A Santa Maria a Vico, nel 1958, il pecoraio Giuseppe Piscitelli, tentò di uccidere per vendetta 2 donne ed un uomo. Alla base della sparatoria del capraio non solo la vendetta per la morte del fratello ma anche il sospetto che gravava su di lui del furto di 4 agnelli di Ferdinando Terlizzi
Con rapporto del 15 marzo del 1958 i carabinieri di Santa Maria a Vico riferivano che l’11 marzo Giuseppe Piscitelli, pecoraio, di anni 27, aveva esploso in Santa Maria a Vico, diversi colpi di pistola contro i suoi cugini Antonio De Lucia, Carmela De Lucia e la madre degli stessi Rosalia Calcedonia e che mentre il De Lucia era rimasto illeso le due donne erano state attinte ciascuna da un colpo, la prima alla mammella sinistra e la seconda alla faccia posteriore del braccio sinistro, terzo superiore, ed erano state ricoverate all’ospedale dei Pellegrini di Napoli. I verbalizzanti precisavano che dalle indagini, attraverso le dichiarazioni rese dalle parti lese e dei testi presenti Anna de Lucia, Maddalena de Lucia, Cesare Clima, Rosa Piscitelli, era risultato che il Piscitelli, il quale già nutriva per Antonio Di Lucia rancore per gelosia di mestiere e perché inoltre anni prima un suo fratello era deceduto per investimento da parte di un camion mentre andava in bicicletta insieme al detto De Lucia, era rimasto ulteriormente inasprito per il fatto che era stato sospettato dai due De Lucia quale autore di un furto di quattro agnelli da loro patito nella notte del 2 al 3 marzo e pertanto verso le ore 12:30 dell’11 marzo si era presentato, con una pistola davanti alla porta semiaperta del vano abitato dai predetti nel quale in quel momento si trovavano Antonio De Lucia, sua moglie Maria De Lucia, con un bambino in braccio, e la Calcedonia. Il Piscitelli aveva sparato un colpo in direzione di Antonio De Lucia il quale però era riuscito ad evitare di essere colpito abbassandosi immediatamente dietro la cucina, presso la quale si trovava per friggere delle patate. Indi la Calcedonia aveva chiusa la porta innanzi all’aggressore; ma questi aveva rotto con l’arma un vetro della porta medesima ed aveva continuato a sparare altri due colpi ferendo la donna. Successivamente l’aggressore si era allontanato ed avendo notato nel cortile la Carmela De Lucia che si avviava verso casa aveva preso ad inseguirla. La Carmela De Lucia si era rifugiata nell’abitazione di Rosa Piscitelli e il Piscitelli aveva sparato contro di lei un colpo presso la porta d’ingresso e poi, nell’interno della casa, un secondo colpo che era quello che l’aveva attinta al petto. Infine lo sparatore era fuggito. Precisavano ancora i carabinieri che erano stati rinvenuti nell’abitazione dei De Lucia tre bossoli, una pallottola, dei fori prodotti dai colpi sulle pareti; lungo la scalinata che conduce alla detta abitazione una cartuccia inesplosa; davanti alla casa della Rosa Piscitelli, due cartucce inesplose ed un bossolo e nell’interno della seconda stanza di detta casa un bossolo. I bossoli, la pallottola e le cartucce e le pistola calibro nove. Nel rapporto si esponeva altresì che il Piscitelli era stato tratto in arresto la mattina del 15 marzo sulla via nazionale Appia mentre in macchina si dirigeva verso Santa Maria Capua Vetere e sottoposto ad interrogatorio aveva dichiarato che si era recato da Antonio De Luci per chiedere spiegazioni circa l’accusa di furto messa in giro contro di lui e poiché era stato accolto in malo modo dalla Calcedonia, che gli aveva anche chiuso la porta in faccia, accecato dall’ira, aveva esplose due colpi di pistola in direzione della donna e del figlio. Che, discese le scale, aveva incontrato la Carmela De Lucia e perché queste gli aveva detto: “disgraziato, ti devo uccidere“; le aveva esploso due