1946, Casagiove Costantino Smiraglia tentò di uccidere una delle tre mogli presso la quale mangiava ma non dormiva preferendo l’amante per la notte di Ferdinando Terlizzi
Avvocato Leucio Fusco
Il 17 ottobre del 1956 si presentò alla caserma dei carabinieri di Casagiove Giovanni Sgrò, un infermiere, il quale riferì al piantone che in via Gaiano al civico 28 giaceva a terra, nella propria abitazione, Carolina Nasta, gravemente ferita a colpi di coltello. Il comandante Giovanni Bianco e due carabinieri, Angelo Truocchio e Pasquale Calvanese, si recarono immediatamente sul posto dove rinvennero – in una pozza di sangue – la malcapitata trafitta da vari colpi e priva di sensi. Il primo referto riferì che si trattava di ferite multiple da taglio, al cuoio capelluto, alla regione temporale sinistra, al dorso del naso, al fianco destro, ed all’ipocondrio sinistro, penetrante in cavità, con probabile lesione organi interni, stato di anemia acuta, con la prognosi riservata. In sede di sopralluogo nella casa della poveretta, a poca distanza dalla ferita, i carabinieri rinvennero un coltellaccio da macellaio intriso di sangue, con una lama lunga 13 cm e mezzo, con una punta acuminata a manico fisso in legno sul quale brillavano le iniziali: “N.A”. Si accertò nel corso delle indagini che la donna, da circa 2 anni, viveva separata di fatto dal marito Stefano Smiraglia, per questioni di famiglia; questioni originate dal fatto che lo Smiraglia, essendosi sposata tre volte, aveva avuto figli con tutte le tre le mogli, che, purtroppo, non andavano d’accordo col padre e la matrigna. La Carolina Nasta, allora, si era stabilita in un vano a piano terra alla via Gaiano 28, dove viveva in compagnia dell’unico figlio procreato con lo Smiraglia e provvedeva lei stessa – con il suo lavoro di donna di servizio – al sostentamento del figlio. Negli ultimi tempi però i rapporti con l’ex marito erano diventati sempre meno tesi, tanto è vero che lo Smiraglia, quasi ogni giorno, andava a pranzo o a cena dalla ex moglie fornendo, a volte, anche parte dei cibi occorrenti per la confezione del vitto… ma… dopo aver consumato il pasto però faceva ritorno presso l’abitazione di via San Prisco, dove risiedeva la sua terza moglie ed i figli dell’altra moglie dove pernottava. La sera del tentativo di omicidio in Costantino Smiraglia si portò, come al solito, a casa della moglie portandole un pezzo di baccalà per farlo cucinare a mangiarlo insieme; mentre consumavano la cena – i predetti erano soli in casa in quanto il loro figlio era andato al cinema a Caserta – ci fu una discussione originata dal fatto che la Carolina aveva avuto un diverbio, il giorno precedente, con una sua vicina di casa Anna Della Valle, abitanti nello stesso palazzo, e pretendeva che il suo ex marito si schierasse dalla sua parte e di conseguenza avrebbe dovuto redarguire la Della Valle. Se non che lo Smiraglia non intese fare come la moglie voleva e dalle parole passarono alle vie di fatto e durante la colluttazione che ne seguì l’uomo estrasse l’acuminato coltello e vibrò diversi colpi alla moglie e la lasciò per terra priva di sensi dileguandosi per le campagne circostanti e rendendosi irreperibile. L’allarme venne dato dalla ottantenne Maria Lombardi, padrone di casa di Carolina Nasta, abitante di fronte alla casa di quest’ultima, che raccolse i lamenti e le grida della stessa. La Lombardi, a sua volta, chiamò la sua vicina di casa Anna Della Valle, vedova, casalinga, la quale si portò subito presso l’abitazione della Nasta che trovò sola in casa, stesa a terra, in una pozza di sangue che le disse: “Nanninè… Nanninè… aiutami”. Riavutasi dalla profonda impressione la Della Valle cominciò a gridare e a chiedere aiuto, tanto che subito accorsero diverse persone del vicinato le quali provvidero contemporaneamente ad avvertire i Carabinieri e la Croce Rossa di Caserta. Cinque giorni dopo il delitto, verso le 14, si presentò spontaneamente ai carabinieri Costantino Smiraglia, il quale sottoposto ad interrogatorio confermò grosso modo quanto accertato dai militari verbalizzante precisando che fu la moglie ad afferrare il coltellaccio. Diametralmente opposto la dichiarazione della Nasti, che smentì letteralmente quanto asserito dal marito la quale interrogata nel nosocomio casertano precisò che ”il coltellaccio con il quale era stata ferita era in possesso del marito e che evidentemente, quella sera, era andato con l’intenzione di ucciderla”.
