CALUNNIE DAI PENTITI: IL DIRIGENTE COMUNALE GIANFRANCO DI RIENZO, PREANNUNCIA DENUNCE CONTRO CHI LO INFAMA.
IN AULA CHIARISCE E RESPINGE LE ACCUSE CON RIFERIMENTI TEMPORALI CHE SCONFESSANO I COLLABORATORI
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 26 ottobre 2022 – A 18 anni dagli episodi contestati e a 6 anni dalle prime dichiarazioni di due pentiti, il dirigente dell’ufficio tecnico comunale di Santa Maria Capua Vetere – impiegato da 44 anni presso l’ente, persona di specchiata moralità e destinatario di tre encomi prefettizi – ha potuto finalmente testimoniare al processo in corso a Santa Maria Capua Vetere, che lo vede sotto accusa sulla base delle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. Una vicenda kakfiana per Di Rienzo la cui testimonianza capovolge gran parte delle accuse. Di Rienzo ha chiarito portando in aula date precise ed inconfutabili i termini della vicenda giudiziaria e soprattutto i riferimenti temporali. «Non mi sono mai preso carico di prendere presunte tangenti , non capisco perché i collaboratori di giustizia mi accusano, hanno sicuramente sbagliato persona e mi riservo di denunciarli» ha esordito Di Rienzo. Davanti ai giudici della I Sezione Penale del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (presidente Sergio Enea) il dipendente comunale con un passato all’ufficio tributi e prestato alla cessione e controllo delle aree verdi cittadine ha risposto alle domande del sostituto procuratore della Dda specificando a chiare lettere di non conoscere il clan dei Casalesi, né di aver rivestito alcun ruolo per loro come quello affidatogli dai collaboratori di giustizia Massimo Vitolo e Antonio Monaco: questi ultimi sotto processo insieme a Romeo Aversano Stabile e Mario Tiglio. «Tutto ciò è assurdo, essere indicato come segnalatore di cantieri in itinere o società aggiudicatarie di appalti presso il comune sammaritano dove il clan si recava per porre in essere l’attività estorsiva». Peraltro, Di Rienzo ha chiarito di non aver «mai partecipato a nessuna gara d’appalto» sottolineando che dal 2002 al 2008 si trovava all’ufficio tributi. Un passaggio che sconfessa i suoi accusatori. «Solo nel 2004 mi venne affidato l’incarico di consegnare le aree verdi alle ditte assegnatarie e di controllare – ha spiegato ai giudici Di Rienzo – i collaboratori di giustizia so che erano tali per le vicende lette sui giornali». In riferimento ad Antonio Monaco, Di Rienzo ha spiegato di conoscerlo poiché era il figlio di un collega e che aveva appreso delle sue vicende giudiziarie oltre che dai giornali anche dal padre offrendosi poi di partecipare ad una colletta per aiutare la rispettabile famiglia Monaco a pagare le spese giudiziario del pentito. Inimmaginabile, per chi conosce Di Rienzo, peraltro impegnato anche nel sociale da svariati anni, collocarlo in compagnia dei suoi coimputati, alcuni dei quali hanno scelto la strada della collaborazione che in questo caso infanga una persona stimata. Di Rienzo ha aggiunto «non ho mai avuto debiti, né ho avuto mai bisogno di prendere a prestito somme di denaro da un usuraio. Sono benestante da generazioni, se avessi avuto bisogno di soldi sarei andato dalla mia famiglia poiché siamo molto uniti». Nel processo si parla di estorsioni a tale Alfredo Cicala e conseguentemente alla ditta Pumaver srl: fatti risalenti al 2004 quando la Pumaver srl vinse una gara d’appalto con il comune di Santa Maria Capua Vetere ed episodi di tangenti chieste dal 2004 al 2009. Cicala venne tratto in arresto nel 2004 e esce nel 2010 assunto dalla Pumaver come esperto botanico per il controllo della ditta su Santa Maria per gli operai che ci lavoravano e non titolare della Pumaver srl assegnataria dell’appalto dsl 2010 al 2015 date che non corrispondono a quanto Monaco asserisce e accusa. Il ramo di azienda viene acquistato dalla Pumaver srl nel 2006 ma Cicala non era titolare e neanche dipendente. «Io conosco Cicala nel 2010 solo quando fu espletata la seconda gara dal 2010 al 2015 e fu assunto dal cugino titolare della Pumaver srl Gaetano Marone», ha spiegato Di Rienzo. A dire di Monaco le accuse lui le porta mettendo in risalto il nome di Cicala quale titolare e Di Rienzo avendo questo contatto avrebbe chiesto somme di danaro per poi consegnarle a lui, per girarle poi ai Casalesi: la parte offesa dovrebbe essere Cicala che però in quel periodo era in carcere per scambio di voti per le sue disgrazie politiche. Le dichiarazioni rese dai due collaboratori di giustizia sono vacillate anche dopo le dichiarazioni di Mario Tiglio, specificando che non conosceva la ditta Pumaver né Alfredo Cicala né di aver mai avuto contatti con Gianfranco Di Rienzo nella sua veste di segnalatore per il clan dei Casalesi. Il processo riprenderà a metà novembre ma si sta già delineando un profilo del tutto diverso della posizione di Di Rienzo alla luce delle sue dichiarazioni.