clima post-bellico italiano era, paradossalmente molto guerresco. Le diverse fazioni politiche venivano alle mani e le Guardie regie faticavano a contenere i torbidi. Scioperi nelle campagne e occupazioni di fabbrica, assalti a sedi di giornali e a organizzazioni sindacali e padronali acuivano le tensioni. Le nascenti formazioni fasciste, composte da ex arditi ed ex combattenti, si scontravano con formazioni bianche e rosse, con morti e feriti. Il Governo era visibilmente impotente a contenere i continui disordini che assumevano sempre di più atteggiamenti filo-anarchici, filo-comunisti e anti-monarchici.

L’esercito, formato in gran parte da reduci, simpatizzava per D’Annunzio, che consideravano uno dei loro, e per la causa di Fiume, molto sentita almeno quale compenso per la “vittoria tradita”.

Quando D’Annunzio decise di presentarsi alle truppe di stanza a Palmanova, nei pressi del nuovo confine italo-jugoslavo, fu accolto con grande entusiasmo e l’adesione all’iniziativa fu senza esitazione. Non ressero la gerarchia militare e gli ordini degli ufficiali superiori. La disciplina era allentata, il Governo Nitti debole e impotente, il Re lontano.

 

9 – L’occupazione di Fiume

 

Fin dall’ottobre 1918 si era costituito a Fiume un Consiglio nazionale, presieduto da Antonio Grossich, che propugnava l’annessione all’Italia contro le pretese annessionistiche croate.

Alla fine della guerra la città fu presidiata da un corpo d’occupazione anglo-franco-americano e da truppe italiane. Nella città si susseguivano manifestazioni italiane a favore dell’annessione, sfociati in duri scontri, tra il 29 giugno e il 6 luglio 1919, che causarono nove morti e diversi feriti (i Vespri fiumani).

Ma già nel giugno Grossich, a Roma, aveva invitato D’Annunzio, che accettò, a porsi a capo della resistenza filo-italiana.

Nel frattempo, a Parigi si decise che le truppe italiane dovevano lasciare Fiume (i Granatieri Sardegna), dopo alcuni scontri con il contingente francese d’occupazione. Nonostante le recriminazioni della popolazione italiana, nell’agosto i Granatieri furono costretti a uscire dalla città e ad acquartierarsi a Ronchi. Sette ufficiali scrissero una lettera a D’Annunzio invitandolo a guidare una spedizione per garantire l’italianità di Fiume.

D’Annunzio arrivò a Ronchi l’11 settembre, dove intanto si stavano concentrando numerosi volontari, guidati dal tenente Guido Keller, eroe di guerra e famoso per il suo disprezzo nei confronti del Parlamento italiano, con numerosi autocarri e un gruppo di bersaglieri. Blandamente ostacolato al confine dal generale Pittaluga, alla marcia di Ronchi si aggiunsero i volontari della Legione fiumana, organizzata da Giovanni Host-Venturi e Giovanni Giuriati per difendere la città, in particolare, dal contingente francese, considerato filo-jugoslavo.

Il 22 settembre arrivarono a Fiume l’incrociatore Marco Polo e un’altra nave militare, la Cortellazzo, che si unirono ai legionari. Francesi e Inglesi abbandonarono la città. Altri reparti militari italiani si aggiunsero a quelli fiumani.

 

10 – La Reggenza del Carnaro

 

Il Governo NItti nominò il generale Badoglio Commissario straordinario per la Venezia Giulia. Badoglio prese contatto per due mesi con D’Annunzio per risolvere il contenzioso, minacciò sanzioni militari severissime, ma non venne a capo di nulla. Si dimise, le dimissioni furono respinte ma, alla fine, fu sostituito dal generale Caviglia.

Riconfermato al governo dopo le elezioni politiche del 16 novembre 1919, Nitti predispose il testo di un memorandum (definito modus vivendi), che fu trasmesso a D’Annunzio il 23 novembre. Nel memorandum il governo italiano s’impegnava a impedire l’annessione della città al nuovo Stato jugoslavo e a ottenerne o l’annessione all’Italia o almeno di conferirle lo status di “città libera”, con uno statuto autonomo. In cambio, doveva cessare l’occupazione dei legionari, liberando la città dalla loro presenza.

D’Annunzio rifiutò il testo, reclamando l’annessione immediata, ma Il 15 dicembre il Consiglio nazionale della città di Fiume approvò le proposte del governo italiano con 48 voti favorevoli e 6 contrari. Si preferì, tuttavia, indire un plebiscito popolare per decidere il da farsi. Lo scrutinio iniziò la sera stessa, con un andamento nettamente favorevole all’accoglimento delle proposte italiane, ma a seguito di disordini, provocati dai legionari più estremisti, D’Annunzio decise di sospenderlo e d’invalidarlo.

Per protesta contro questa palese violazione democratica si dimise il Capo di Gabinetto, Giovanni Giuriati, cui subentrò un sindacalista piuttosto noto, Alceste de Ambris.

Il 12 agosto 1920 D’Annunzio, sempre più intestardito nella sua impresa, proclamò la nascita di un nuovo Stato, la Reggenza italiana del Carnaro, divenuta poi la Repubblica del Carnaro, e l’8 settembre fu promulgata la Carta del Carnaro, il suo Statuto fondativo.