“Il Barbablu’” di Casagiove, macellaio e donnaiolo fu accusato di tentato uxoricidio. Aveva avuto sei figli dei tre matrimoni.
Il G.I. con sentenza del 6 luglio 57 dichiarava chiusa la formale istruttoria ordinando il rinvio innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere dello Smiraglia per rispondere di tentato omicidio nei confronti della propria moglie Carolina Nasta la quale, fortunatamente, guarì nel giro di trenta giorni e non riportò postumi di rilievo. In dibattimento l’imputato si riportò ai precedenti interrogatori mentre la persona offesa confermò le precedenti dichiarazioni per quanto concerne le modalità del fatto e rese, invece, contrastanti versioni circa l’origine dello stesso avendo affermato all’inizio della deposizione che fu determinata dal rifiuto opposto dal marito a richiamare la Della Valle ed avere successivamente informato di essere stata, invece, aggredita alle spalle mentre si avvicinava al focolare per cucinare cibi diversi dal baccalà per il figliuolo. Secondo quest’ultima versione lo Smiraglia avrebbe agito perché non voleva che la moglie approntasse al figlio un cibo diverso da quello consumato ai genitori. La donna, nell’invocare clemenza per il marito, precisò che il matrimonio era finito nell’agosto del 1940, perché il marito, avendo preso un esercizio di commercio ambulante (abbandonando le attività di contadino) non guadagnava il necessario per mantenere la famiglia. Nel 1948, però, ritornava a convivere con il marito ma dopo un certo tempo si verificarono litigi perché il figlio – da lei provocato – non voleva lavorare in campagna e il padre lo bastonava. Ci fu allora un accordo per una separazione consensuale. Ma lo Smiraglia, la sera, dopo il lavoro, si recava a mangiare da lei. Terminata l’assunzione delle prove il Pubblico Ministero chiese l’affermazione della responsabilità penale dello Smiraglia, in ordine al delitto con la concessione delle attenuanti generiche e l’assoluzione per insufficienza di prove in ordine alla contravvenzione per il porto abusivo di coltello di genere proibito. L’avvocato Leucio Fusco difensore di parte civile insistette per una condanna esemplare e per il risarcimento del danno mentre l’avvocato Ciro Maffuccini, difensore dell’imputato, concluse chiedendo la condanna del suo assistito per il reato di lesioni aggravate dal rapporto di coniuge e dall’uso dell’arma con le attenuanti generiche della provocazione e con i benefici della sospensione condizionale della esecuzione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Risulta dalla deposizione resa in dibattimento che la Nasta, nel 1939 sposò lo Smiraglia vedovo con figli avuti da due precedenti matrimoni. Nell’agosto del 1940 ella abbandonò il domicilio domestico per porre fine a continui litigi che sorgevano sul fatto che il marito non ritraeva dal commercio ambulante al quale si era dato il necessario per i bisogni della sua numerosa famiglia. Nel 1948 i coniugi si riunirono ma per breve tempo. Questioni derivanti dal fatto che il loro figlio Stefano non voleva darsi ai lavori di campagna – come pretendeva il padre – li indussero a separarsi di fatto. Nel 1954 lo Smiraglia spesso si recava in casa della moglie ed insieme trascorrevano delle ore a cenavano. Spesso litigavano. Uno di tali litigi sorse risorse la sera del 15 ottobre perché lo Smiraglia si rifiutò di richiamare la vicina di casa Anna Della Valle che in mattinata aveva avuto una questione con la moglie per motivi di interesse. Quella sera del 17 ottobre del 1956 si verificò un alterco più grave di quelli precedenti tanto che Maria Lombardi sentì il bisogno di rivolgersi alla Della Valle per farla intervenire. La Nasta – come si apprese in periodo istruttorio – ripetette al marito l’invito a redarguire la Della Valle ma ebbe ancora una volta un netto rifiuto. Ella dovette reagire con vivacità se è vero che il marito le dette uno schiaffo Questo atto, che avrebbe dovuto porre fine alla discussione, secondo la previsione dello Smiraglia ebbe un effetto diverso. La Nasti, tipo intollerante ed irascibile quale si è rilevata anche in dibattimento, non si tenne l’affronto altrimenti nulla di grave si sarebbe verificato. E’ da escludere che ella si sia armata di coltello ed abbia aggredito il marito. L’assunto di costui non è attendibile perché il certificato medico – dal quale dovrebbe indirettamente desumersi che egli riportò delle lesioni nel disarmare la moglie – non può avere efficacia probante perché è posteriore di 5 giorni dagli avvenimenti.