colpi fin sulla soglia della casa della Rosa Piscitelli che indi era fuggito attraverso le campagne e i monti e durante la fuga aveva perduto la pistola; che aveva sostato temporaneamente presso l’abitazione dei suoi conoscenti, ove sua moglie gli avevo anche portato della biancheria, e infine aveva ricevuto ospitalità dal 12 fino alla mattina del 15 da una famiglia di Cervinara, della quale facevano parte un uomo anziano ed un giovane che erano stati da lui messi a conoscenza del delitto commesso. Che nella casa di detta famiglia erano andati a trovarlo il giorno 13 suo cognato ed altri amici per convincerlo a costituirsi. E nel prosieguo delle indagini la persona che aveva dato ospitalità al Piscitelli era stata identificata per Angelo Picca, questi, peraltro, aveva precisato che aveva tenuto presso di sé il Piscitelli perché prestasse per lui lavoro e che ignorava che si trattasse di persona ricercata. Si procedeva quindi formalmente a carico del Piscitelli, al quale venivano contestati con mandato di arresto e poi con mandato di cattura i reati di tentato omicidio continuato in persona di Antonio De Lucia, Carmela De Lucia e Rosalia Calcedonia, di detenzione e porto abusivo di pistola e di sparo in luogo abitato, nonché a carico di Angelo Picca per il reato di favoreggiamento personale.
Piscitelli fu ferito ad un braccio con un ferro e da ciò sparò nell’abitazione dei De Lucia, ma nel cortile Carmela lo pregò dicendogli: ”fratello mio che è, perché fai questo non mi uccidere”… ma lui sparò lo stesso…
E in istruttoria il Piscitelli sosteneva di aver sparato solo l’indirizzo della Calcedonia e della Carmela De Lucia, per intimidirle, dopo essere stato percorso ad un braccio con un ferro. Il Picca le parti lese ed i testi già escussi confermavano quanto dichiarato ai carabinieri. Venivano sentite anche i verbalizzanti ed altri testimoni indicati dalle parti. Mediante una perizia medica legale si accertava poi che la Calcedonia e Carmela De Lucia, erano guarite rispettivamente in giorni 30 e 20 senza postumi. Ed effettuata infine l’ispezione delle località ove avvennero gli spari con rilievi planimetrici e fotografici, il giudice istruttore, con sentenza del 17 febbraio del 59, su conforme richiesta del pubblico ministero, ordinava il rinvio dei due imputati innanzi alla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere. Nel dibattimento il Piscitelli e il Picca confermavano in buona sostanza gli interrogatori. Veniva contestata ad entrambi la recidiva reiterata generica. Si costituivano parte civile nei confronti di Piscitelli la Calcedonia Rosaria e Carmela De Lucia. In diritto la Corte osservava che la causale e le modalità del fatto di sangue erano rimaste pienamente accertate attraverso le dichiarazioni delle parti lese e dei testi Maddalena De Lucia, Anna De Lucia, Cesare Clima, Rosa Piscitelli e del maresciallo dei carabinieri Felice Ruffier e del brigadiere Domenico Mazzone. Il Piscitelli già nutriva per Antonio De Lucia suo cugino, del risentimento dovuto sia a gelosia di mestiere, sia il fatto che egli considerava il cugino responsabile della fine di un suo fratello che era deceduto per essere stato investito da un camion mentre andava con lui in bicicletta. Quanto apprese dal maresciallo Ruffier che i De Lucia avevano denunciato un furto di quattro agnelli da loro patito durante la notte dal due al 3 marzo e avevano formulato sospetti a suo carico fu accecato dall’ira e, armatosi di una pistola calibro nove, si portò presso l’ingresso del vano abitato dai De Lucia donde sparò un colpo contro Antonio De Lucia, che era presso la cucinetta rimasto illeso, e due colpi contro la madre Rosalia Calcedonia che pure si trovava all’interno del vano e fu colpita. Indi