Il nuovo Stato si richiamava ai valori propugnati dal sindacalismo rivoluzionario, molto sensibile agli avvenimenti nella Russia bolscevica, con forti venature repubblicane. Fiume, infatti, fu il primo Paese a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica.

 

11 – La Carta del Carnaro

 

Per le sue caratteristiche intellettuali D’Annunzio fu molto attratto dall’aspetto creativo dell’avventura rivoluzionaria di Fiume, pensando all’edificazione di una società diversa da quella italiana del tempo.

La Carta del Carnaro fu la costituzione della Repubblica del Carnaro, il nuovo Stato libero di Fiume. Ispirata dal sindacalista Alceste de Ambris, più volte rimaneggiata e stilisticamente abbellita dallo stesso D’Annunzio, era un impasto di principi anticipatori della modernità e di strutture di tipo rinascimentale.

La Carta aveva diverse aperture sociali, ispirate anche dall’esperienza rivoluzionaria russa, che a Fiume trovava espressione in una frangia di futuristi di sinistra, così come filobolscevica e libertaria era una parte dei legionari fiumani.

Nella premessa si riaffermavano l’italianità di Fiume e l’intento di entrare a far parte integrante dello Stato italiano, preconizzando un futuro Stato rivoluzionario-corporativo.

La Repubblica del Carnaro era una democrazia diretta (art. 2), fondata sul lavoro e sul decentramento territoriale dei poteri dello Stato, dove tutti i cittadini, senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione, facevano parte di una sorta di “sovranità collettiva”.

Inoltre, si garantivano (art. 5) l’istruzione primaria a tutti i cittadini, un salario minimo sufficiente alla vita, la pensione per la vecchiaia, l’assistenza sanitaria o nei casi di disoccupazione, i diritti di proprietà, l’habeas corpus, l’inviolabilità del domicilio e il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.

La Carta del Carnaro discendeva dall’interventismo di sinistra del Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista, e dal sindacalismo rivoluzionario di Alceste de Ambris, Filippo Corridoni e Vittorio Picelli, tutti nomi ormai dimenticati.

Parte dei contenuti della Carta erano già presenti nel Manifesto dei Fasci italiani di combattimento di piazza San Sepolcro (il cosiddetto sansepolcrismo), l’ala della sinistra fascista. Il sindacalismo fascista degli anni venti, infatti, si distaccò brevemente dalla cultura ufficiale del fascismo, reinterpretando il “mito” dell’Impresa di Fiume e della Carta del Carnaro. Ma già nel manifesto pubblicato su Il Popolo d’Italia di Mussolini fu estrapolata la parte più significativa del sindacalismo rivoluzionario che non fu mai pienamente applicata.

Tranne che per gli aspetti corporativi, durante il fascismo, quell’esperienza fu considerata ormai conclusa e irripetibile, anche se dalla Carta del Carnaro dannunziana il regime prese lo spunto per costruire la propria dottrina di politica economica corporativa (la Carta del Lavoro del 21 aprile 1927), volendo creare un sistema alternativo al capitalismo e al marxismo, ma accantonando le istanze democratico-libertarie della Carta del Carnaro.

Non a caso Giuseppe Bottai sulla rivista Ordinamento corporativo scrisse, nel 1938, “…Le dichiarazioni della Carta del Carnaro costituiscono la prima espressione del nuovo ordinamento spirituale e giuridico degli italiani.”

 

12 – Il problema diplomatico

 

La questione di Fiume costituì un caso diplomatico molto delicato. L’impresa fiumana, nel difficile contesto in cui si dibatteva l’Italia, fra tumulti interni e debolezza diplomatica esterna, grande potenza europea uscita vittoriosa dalla guerra ma schiacciata dagli interessi franco-britannici e dalla visione politica planetaria degli Stati Uniti, era insostenibile.

Quando il capo della delegazione italiana a Versailles, Orlando, alle trattative per la pace, fu messo in scacco, abbandonò il tavolo dei negoziati, con un gesto di personale coraggio. Avendo dietro, al solito, un Paese diviso e un governo imbelle, rientrò dopo qualche settimana a Parigi, collezionando solo una brutta figura. Non la prima, della diplomazia italiana, ma fu certamente l’ammissione di una dolorosa sconfitta.

Fiume era perduta. O gli Italiani si facevano valere nei confronti di D’Annunzio, muovendo l’esercito e non facendo inutili minacce, come aveva fatto Badoglio, o sarebbe stata la Comunità internazionale a farlo, e non era pensabile che l’Italia difendesse l’impresa di Fiume contro tutto il mondo.

La via diplomatica per trovare una soluzione accettabile per il neonato Regno di Jugoslavia e per l’Italia era l’unica possibile e in grado di evitare un conflitto di cui nessuno aveva bisogno. Il nuovo confine occidentale poteva essere una ferita aperta, e l’idea di una nuova guerra per Fiume italiana contro l’esercito serbo-croato-sloveno non attraeva nessuno.

L’esercito italiano era stanco, in parte smobilitato, depauperato dei suoi uomini migliori, percorso da folate d’indisciplina, come s’era visto con l’adesione di migliaia di soldati all’impresa di D’Annunzio, incuranti della gerarchia, dei regolamenti e dei Tribunali militari. Occorreva, però, un governo forte per risolvere la questione.

