Camera penale, Giuseppe Garofalo è il presidente emerito

di Biagio Salvati ( Il Mattino)

La Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere presieduta da Francesco Petrillo – ha conferito il titolo di Presidente Emerito all’avvocato Giuseppe Garofalo, principe e decano del foro sammaritano, allievo, codifensore e contraddittore di Alfredo de Marsico in importanti processi penali, studioso di storia giudiziaria, autore di diversi libri storici di giustizia. Già presidente e fondatore nel 1969 della Camera Penale sammaritana, Garofalo o «don Peppino» come lo chiamano affettuosamente i suoi allievi, compirà 100 anni il prossimo marzo. Il riconoscimento gli è stato conferito con una targa consegnata nel suo studio legale dal direttivo della Camera Penale. Commosso soprattutto il presidente della Camera Penale Petrillo.Con la sua sorprendente lucidità e modernità, ha infatti «incantato» i presenti su alcuni temi giudiziari, parlando delle Camere penali internazionali e delle intercettazioni «che oggi non sono cambiate rispetto al Medioevo». «Ammirati dalle virtù umane e professionali espresse in oltre 74 anni di attività forense e grati per gli insegnamenti impartiti con il nobile esempio del coraggio e della rettitudine manifestato nella tutela dell’avvocatura e dei diritti dei cittadini è riportato sulla targa – i penalisti conferiscono all’avvocato Giuseppe Garofalo il titolo onorifico di Presidente Emerito». La Camera Penale ricorda «la indiscussa rilevanza dell’opera professionale di Garofalo, maestro di diverse generazioni di professionisti attribuendogli il giusto riconoscimento per aver rappresentato la storia più nobile di questo Foro».

GIUSEPPE GAROFALO PRESIDENTE ONORARIO DELLA CAMERA PENALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE DOPO 70 ANNI DI TOGA

L’avvocato, il politico, lo scrittore, l’uomo, amico di tutti e  stimato da tutti

 Rosaria Capacchione attenta ed esperta cronista giudiziario de Il Mattino il 24 maggio del 2004 pubblicò una intervista a Giuseppe Garofalo che vale la pena di riportare integralmente.

IL MATTINO – Domenica 24 Maggio 2004

 L’intervista della Domenica

 Mezzo secolo di giustizia la toga di don Peppino tra la storia e la camorra

È stato vicepresidente della Provincia fino al 1970. Preferì le aule dei tribunali «a tutela della libertà»

Difese il farmacista Tafuri e la madre del sindacalista ucciso dalla mafia agraria «Oggi è tutto come allora»

 

di Rosaria Capacchione

Un vezzo. Una civetteria alla quale non vuole rinunciare pur sapendo che per smascherarlo è sufficiente leggere l’albo professionale. Don Peppino Garofalo, decano dei penalisti sammaritani, si ostina a nascondere la sua età. «Sono senza tempo, gli anni dell’anagrafe non contano» dice sornione. Ma poi ammette di aver attraversato per intero il secolo breve, il Novecento: il fascismo. la resistenza, la liberazione, le occupazioni contadine, la prima e la seconda Repubblica, vecchi e nuovi codici penali, vecchi e nuovi tribunali. Giuseppe Garofalo indossa la toga da avvocato da oltre cinquant’anni. Oggi come il primo giorno, con rabbia e con passione, con l’amore per il diritto e per i diritti degli uomini che nel 1970 gli fece abbandonare la politica per dedicarsi solo alla professione.

 

Due amori incompatibili?

«Per un pezzo avevo pensato di riuscire a conciliarli. D’altra parte, mi ero laureato in giurisprudenza, a Napoli. con una tesi in filosofia del diritto: sul Manifesto dei comunisti di Carlo Marx».

 

Ed è stato Marx a ispirare la sua passione politica?

«No, io sono sempre stato socialista e vicino a Pietro Nenni, la mia figura di riferimento. Socialista e iscritto al partito, consigliere provinciale eletto nel difficilissimo collegio di Casal di Principe e anche vice presidente quando il presidente era Falco. Durò fino al 1970.

 

E poi?