nell’allontanarsi, avendo visto nel cortile la sorella di Antonio, Carmela De Lucia , si detta di inseguirla fin nell’abitazione di tale Piscitelli Rosa esplodendo contro due colpi al petto. Vero è che l’imputato ha contestato in parti, specialmente in istruttoria e in dibattimento, tali risultanze precisando che egli fu aggredito e ferito ad un braccio con un ferro e da ciò sparò nell’abitazione dei De Lucia, ma solo due colpi non tre, entrambi diretti soltanto contro la Calcedonia, e che inoltre nel cortile Carmela lo minacciò dicendogli: “disgraziato ti devo uccidere”, e fu per questo che egli inseguì, e sparando detta Carmela; peraltro solo fin l’uscio della casa Rosa Piscitelli. Ma tali precisazioni vanno senz’altro disattese. Invero la falsità dell’assunto del prevenuto di essere stato aggredito e ferito con un ferro balza evidente ove si consideri che lo stesso innanzi ai carabinieri non attribuì ai De Lucia altra reazione al suo avvicinarsi armato alla loro casa che quella di chiudergli la porta a vetri in faccia, i che non valse ad impedirgli di compiere la sparatoria, ed ove si consideri altresì che il Piscitelli non seppe neppure indicare chi lo avrebbe ferito col ferro ( in istruttoria dissi che furono le due donne, senza tener conto che la Carmela non era in casa, e in dibattimento ha affermato che furono Antonio De Lucia e sua moglie). False sono poi anche le affermazioni che in casa dei De Lucia siano stati esplosi solo due colpi e solo contro la Calcedonia (i colpi furono tre, ed uno di essi fu diretto contro Antonio De Lucia come l’imputato ammise dinanzi ai carabinieri, tante è vero che vennero rinvenuti nell’abitazione tre bossoli e nella parete oltre i segni dei colpi diretti alla Calcedonia anche il segno di altro colpo all’altezza di metri 1,60 presso la cucina ove si trovava il De Lucia) che la De Lucia Carmela abbia pronunciato parole di minacce (la donna vedendo il prevenuto armato nel cortile, di ritorno dalla prima aggressione, si limitò a dirgli: ”fratello mio che è perché fai questo non mi uccidere); come essa riferisce e come confermano i testi Cesare Clima e Domenico Mazzone); che sia stato fatto fuoco contro Carmela De Lucia solo fuori l’abitazione di Rosa Piscitelli (il prevenuto inseguì la vittima fin nella casa della Piscitelli ove essa si era rifugiata, ed esploso il secondo colpa nell’interno della casa, nella seconda stanza come prova la circostanza che ivi fu rinvenuto uno dei bossoli). Ciò premesso, va rilevato che non può nutrirsi dubbio alcuno che l’imputato abbia compiuto la sparatoria al fine di uccidere le tre vittime. Egli agì in preda ad estremo furore, come ammise innanzi ai carabinieri, e cioè deciso a tutto. Le modalità dell’azione confermano poi irrefutabilmente la sua volontà omicida. Infatti i colpi furono diretti, da breve distanza, verso organi vitali delle vittime: la Calcedonia e Carmela De Lucia furono colpite l’una al braccio sinistro, l’altra al petto; e il colpo diretto ad Antonio Di Lucia si conficcò nel muro ad altezza corrispondente al torace del predetto che evitò di essere colpito sol perché, vistosi preso di mira, sì rannicchiò immediatamente dietro la cucina. Inoltre gli spari furono reiterati, quelli diretti contro Antonio De Lucia e la Calcedonia, fino a che l’arma non si inceppò, come è dato arguire dalla circostanza che furono rinvenute lungo le scale che conduce all’abitazione dei De Lucia e innanzi all’abitazione della Rosa Piscitelli cartucce inesplose, evidentemente estratte per riporre l’arma in condizioni di sparo, e quelli diretti contro Carmela De Lucia fino a che la donna, braccata nella casa ove si era rifugiata e colpita al petto, non cadde a terra e sembrò quindi mortalmente ferita.