Nel giugno del 1920 il Re ricorse a Giovanni Giolitti, giubilando il debole Nitti (che D’Annunzio per sfregio appellava Cagoia). Giolitti, il 12 novembre di quell’anno concluse con il Regno di Jugoslavia il Trattato di Rapallo, che trasformava Fiume in uno Stato indipendente, prevedendo la libera elezione di un’Assemblea costituente fiumana e la storia finì con il cosiddetto Natale di sangue.

 

13 – Il Natale di sangue.

 

D’Annunzio respinse l’ultimatum secondo il quale avrebbe dovuto sgombrare la città entro l’anno e denunciò il Trattato di Rapallo. A questo punto Giolitti ordinò d’intervenire con la flotta e con il Regio Esercito, comandato dal generale Enrico Caviglia. Dopo un cannoneggiamento da parte della Regia Marina, cominciò l’attacco delle truppe regie.

La battaglia ebbe inizio il 24 dicembre 1920, quando le truppe regolari italiane, su ordine perentorio di Giolitti, deciso a chiudere la questione, si aprirono un varco verso Fiume.

Vi furono pochi scontri che si protrassero per cinque giorni, a Fiume e nelle isole circostanti (il Natale di Sangue, come enfaticamente fu chiamato da D’Annunzio e dalla stampa nazionalista e fascista).  Negli scontri caddero ventidue legionari, diciassette soldati e cinque civili, più diversi feriti.

Le truppe italiane entrarono a Fiume nel gennaio successivo. L’esercito fiumano, che nel frattempo si era arricchito di chiunque, bolscevico o libertario avesse avuto simpatia per la Reggenza, era sproporzionatamente inferiore per numero, disciplina e armamento ai reparti italiani. Resistere sarebbe stato del tutto inutile, versando sangue fraterno.

D’Annunzio si rese subito conto della tragica impopolarità che gli sarebbe derivata se i combattimenti si fossero protratti a lungo, devastando la città e causando lutti fra militari e civili. La popolazione fiumana, italiana (e anche quella croata), comunque, finché s’era trattato di una festa eroica, aveva dato il suo appassionato consenso. Sotto una pioggia di bombe le cose sarebbero andate in modo diverso. Fu così che D’Annunzio, con una sagacia politico-sentimentale sconosciuta, ordinò il cessate il fuoco e si consegnò alle Autorità militari italiane.

L’esercito italiano occupò Fiume nel gennaio del 1921. Il vulnus fu risanato e la questione tornò a essere un problema diplomatico che, dopo qualche anno, concorde anche Belgrado, si concluse con il rientro di Fiume nel Regno d’Italia.

Comunque, a parte quei poveri morti negli scontri, fu la prima volta, dopo la guerra di resistenza borbonica nell’Italia meridionale di cinquant’anni prima, che i soldati italiani si spararono addosso e l’impressione nell’opinione pubblica fu enorme.

Anche Mussolini sparò a zero sul suo giornale parole di fuoco, difendendo le ragioni sentimentali di D’Annunzio e dei legionari fiumani, ma si guardò bene dal fare di più. In realtà D’Annunzio era stato sconfitto, la sua stella andava declinando nello splendore barocco di Gardone mentre quella di Mussolini stava salendo. Poco più di un anno dopo ci sarebbe stata la marcia su Roma.

Se due anni prima D’Annunzio poteva essere considerato naturalmente il capo della rivoluzione italiana (prese anche la tessera del fascio), tre anni dopo, chiuso in uno splendido isolamento, non era più un concorrente vittorioso o temibile ma un ingombro politico.

Le reazioni suscitate nel Paese portarono alle elezioni anticipate dopo soli due anni, nel maggio del 1921, e Giolitti fu sostituito da Facta come Presidente del Consiglio, i cui unici meriti erano d’essere piemontese e di andare a letto alle 22.00.

 

14 – L’annessione di Fiume

Fiume però non trovò pace. All’Assemblea costituente gli autonomisti ebbero il 65% e l’8 ottobre 1921 si formò un governo presieduto da Riccardo Zanella, che tuttavia non fu in grado di placare gli animi.

I nazionalisti italiani cercarono di prendere il potere ma furono repressi dall’intervento del competente questore reale italiano. Poi ci fu un altro colpo di mano dei fascisti locali, nel marzo del 1922, che finì poco dopo con una terza occupazione militare italiana.

Sette mesi più tardi Mussolini diventava Capo del governo. Il 3 novembre 1922 gli squadristi occuparono la città senza scontrarsi con i militari italiani.

ll Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 assegnò Fiume all’Italia e Susak, assieme ad altre frazioni, alla Jugoslavia, con un’amministrazione portuale congiunta e il confine italo-jugoslavo, segnato dal fiume Eneo.

L’annessione formale al Regno d’Italia avvenne il 16 marzo 1924, come provincia del Carnaro, inaugurò 20 anni di governo italiano della provincia del Carnaro, seguiti da venti mesi di occupazione militare tedesca (ottobre 1943).

L’episodio fiumano fu una specie di detonatore della guerra civile strisciante nell’Italia pre-fascista.

 

15 – Dannunzianesimo e fascismo.

 

L’impresa fiumana fu altresì l’espressione dell’ambivalenza fra il movimento fascista delle origini e il dannunzianesimo.

Sia Mussolini sia D’Annunzio, in modo e con esiti diversi, avevano fatto la guerra. Feriti ambedue, l’uno, umilissimo caporale, l’altro, esaltato eroe pluridecorato e già famoso per il suo ingegno letterario e le sue conquiste mondane, erano ambedue legati, pur non frequentandosi, da quella naturale fraternità in armi che si forma tra combattenti sullo stesso fronte contro lo stesso nemico.