«Poi basta, anche se a malincuore. La politica, se fatta bene e con impegno, assorbe tantissimo tempo. Anche la mia professione ha bisogno di tempo, di passione, di dedizione. Fui costretto a scegliere. A farmi decidere per l’avvocatura a tempo pieno fu il valore infinito che davo e dò ancora alla libertà dell’individuo. Ecco , io scelsi di fare solo l’avvocato per potermi dedicare nelle aule di giustizia alla difesa di questa libertà.

 

Appassionato e sanguigno: chi sono stati i suoi maestri?

«Alfredo De Marsico, soprattutto. Iniziai la pratica nel suo studio, la proseguii in quella di Alberto Martucci».

 

Com’erano?

«De Marsico era un grande democratico, un uomo che era rimasto modesto nonostante la grandezza del suo ingegno. Non si vantava mai, acoltava sempre tutti, anche i più giovani. Era stato mio professore di diritto penale al primo anno di università. Lui, che era stato ministro della Giustizia nel governo fascista e che dal fascismo era stato condannato a morte, era rimasto un uomo umilissimo. Alberto Martucci, invece, il padre di Alfonso, era un combattente. E se De Marsico mi ha insegnato la logica, l’indagine dialettica e giocare con carte dell’avversario, da Martucci ho imparato a districarmi con coraggio nelle questioni di diritto».

 

Sono stati i suoi maestri. Anche suoi avversari nei processi?

«È capitato con De Marsico, nel processo per l’omicidio di Gianni De Luca: lui difendeva la parte civile, la famiglia del giovane indossatore napoletano; io il farmacista Aurelio Tafuri, l’imputato».

Ricorda la prima volta che mise piede in Corte di Assise?

«Ricordo benissimo il mio primo, grande processo: quello per l’omicidio del medico Gallozzi di Santa Maria Capua Vetere. Era stato ucciso da un tale Palazzo di Grazzanise, convinto che il dottore gli avesse mentito sull’illibatezza della figlia. Si scoprì Palazzo era stato armato da una serie di lettere anonime che denunciavano gli amori della figlia, Erano false, le scriveva la maestra della ragazza che si era invaghita di lei. Andò a finire che Palazzo fu assolto per infermità mentale e la maestra fu incriminata per aver istigato l’omicidio. Sia lei che la figliam di Palazzo poi si chiusero in convento».

 

In nome del principio di libertà, ha sempre difeso solo gli imputati?

«Niente affatto.La prima volta che la mafia fu processata per omicidio, a Santa Maria Capua Vetere per legittima suspicione, io difesi Francesca Serio, madre del sindacalista Salvatore Carnevale. Me l’aveva segnalata Pietro Nenni, commosso dalla figura di questa donna, una vedova che aveva avuto il coraggio, in Sicilia, di denunciare gli assassini del suo unico figlio. Fu un processo bellissimo, al quale assistette anche Carlo Levi, che alla Serio aveva dedicato il suo “Le parole sono pietre”. Veniva in udienza per vedere gli assassini, per capire se nei suoi disegni era riuscito a raffigurarli come erano nella realtà. La Corte di Assise condannò i quattro imputati all’ergastolo; furono assolti in appello».

 

Erano colpevoli, probabilmente, ma le prove non bastarono. Ha mai visto, invece, condannare un imputato nell’intima convinzione che fosse innocente?

«Mi è accaduto il contrario. Tre uomini arrestati e processati per l’omicidio del guardiano di un campo: altri tre a giudizio per lo stesso omicidio. Si professavano tutti innocenti. Io difendevo un tale Della Corte. Gli chiesi: “Sei davvero innocente? Bada bene, che per difendere te devo accusare un altro”. Lui giurò e spergiurò, io andai avanti su quella strada. Quando i giudici entrarono in camera di consiglio, dalla gabbia si fece scappare di essere lui l’assassino. Fu condannato. Io persi la causa, vinse la giustizia».

 

Da più di cinquant’anni indossa la toga del penalista. Ne ha viste tante, ma cosa è cambiato?