La tesi della infermità mentale perché il padre era morto in manicomio – Il rigetto e la condanna a 10 anni. In appello la pena fu ridotta di 2 anni – Assolto il favoreggiatore
Innanzi alla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero Nicola Damiani), Giuseppe Piscitelli, accusato di triplice tentato omicidio, giocò la carta della seminfermità mentale. Non può riconoscersi la semi infermità – rimarcarono i magistrati del collegio – perché egli non ha dato mai segni di menomazione delle facoltà mentali, né tale menomazione può certo presumersi sol perché suo padre decedette in manicomio. E del resto il comportamento lucido, logico da lui tenuto durante l’aggressione e dopo suona definitiva conferma che egli compì il delitto con piena capacità di intendere di volere, e rende del tutto superflua ogni ulteriore indagine a riguardo: ben distinse i membri della famiglia De Lucia che voleva colpire dalle altre persone che erano nell’abitazione dei medesimi o nel cortile. Esplosi i colpi mirando perlopiù con esattezza nonostante la mobilità dei bersagli; dopo i primi spari eseguiti contro Antonio De Lucia e la Calcedonia ripose l’arma che si era inceppata in condizioni di poter funzionare di nuovo; dopo la sparatoria, consapevole della sua responsabilità si dette alla fuga, tanto che pensò subito a farsi raggiungere dalla moglie perché lo rifornisce di biancheria. Non vale obiettare infine, e sostenere l’imputabilità del Piscitelli, che l’aggressione omicida fu compiuta per una causale sproporzionata. A prescindere dal fatto che l’inadeguatezza del movente, in mancanza di altri concreti elementi, non può essere considerata prova di uno stato mentale anomalo dello agente, potendo essa a trovare spiegazioni del temperamento violento e irascibile dell’agente medesimo, sta di fatto che nella specie la causale che spinse il Piscitelli ad agire non può dirsi assolutamente sproporzionata. “In ordine all’omicidio – sentenziarono i giudici – non può concedersi l’attenuante della provocazione al comportamento dei De Lucia che determinò l’ira dell’imputato non può ritenersi ingiusto; i predetti si limitarono a denunciare al maresciallo com’era loro diritto, il sospetto che autore del furto fosse il Piscitelli; sospetto che essi nutrivano in buona fede per essere stati informati dal loro garzone che quella mattina aveva visto gironzolare il Piscitelli nei paraggi del recinto delle pecore”. “È il caso – concluse la Corte – però di concedere per l’omicidio le attenuanti generiche. Il Piscitelli, infatti, agì per un impulso improvviso nello stato di mente causatogli dalla accusa, di furto, mossa contro di lui, che peraltro, per quanto sia solo un indizio, e comunque non risulta pienamente provato. E per tale considerazione, nonostante egli abbia già riportato una condanna per furto è meritevole di clemenza. Quanto all’altro imputato Angelo Picca deve ritenersi accertata la sua responsabilità per il delitto di favoreggiamento personale. In definitiva il Piscitelli fu condannato per il tentato triplice omicidio ad anni 10 di reclusione. Nel fare appello i difensori invocarono il mancato riconoscimento dell’attenuante del vizio parziale di mente e quella della provocazione nonché eccessività della pena base. Mentre per il Picca i difensori chiesero l’assoluzione per non aver commesso il fatto. In appello (Mazzacca Nicola, presidente; Tullio Cataldo Antonio, consigliere; Eduardo Bramante, pubblico ministero, Sostituto Procuratore Generale della Repubblica) con sentenza del 15 maggio del 1962 la condanna per Piscitelli venne ridotta di 2 anni per sopraggiunta amnistia, mentre il Picca venne assolto. La Cassazione confermò il verdetto. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Francesco Lugnano, Antonio Schettino, Ferdinando Cioffi e Ciro Maffuccini.