Negli anni 1919/1920 D’Annunzio era all’apice della notorietà, Mussolini, invece, poverissimo e detestato da molti, batteva cassa dove poteva, viveva come un miserabile e cercava di farsi strada nel mondo torbido del dopoguerra, tessendo le prime trame squadriste. I due, peraltro si conoscevano, si scrivevano e si rispettavano, tanto che D’Annunzio informò preventivamente Mussolini delle ragioni della sua impresa, cercando il suo appoggio.

Per Mussolini, D’Annunzio aveva un profilo d’eroe ed era un punto cui arrivare. Non erano certamente in competizione.

L’impresa fiumana s’inquadrava perfettamente negli intenti rivoluzionari e declamatori del primo fascismo rozzo e di strada. Per questo Mussolini appoggiò l’impresa fiumana con articoli veementi su Il Popolo d’Italia, si recò a Fiume più a rendere omaggio al Vate che a portare soccorsi politici e militari, contribuì anche con una raccolta fondi di cui una parte, con il consenso del Comandante, fu utilizzata dalle stesse squadre fasciste in Italia.

Nel tempo, tuttavia, il rapporto fra i due si capovolse. Per quanto uniti dall’intento di portare la rivoluzione in Italia e legati da un comune passato interventista e militare, mentre D’Annunzio, pur tra mille difficoltà pratiche, si crogiolava nel piacere di una dittatura di tipo rinascimentale che da Fiume immaginava di poter esportare in Italia, Mussolini, con maggior senso politico, si rendeva conto dei limiti dell’uomo, avendo di fronte nemici veri da battere e, in testa, il disegno della conquista del potere.

D’Annunzio, l’immaginifico, sceneggiava come un principe del Rinascimento, mentre Mussolini armava le sue squadre, assaltava i palazzi del potere rosso e spianava la strada attorno al suo movimento nascente.

La sua visione politica era molto più ampia e si venne formando con l’aiuto della stessa Sarfatti. Il suo sguardo cominciava a estendersi dalle pianure ferraresi e dalle nebbie milanesi all’Europa e al mondo. Fiume era solo il caso modesto di un’insurrezione isolata, scarsamente indicativo agli occhi di chi avrebbe fatto la marcia su Roma e preconizzato un Impero.

Fu così che, gradualmente, si attenuò l’interesse di Mussolini per Fiume, pur continuando su Il Popolo d’Italia a sostenerne la causa, ma non arrivarono più né denaro né armi, come invece implorava D’Annunzio. L’esaltazione febbrile era finita e i rapporti si fecero difficili nella sostanza, anche se legionari e fascisti si battevano per quella che credevano fosse la loro stessa causa.

D’Annunzio visse i suoi ultimi anni in una specie di esilio dorato a Gardone, nel Vittoriale, dove raccolse tutti i suoi cimeli e le sue memorie.

 

16 – Il prologo del colpo di Stato.

 

L’episodio fiumano, in sé modesto, nonostante i furori mediatici del momento, fu tuttavia emblematico della situazione italiana nel primo dopoguerra.

Il mito di D’Annunzio era stato tale da infrangere la disciplina dell’esercito, tradizionale baluardo del Re, apparentemente disattento. La monarchia, con la propaganda dell’epoca sul Re soldato, ne aveva fatto un’istituzione intoccabile, nonostante le ventate di anarchismo e di repubblicanesimo, più che altro velleitarie.

L’esercito ubbidiva al Re, ma lo sfaldamento provocato da D’Annunzio era un segnale negativo importante. In una guerra civile, non tutto l’esercito si sarebbe schierato a difesa dell’istituzione monarchica.

Il legioniariesimo, interpretato come la parte giovane e bella del Paese, fu fonte d’imitazione per Mussolini e per il nascente squadrismo fascismo, identificando una categoria a se stante di combattenti, veri o presunti, la “giovinezza” del Paese, le cui istituzioni invece erano decotte. Il vecchio mondo politico era incapace di rispondere alle nuove esigenze sollevate dal dannunzianesimo e dal fascismo, che della bandiera italiana e della fede nella Patria si facevano schermo rispetto alle bandiere rosse della blanda opposizione socialista.

Nessuno dei “ribelli” che andarono a Fiume fu punito. Segno grave di accettazione di un’indisciplina non tollerabile, ma anche segno dell’impotenza governativa.

Da Fiume D’Annunzio meditò addirittura uno sbarco ad Ancona, per scatenare una guerra civile cui i fascisti avrebbero dato gran mano, ma poi non se ne fece più nulla.

Mussolini stesso era pochissimo fiducioso sulle qualità combattive delle sue bande. Finché si trattava di ammazzare qualcuno, magari un parroco, o d’incendiare una sede rossa, erano bravissimi, ma in un confronto armato, scarsamente equipaggiati e raccogliticci, avrebbero certamente avuto la peggio.

Mussolini comprese perfettamente sia l’intrinseca debolezza dei suoi squadristi, sia la limitata disponibilità delle forze legionarie in un confronto aperto. Se mai la guerra civile si fosse conclusa con un successo, inoltre, D’Annunzio ne sarebbe stato l’eroe e Mussolini il numero due, cosa che non gli andava assolutamente a genio.