«Tutto nella liturgia, niente nella sostanza e nei guasti della giustizia. Per esempio, le leggi sono diverse da quelle di mezzo secolo fa ma è diminuita la preparazione degli avvocati: E per forza, in Italia ce ne sono 150 mila, uno ogni 300 abitanti… E dire che nel regno di Napoli, dove ce n’era uno ogni mille cittadini, sembravano già troppi. Mi viene in mente la battuta del viceré conte di Lemos, che rispondendo a un emissario del regno pontificio il quale chiedeva di acquistare un certo numero di suini, rispose in compenso ho 3000 avvocati».

 

E i suoi rapporti con i giudici?

«Difficili, allora come oggi, tant’è che mi ritengono l’ispiratore delle proteste, un sobillatore. Non è vero, naturalmente. Magari accendo il fuoco per non far spegnere la voglia di combattere, di pretendere il rispetto delle regole».

Oggi è il presidente regionale delle Camere penali, è stato a lungo il leader di quella di Santa Maria Capua Vetere…

«Che ho fondato, con Vittorio Verzillo, nel 1969. All’epoca esisteva quella di Napoli, ma solo sulla carta. Nel resto d’Italia c’era il deserto. Noi non eravamo soddisfatti del consiglio dell’ordine e inaugurammo la camera penale: la volemmo sveglia, combattiva, senza misericordia».

 

Avvocato, politico, sindacalista delle toghe. E anche storico. Come mai?

«Ero agli inizi della professione quando dal carcere ricevetti una cartolina da Abbatemaggio primo pentito della camorra antica. A quel tempo del processo Cuocolo non sapevo nulla, così come della malavita a cavallo tra l’800 e il ‘900. Parlai con Abbatemaggio, che tanta parte ebbe nel processo cuocolo, mi incurosii, mi documentai e cominciai a capire. Tornai in carcere, lo interrogai, studiai carte che dai tempi del processo non aveva più visto nessuno. Così nacque, nel 1984, la “Seconda guerra napoletana”. Una decina di anni dopo è stata la volta di “Teatro di giustizia”: una fatica enorme per raccontare i processi dell’epoca aragonese e spagnola nel regno di Napoli perché gli atti, le leggi, le prammatiche a cui ho attinto sono scritte in spagnolo e latino».

 

Le ha dato soddisfazione l’attività di scrittore?

«Tantissima. Ho saputo che addirittura, la “Seconda guerra napoletana” è stata tradotta abusivamente in Brasile da un avvocato italo-americano».

 

Tre le aule di giustizia e l’attività di ricerca storica, le avanza un po’ di tempo libero?

«Prendo la vita come viene. Quando posso vado a Gaeta oppure a cinema, ma preferisco uscire e vedere la gente. Mi piace Napoli. dove ho fatto liceo e università. Non la Napoli delle cartoline ma il decumano, con la sua anima antica».

«Com’è matrigna l’umanità»

Giuseppe Garofalo, nato a San Cipriano d’Aversa (in una zona che oggi è territorio di Casapesenna) e sposato con Angela Vassalli, professoressa di tedesco e francese. Ha tre figli: Nicola, avvocato, come lui, assessore provinciale alla Cultura in quota a Forza Italia; Rosa e Marisa, professoresse come la mamma. Spirito caustico, così Garofalo dice di sé: «Dal lunedì al venerdì sera sento parlar male dell’umanità e forse ne parlo male pure io; il sabato e la domenica sento la necessità di parlarne bene e non ci riesco”.

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Il 29 aprile del 2019 presso UNIVERSITÀ DELLE TRE ETÀ di SANTA MARIA CAPUA VETERE tenne una formidabile  “Lectio Magistralis” sulla Istituzione del tribunale di “Terra di Lavoro”. Riprendendo il suo intervento che fu stampato in occasione del bicentenario della istituzione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere –

Seminario Lingua e Letteratura – A sinistro il prof. Ermanno Bocchini, al centro Garofalo a destro il penalista Gennaro Iannotti –

Il 13 giugno del 2020 in occasione del Covid il giornalista Renato Casella per Cronache di Caserta volle sentire il parere del decano dei penalisti campani.