Il processo in Corte di Assise – Nel corso del dibattimento l’imputazione di tentato omicidio fu modificata in quella di lesioni – La pena inflitta fu di 3 anni di reclusione.
Non può neanche ritenersi con vera coscienza che la Nasta abbia minacciato il marito di morte, in quanto, tra le circostanze non v’è che la parola della Lombardi, la quale in udienza ha escluso di avere sentito la frase riferita in periodo istruttorio senz’altro a compiacenza essendo probabile che la Nasta, per la sua avanzata età e per il fatto che si trovava in casa sua che è nel piano superiore, non abbia potuto percepire distintamente le parole pronunciate durante la lite. Il contrario assunto della Nasta non appare pianamente attendibile essendo specifico che lo Smiraglia si recò dalla moglie per intrattenersi col lei e per consumare la cena e non per litigare. A questo punto la Corte rilevò che la richiesta avanzata dalla difesa dell’imputato relativa alla esclusione dell’”animus necandi” era meritevole di accoglimento per le seguenti considerazioni. Lo Smiraglia era uomo pacifico, giunto a 60 anni senza incorrere in violazione della legge penale, veritiero al punto che non volesse intromettersi nella questione sorta tra la moglie e la Della Valle. Inoltre vedeva nella Nasta la persona alla quale poteva rivolgersi nella sua età avanzata per trovare conforto e sollievo. Il fatto al quale reagì era di modeste proporzioni. Ora in base alla comune esperienza è da escludere che un individuo quale lo Smiraglia abbia potuto ideare e volere per un insignificante episodio la morte della consorte alla quale si sentiva ancora legata nonostante un lungo periodo di separazione. E’ da pensare, invece, che egli volle soltanto ferire la donna per indurla a non insistere nella sua pretesa. L’idea gli sorse quando vide che una semplice percossa non era riuscita a far desistere la moglie ed aveva accresciuto l’ira di lei. Né dal mezzo usato e dalla reiterazione dei colpi può ricavarsi la prova dell’intenzione di uccidere. Invero, il coltello, pur con le caratteristiche descritte non può considerarsi un’arma omicida per sua natura. Esso fu usato solo per ferire tanto è vero che lo Smiraglia cagionò lievi ferite quando uno dei colpi penetrò in cavità e desistette dalla sua azione pure avendo possibilità di continuarla non e essendoci chi potesse impedirglielo. Se si fosse voluto uccidere, si sarebbe fatta penetrare tutta la lama del coltello e si sarebbero vibrati altri colpi. Ne consegue che l’imputazione di tentato omicidio va modificata in quella di lesioni guarite in giorni 20 aggravate per l’arma e per il rapporto di coniugio. Non possono concedersi le circostanze attenuanti generiche in quanto i buoni procedimenti penali dell’imputato non possono attenuare l’entità di un fatto che appare grave per la persistenza del dolo e per la tenuità della causale che lo determinò. Non ricorre inoltre l’attenuante della provocazione in quanto lo Smiraglia per primo trascese ad atti di violenza percuotendo la moglie e non risulta che costei abbia reagito proporzionalmente all’aggressione. Quanto alla pena – sentenziò la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Eduardo Cilento, presidente; Guido Tavassi, consigliere a latere; giurati: Antonio Bologna, Ferdinando Benefico, Arturo Pozzi, Oreste Lasomma, Nicola Canzano e Antonio La Milza) va tenuto conto dei buoni precedenti penali e della gravità del fatto desunta anche dalla persistenza del dolo e della tenuità del motivo, la Corte ritenne di fissarla in 3 anni di reclusione partendo da anni 2 ed apportando l’aumento di mesi 6 con l’aggravante del rapporto di coniugio e altri 6 mesi per quello dell’arma. Inoltre va assolto con formula dubitativa per l’arma, in quanto non si è accertato se il coltello per ferire la Nasta era stato portato da lui o non si trovasse già in casa della donna. Nel processo furono impegnati gli avvocati Ciro Maffuccini e Leucio Fusco.