D’Annunzio, con la sua retorica rinascimentale poteva imbonire i suoi ascoltatori, ma con il lirismo non si governa. Inoltre, il suo disegno era limitato. Mussolini pensava a un campo d’azione molto più ampio, l’Europa e il mondo, cui D’Annunzio, invece, non pensava affatto.

Tuttavia, la debolezza delle istituzioni fu palese nel caso di Fiume, al punto che solo un generale, Caviglia, fece sul serio, sparando sui legionari. Badoglio aveva fallito, com’era già accaduto e come accadrà più volte: voce grossa, minacce tonitruanti ma manovrava solo ombre.

Le istituzioni erano deboli e di Caviglia al momento ce n’era uno solo. Gli altri generali, che avrebbero fatto? Facile pensare che al momento opportuno sarebbero stati a guardare o a cavillare sugli ordini ricevuti.

Il frutto non era ancora maturo, ma lo sarebbe stato di lì a poco, forzando le decisioni del Re, attaccato al suo ruolo e al suo Statuto e quasi infastidito dalle pressioni esercitate nei suoi confronti per assumere una decisione.

La marcia su Roma, raffazzonata e piuttosto confusa, si sarebbe potuto spazzare via con un paio di divisioni fedeli. Ma il Re non si mosse. Già con l’idea di nominare Facta Presidente del Consiglio, debole e indeciso, la partita era chiaramente perduta. La questione fondamentale era se la monarchia sarebbe caduta o no. Mussolini dette le sue garanzie e fu nominato Presidente del Consiglio.

Va però riconosciuto che Fiume aprì il discorso del cambiamento istituzionale che di lì a poco sarebbe avvenuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegato II

 

Il ricordo del XX Settembre 1870

(di Guglielmo di Burra)

 

 

Una premessa

 

Per rimuovere lo spesso strato di polvere che ammanta la presa di Roma avvenuta il XX Settembre 1870, occorre procedere, seppur in forma parziale e succinta, ad un necessario ripristino degli avvenimenti di quel tempo.

Il Regno d’Italia fu lo Stato italiano nato il 17 marzo 1861 dopo la guerra risorgimentale – o anche titolata seconda guerra d’indipendenza – combattuta dal Regno di Sardegna per conseguire l’unificazione nazionale italiana.

Dal 1861 vi fu una monarchia costituzionale basata sullo Statuto Albertino, concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia ai propri sudditi del Regno di Sardegna, prima di abdicare l’anno successivo. Al vertice dello Stato vi era il re, il quale riassumeva in sé i tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – se pur esercitati non in maniera assoluta.

L’unità d’Italia pose ai primi governi, guidati dalla maggioranza parlamentare conservatrice, problemi enormi, legati in gran parte alla incredibile diversità delle regioni italiane. Come fare, quali criteri seguire, per dare unità burocratica, militare ed economica al nuovo regno?

È bene ricordare i taluni dati essenziali di allora: 78% di analfabeti, 2.100 Km di ferrovie, 2% il corpo elettorale.

Fu rinnovata l’alleanza con i grandi proprietari del Sud ed estesi a tutto il territorio la legislazione e il regime fiscale in vigore in Piemonte. Scelte fatte in nome della continuità. Molteplici fattori determinarono quel XX settembre del 1870, quali i governi, il brigantaggio, l’azione della Chiesa, l’anticlericarismo, l’influsso della massoneria.

 

I Governi italiani dopo l’Unità

 

– 1° governo – Bettino Ricasoli (1861-1862).

– 2° governo – Urbano Rattazzi (1862). Nei pochi mesi della sua guida, il governo fu messo in difficoltà dall’iniziativa di Garibaldi per prendere Roma. Le truppe italiane si scontrarono con quelle irregolari del grande generale in Aspromonte.

– 3° governo – Minghetti (1863 – 1864). Ci fu un Accordo con la Francia per lasciare Roma al Vaticano. La capitale sarebbe stata Firenze. Ciò determinò proteste e rivolte, a Torino, con morti e feriti.

– 4° governo – La Marmora (1864-1866). Firenze diventa capitale e viene stipulato un accordo militare con la Prussia. Pochi mesi dopo, lo scontro Prussia-Austria induce l’Italia ad approfittarne per prendere il Veneto (3° guerra di indipendenza). Le battaglie di Custoza sulla terraferma e Lissa sul mare sono due umilianti sconfitte per il giovane esercito nazionale. La sconfitta dell’Austria permette, comunque, all’Italia di acquisire il Veneto (pace di Vienna, ottobre 1866).

– 5° e 6°governo – Ricasoli e Rattazzi (1866-1867). Tiene banco la questione romana.

– 7°governo – Menabrea (1867-1869). Tentativo fallito di Garibaldi di prendere Roma, intervento francese e disfatta di Mentana.

– 8°governo – Lanza (1869-1873). Nel 1870 la Francia , che s’era fatta paladino della causa vaticana, sconfitta dalla Prussia, abbandona il Papa al suo destino. Il governo italiano rompe gli indugi e occupa la città di Roma, con il celebre ingresso dei bersaglieri dalla breccia di Porta Pia (20 settembre). Un plebiscito sanzionò l’annessione.

 

Il brigantaggio (1861-1865)

 

Il fenomeno dei “briganti”, cioè fuorilegge in giro per le campagne del sud, fu dovuto principalmente al peggioramento del livello di vita già molto basso, delle popolazioni del Meridione dopo l’unità. L’aumento delle tasse e la leva obbligatoria (che toglieva braccia ai contadini) scatenò una reazione che assunse la forma del brigantaggio e che fu strumentalizzata dal clero e dai Borbone.