Il decano dei penalisti: Bonafede? Un portaborse siede al posto che fu occupato da Calamandrei, Croce e De Marsico

“Epidemie e carcere, dalla peste al Covid: così la storia si ripete”

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L’avvocato Garofalo: anche nel ’600 lockdown, distanziamento, unità di crisi e zone rosse

 NAPOLI (Renato Casella) – La scarcerazione dei detenuti a causa dell’emergenza sanitaria tiene banco negli ambienti giudiziari e non solo. Ma la questione, spiega a “Cronache” l’avvocato Giuseppe Garofalo, decano dei penalisti del Foro di Santa Maria Capua Vetere, non è nuova e si può trovare qualcosa di simile addirittura nelle cronache di diversi secoli fa. Quindi la situazione attuale le ricorda qualche avvenimento storico? Durante la peste di Napoli del 1656, c’erano 2800 detenuti, divisi fra Castel Capuano e carceri minori: 2000 di loro morirono per il contagio. Il Governo dell’epoca disse che chi voleva poteva uscire dal carcere, a condizione però che aiu- tasse i becchini a portare i morti alla sepoltura: in quei giorni c’erano molti cadaveri abbandonati in strada. Quasi tutti i detenuti che accettarono queste condizioni morirono. Un cronista dell’epoca racconta che “andarono a morte senza il boia”. In prigione c’erano anche due medici: furono liberati a condizione che andassero a servire nei lazzaretti e anche loro morirono. Inoltre, fu creata la Deputazione della salute, composta da nobili e popolani, che aveva ampio mandato per stabilire le distanze fra le persone, chi doveva stare in casa e chi al lazzaretto e altre norme. Una sorta di unità di cri- si, quindi. Altre similitudini? All’epoca i tribunali, a causa della peste, erano chiusi, come oggi. Questo, però non escludeva che i giudici condannassero a morte, tanto che furono disposte una decina di pene capitali. Un cronista scrisse che il vicerè aveva messo un lazzaretto per gli infermi e un altro nelle carceri, per chiuderci chi non la pensava come lui. Questi erano soprattutto i seguaci di Masaniello: non va dimenticato che la rivolta c’era stata pochi anni prima e il vicerè ne approfittò per mettere persone in carcere. E poi c’è la vicenda della peste di Bari: da Napoli mandarono un alto magistrato, un Garofalo mio omonimo, che fermò la peste e non fece espandere il contagio a Napoli. Ci furono dei morti anche nella città pugliese, ma lo scopo principale, quello di arginare la diffusione del morbo, fu raggiunto. Una sorta di “zona rossa” ante litteram. Che idea si è fatto della recente scarcerazione di detenuti in conseguenza dell’emergenza sanita- ria? Può succedere che qual- che recluso cerchi di ingannare le autorità, ma di fronte a fatti accertati un giudice non può permettersi di dire “devi morire in carcere”. La Costituzione tutela il diritto alla salute dei cittadini liberi così come dei detenuti. Prendiamo il caso di Pasquale Zagaria: ha un tumore, non un’influenza. Anche nel caso di Riina, ci fu un dibattito sulla scarcerazione… Al boss siciliano fu nega- ta, perché non era in pericolo di vita. Ma il caso di Zagaria è diverso e non si discute, degli altri casi non so. Anche la richiesta avanzata dai difensori di Raffaele Cutolo è stata rigettata. Sì, perché Cutolo si trova già in un posto dove lo curano meglio di quanto avverrebbe all’esterno. Ci sono carceri attrezza- te che fanno impallidire qualsiasi ospedale, con specialisti e attrezzature adeguate. Come vede il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in questo frangente? Bonafede, modestissimo avvocato e portaborse, siede al posto che fu occupato da Piero Calamandrei, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Or- lando, Alfredo De Marsico… Lo ritiene mal consiglia- to dai dirigenti del Ministero? Lui ubbidisce ai 5 Stelle, poi dice ai dirigenti cosa deve fare e loro cercano di destreggiarsi. Quando si è trovato di fronte alle critiche per il decreto, ha chiamato i dirigenti e ha chiesto come uscirne. Nei ministeri ormai non ci sono più i competenti, ma i raccomandati, e molti di loro sono sprovveduti: chiunque avrebbe evitato di emanare un decreto “Epidemie e carcere, dalla peste al Covid: così la storia si ripete” Il decano dei penalisti: Bonafede? Un portaborse siede al posto che fu occupato da Calamandrei, Croce e De Marsico.  E quel che mi rattrista di più è che un partito storico come il Pd faccia passare tutto pur di non perdere le poltrone. Ma non è in crisi solo la politica: anche la magistratura in questo momento non se la passa bene. Si parla di riforma del Csm, ma siamo sempre lì. Anticamente c’era l’istitu- to del sindacato: ogni due anni, tutti i giudici dovevano sottoporvisi. Ogni cittadino poteva reclamare per l’operato del magistrato, che era tenuto a rispondergli. Chi decideva su queste contestazioni non era né il re, né altri giudi- ci, ma dei tecnici che non appartenevano ai luoghi dove il giudice aveva eser- citato. E’ tema di queste ore l’indagine a carico degli agenti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere per le presunte torture ai detenuti. C’è chi ha parlato di una regia unica dietro le rivolte nelle varie carceri. Lei che idea si è fatto? So poco della rivolta, ma gli agenti possono aspettarsi vendette anche a di- stanza. Poi, se è vero che hanno praticato torture, lo vedremo se si svilupperà l’inchiesta. Ma per lei c’è una regia che cerca di sfruttare le emergenze? Per anni non ci sono state più rivolte in carcere, per- ché l’ordinamento penitenziario prevede permessi e scarcerazioni anticipate, ma a patto che si tenga buona condotta. Anche il peggior delinquente, quindi, si comporta bene per poter uscire. E adesso cosa è cambiato? Ci sono detenuti che non possono accedere ai bene- fici e hanno trovato il pretesto della pandemia per animare la rivolta.