Un’inchiesta parlamentare guidata dal deputato Massari indicò molto bene la relazione tra cause ed effetto del fenomeno. Fu ignorata e il problema fu affrontato e risolto con il pugno di ferro e, cioè, con una repressione molto dura che costò centinaia di migliaia di vittime.

La politica dei governi di destra fu tutta orientata alla spoliazione del Meridione e allo sviluppo industriale del nord: aumento delle tasse per i prodotti agricoli, il corso forzoso (stampa di banconote maggiore del valore corrispondente dell’oro), nessuna protezione per l’importazione di prodotti agricoli.
Fu grande soddisfazione alla fine dell’età della destra storica, nel 1876, poter annunciare il raggiungimento della parità di bilancio.

 

La Chiesa e l’anticlericarismo.

 

Nel 1864 fu pubblicato il “Sillabo”, un’enciclica apostolica redatta da Pio IX e contenente 80 proposizioni, in cui si condannava la modernità, dalla libertà di coscienza alla scuola laica, dal liberalismo al socialismo.

Questioni di lessico impongono di parlare dell’anticlericalismo non come movimento puramente distruttivo, volto a rintuzzare l’invadenza delle Chiese e della religione nella sfera pubblica, bensì come strumento ideologico e politico di trasformazione della società, con battaglie condotte, nel corso di decenni, per la scuola laica, per il matrimonio civile, per il divorzio, per l’aborto, per la cremazione, per il testamento biologico, e così via, battaglie che ai contemporanei apparvero sovente avveniristiche, se non addirittura utopiche.

L’anticlericalismo contribuì in modo decisivo al processo di laicizzazione e di crescita civile e culturale del Paese, una sorta di “braccio armato” del laicismo, caratterizzandosi non solo per le sue prese di posizione polemiche contro la Chiesa e il clero, ma anche per la sua forza propositiva d’iniziative volte a dare concreta attuazione ai principi della laicità.

Una prima traccia dell’anticlericalismo della destra si può trovare nella decisione di estendere al Regno d’Italia alcune delle principali leggi che erano state varate dal Piemonte, nel decennio precedente, in materia di politica ecclesiastica. Le due più importanti furono quelle del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867 sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico. Con la prima vennero soppressi gli ordini religiosi, cui si negò la personalità giuridica e quindi il diritto a possedere terre, conventi e monasteri, che passarono ai comuni e alle province. Con la seconda si decretò l’abolizione degli enti ecclesiastici residui e l’incorporazione dei rispettivi beni.

Già nel 1865 era stata introdotta l’esclusività del matrimonio civile e il nuovo codice non riconobbe più effetti civili al matrimonio religioso. Nel 1869 fu varata la legge che sottoponeva gli ecclesiastici all’obbligo di leva. Nel 1873 furono abolite le facoltà di teologia nelle università.

La scelta di adottare una politica ecclesiastica di taglio giurisdizionalistico e d’impronta anticlericale fu influenzata in primo luogo dall’atteggiamento della Chiesa e del movimento cattolico, che dopo il 1861 si arroccarono a difesa del potere temporale e di quanto era rimasto degli antichi privilegi.

Fra i cattolici, la componente liberale e conciliatorista si assottigliò a tutto vantaggio di quella intransigente, la quale, soprattutto dopo il 1870 e dopo il “non expedit ” già introdotto da Pio IX, divenne largamente egemone e caratterizzò la propria opposizione allo Stato unitario come “anti-sistema”. Giudicò, cioè, il Regno d’Italia illegittimo e usurpatore, rifiutando qualsiasi forma di collaborazione che potesse affermarne la legittimità, a cominciare dalla partecipazione alle elezioni politiche.

Inoltre, fin dai primi anni dopo l’Unità, alcuni settori del clero, specie nelle regioni meridionali, non esitarono ad appoggiare forme estreme di protesta sociale e politica come il brigantaggio.

Con l’inizio del periodo unitario italiano, tale fenomeno si diffuse in un movimento organizzato che fece dell’opposizione alla Chiesa cattolica, al papato, all’idea stessa di religione, la sua principale ragione di vita.

L’espressione più significativa di questo movimento, fu la massoneria. Messa al bando in tutti gli Stati preunitari, ricomparve nel 1859, quando dalla Loggia Ausonia, che ne rappresentò la cellula costitutiva, venne fondato a Torino il Grande Oriente Italiano (GOI)[3].

La massoneria ebbe un ruolo di grande rilievo per vari motivi:

1 – Divenne una struttura associativa radicata in tutta la penisola e nel momento della sua massima espansione, ossia alla vigilia della 1° guerra mondiale, raggiunse un numero di circa venticinquemila iscritti (tra i quali anche gli affiliati alla Gran Loggia d’Italia[4]).

2 – Fu una sorta di levatrice per altre associazioni assai attive sul fronte della concreta militanza anticlericale, quali, ad esempio, le società per la cremazione, le associazioni di pubblica assistenza e di soccorso alle scuole popolari, gli asili e i ricreatori laici[5]. Tutti questi sodalizi svolsero attività e funzioni che cercarono di erodere il potere che in molteplici ambiti (l’istruzione delle classi popolari, l’assistenza ai bisognosi, la gestione della morte e dei rituali funebri, lo svago e l’educazione dei fanciulli) era esercitato in modo quasi esclusivo dalla Chiesa, dal clero e da molteplici organizzazioni del mondo cattolico.

Così le società laiche di pubblica assistenza, dal 1904 costituite in federazione nazionale, agirono in diretta concorrenza con le Misericordie; i ricreatori laici tentarono di offrire un’alternativa agli oratori cattolici; le società per la cremazione si batterono per affermare il concetto della “morte laica”, e con essa l’idea del progresso igienico-sanitario che solo le nuove tecniche potevano garantire.

Non pochi massoni, a cominciare da Adriano Lemmi e Andrea Costa, figurarono fra gli oltre ventimila cremati che si ebbero in Italia fra il 1876, anno della prima cremazione ufficiale avvenuta a Milano, e gli anni Venti del Novecento (oggi, la cremazione è ammessa anche dalla Chiesa).

Il GOI inserì ufficialmente fra i suoi obiettivi il progetto di legalizzazione della cremazione in occasione dell’assemblea del 1874, quando formulò altresì l’auspicio che i cimiteri divenissero “esclusivamente civili, senza distinzione di credenze o di riti”.

L’impegno anticlericale della massoneria si manifestò, inoltre, con il sostegno ad alcune iniziative politiche, come la campagna per introdurre il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano.

Il fronte divorzista produsse un primo sforzo ingente intorno al 1890, quando fra gli altri si distinsero due avvocati entrambi massoni, il bolognese Giuseppe Ceneri e il piemontese Tommaso Villa, quest’ultimo già Ministro dell’Interno e poi della Giustizia, con Cairoli, dal 1879 al 1881 e, più avanti, Presidente della Camera. Logge e giornali massonici raccolsero fondi per promuovere comitati e pubblicazioni a favore del divorzio e per orientare in tal senso il mondo giuridico nazionale, all’interno del quale l’ordine libero muratorio contava numerosi affiliati.

In generale, nel movimento del libero pensiero, i motivi del razionalismo materialista francese si combinarono con quelli del positivismo scientifico tedesco, con le teorie evoluzionistiche di Darwin e con la tradizione dell’anticlericalismo italiano. Il comune denominatore fu individuato nella lotta contro la Chiesa e contro la religione, ritenute i principali ostacoli sulla via del progresso e strumenti di oppressione di quei ceti popolari, in specie le donne, che erano meno attrezzati sul piano culturale e quindi più esposti all’influenza nefasta delle superstizioni.

Sotto questo profilo, il libero pensiero trovò quindi non pochi elementi d’intesa sia con il nascente socialismo, sia con le prime organizzazioni dell’emancipazione femminile.

Non a caso, il movimento conobbe un robusto sviluppo nei primi anni Settanta, in coincidenza con la crisi dei movimenti mazziniani, con la diffusione del primo internazionalismo e con gli entusiasmi suscitati dall’abbattimento del potere temporale.           L’ultimo Garibaldi, quello del dissidio con Mazzini, dalle simpatie internazionaliste, del viscerale anticlericalismo, divenne uno dei maggiori punti di riferimento delle società del libero pensiero, molte delle quali lo elessero presidente onorario, e delle obbedienze massoniche, di cui fu brevemente Gran Maestro.

Il suo progetto politico, negli ultimi anni di vita, fu quello di unire, nella comune battaglia per la laicizzazione e la modernizzazione dello Stato, tutte le associazioni della sinistra democratica, la massoneria e il composito universo del libero pensiero. Nel nome di un anticattolicesimo dalle tinte accese e di un mito del progresso intriso di razionalismo umanitario, chiamò a raccolta democratici e socialisti per combattere le forze della conservazione, in primis la Chiesa cattolica e il clero, e sollecitare la sinistra di governo a una più incisiva azione riformatrice.

Grazie anche al contributo di un testimonial d’eccezione come Garibaldi, che sposò in pieno la causa della cremazione per esempio, le rivendicazioni anticlericali e un certo costume laico nella vita quotidiana non furono più espressione di circoli esclusivi ed elitari, bensì cominciarono a diffondersi in strati sociali più larghi, borghesi e popolari, dapprima nell’Italia centro-settentrionale e poi anche nelle città del Mezzogiorno. I giornali davano sempre più frequentemente notizia di battesimi, matrimoni e funerali civili, di testimoni che nei processi rifiutavano di giurare sulla Bibbia e in nome della divinità, di associazioni che si adoperavano perché fosse rispettata la volontà dei propri soci di non ricevere l’estrema unzione.

Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, tra i libri più venduti, figurarono saggi e romanzi di sapore anticlericale. La satira più corrosiva fu quella che aveva come bersaglio la Chiesa e i preti; feste religiose e ricorrenze patriottiche furono più volte occasione di scontri tra fazioni contrapposte di laici e cattolici intransigenti. Fu questo un periodo in cui le idealità laiciste parvero improntare e dominare l’intera vita nazionale.

 

La presa di Roma.

 

È noto che la Massoneria celebra Solstizi ed Equinozi, i ritmi perenni e universali dell’uomo e del cosmo. Raramente si sofferma, invece, su ricorrenze civili legate alla contingenza della storia e dei suoi episodi. L’unica data incisa con caratteri in rilievo nel calendario massonico italiano è tuttora il 20 Settembre 1870, data della famosa Breccia di Porta Pia che 149 anni fa segnò la conquista e la successiva annessione di Roma al giovane Regno d’Italia, mettendo fine al potere temporale del papato.

La Porta nelle mura aureliane a Roma fu fatta erigere da Pio IV nel 1561 su disegno di Michelangelo, presso l’antica Porta Nomentana. Quella porzione di muro rappresenta tuttora il simbolo emblematico dell’unità d’Italia. Fu proprio quel tratto, tra Porta Pia e Porta Salaria, l’obiettivo dell’attacco principale, durante le operazioni per la presa di Roma, da parte delle truppe italiane guidate dal generale Raffaele Cadorna contro l’esercito papalino.

I primi colpi di artiglieria colpirono le mura alle 5,10. I pontifici alzarono la bandiera bianca alle 10,05, mentre i reparti più prossimi all’ampia breccia, che nel frattempo era stata aperta nelle mura, davano inizio all’entrata degli Italiani a Roma. I fatti di Porta Pia, con l’annessione della città, sancirono la fine dello Stato Pontificio come entità storico-politica, e l’avverarsi del sogno risorgimentale dei padri della patria.[6]

Più di quaranta anni fa si sentiva la necessità di un risveglio dello spirito vero del XX Settembre. Ed oggi questa nostalgia la si avverte ancora, anche se in termini decisamente diversi. Fin dall’anniversario del150°dell’Unità d’Italia, la Chiesa Cattolica, ed i suoi rappresentanti più in vista – in primis il cardinal Bertone – hanno infatti cominciato a presenziare alle più solenni rievocazioni risorgimentali, compresa quella di Porta Pia, in passato sempre snobbate, cercando invece ora di affermare un ruolo della stessa Chiesa nel processo unitario del Paese, facendolo apparire come importante e determinante.

In realtà, vi fu solo una brevissima alleanza anti-austriaca con i Savoia, che di fatto si esaurì nelle fasi iniziali della 1° guerra d’indipendenza. Da quel momento, il Papa-Re si trovò sempre dall’altra parte del Risorgimento nazionale.

Qualsiasi ricorrenza storica ha sempre un doppio senso di marcia. Da un lato vivifica il passato nel presente. Dall’altro, però, stabilisce anche un inevitabile confronto fra il nostro presente ed il passato. Ed è qui che come cittadini italiani, questo confronto ci sottopone ad un esame di coscienza: avremmo oggi la stessa determinazione, la stessa carica morale, lo stesso coraggio degli uomini del Risorgimento nello sfidare non solo le convenzioni religiose ed il potere degli assolutismi e della Chiesa, mettendo a repentaglio la nostra stessa vita, i nostri averi, i nostri affetti?

Una cosa è certa: la sfida non è terminata 149 anni fa; ancora oggi il potere economico e sociale della teocrazia cattolica continua ad avere le sue frequenti ingerenze nella società e nella res publica della nazione, determinando una situazione che in effetti si avverte essere molto “scomoda” e non tollerabile.

A non far tornare i conti nella celebrazione del 20 Settembre, è proprio il fatto di avvertire ancora così pesante e incontrastato l’ascendente ed il condizionamento della Chiesa, e non solo di essa, a più livelli nella vita politica ed economica della nazione, trascendendo dalla Carta Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]              V. allegato 1: L’avventura fiumana.

 

[2]              V. allegato 2: Il ricordo del XX Settembre 1870.

[3]              Aderì al GOI una rappresentanza ragguardevole di esponenti politici, fra i quali almeno cinque presidenti del Consiglio: Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis, Boselli, e innumerevoli ministri e parlamentari. Nel 1914, secondo una stima attendibile, si contavano alla Camera ben novanta deputati massoni o con recenti trascorsi massonici, oltre a rilevanti figure del mondo accademico e culturale quali Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, Pasquale Villari, Giovanni Bovio, Antonio Labriola.

 

[4]              Si tratta di un’obbedienza dissidente formata dalla scissione di un gruppo di massoni del rito scozzese, capeggiati dal pastore valdese e deputato calabrese Saverio Fera, usciti dal GOI nel 1908.

 

[5]              Alcune di queste sono ancora in vita e sparse maggiormente nel Centro e Sud Italia, di cui almeno tredici nel piccolo Molise. In particolare ne cito una: la Società Operaia di Mutuo Soccorso di Carovilli (IS) fondata nel 1887, che conta attualmente più di 360 iscritti, su una popolazione di appena 1.300 abitanti),

 

[6]          “Se contando solo l’epoca di Voltaire – scriveva il filosofo massone Carlo Gentile in occasione del 20 Settembre 1975 – mille e quattrocento anni di teologia avevano già prodotto il massacro di più di cinquanta milioni di uomini, qualcosa, nella storia del mondo, può ben significare il fatto che dal 1717 (anno di nascita, a Londra, della massoneria speculativa, con l’istituzione della Gran Loggia d’Inghilterra, formatasi il 24 giugno di quell’anno, dalla riunione di tre logge londinesi ed una di Westminster) ci si è cominciati a chiamare “fratelli” (così si chiamano tra di loro i massoni), fuori dalle disparità anagrafiche, continuando ciascuno a professare la propria o nessuna confessione. Si ricordi dunque il 20 Settembre, ossia il primo tangibile rifiuto di sovrapporre l’imprimatur alla volontà della storia. Ma l’imprimatur esiste ancora…”.