Giuseppe Garofalo come scrittore ha pubblicato quattro libri

Giuseppe Garofalo, noto penalista, è stato prima allievo, poi codifensore e contraddittore in vari importanti processi del professor Alfredo De Marsico che, in un eclatante processo, lo definì “geometrico nella sapiente costruzione delle sue tesi”. Carlo Levi, presente invece al processo per l’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale ad opera della mafia, rimesso per legittima suspicione alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, ne apprezzò e lodò la condotta difensiva. Levi gli confidò che era li anche per verificare se gli accusati erano così come glieli aveva descritti la madre della vittima e che lui aveva riportato nel suo celebre libro Le parole sono pietre. L’avvocato Garofalo in quel processo di mafia difendeva Francesca Serao la mamma del sindacalista assassinato; il suo incarico era stato sollecitato personalmente da Pietro Nenni, leader del Psi, partito nel  quale il Garofalo militava.

Studioso di storia giudiziaria ha scritto tre libri di successo: il primo, Teatro di Giustizia, è la storia di un prete, Cesare Riccardi, uccisore di un nobile per motivo di donne. Indignato per la procedura ingiusta nei suoi confronti, diventò il capo indiscusso della delinquenza organizzata di tutto il Regno.

L’Empia Bilancia narra le disavventure di Gaspare Starace, cassiere maggiore del Banco dello Spirito Santo, condannato a morte per spaccio di monete d’oro tosate. Una condanna non eseguita perché ritenuta ingiusta e non revocata per viltà. Fu lasciato morire in carcere in attesa che il “Raglio dell’Asino” (l’istanza del condannato) raggiungesse il cielo.

La Seconda Guerra napoletana alla Camorra è la rivisitazione del processo Cuocolo, celebrato a Viterbo per legittima suspicione. Divenne il processo alla camorra e alla città di Napoli. Di questo libro ne sono state fatte tre edizioni. Nel 2019 Le ragioni del boia. La trama: Uno degli avvocati più illustri della città di Napoli si ritrova ai piedi del patibolo, condotto col cannale al collo, come una bestia da macello, pronto ad essere messo a morte in uno dei secolari teatri della giustizia, dalla scure del boia. Giudici, accusatori, vittime e regnanti, tutti sembrano essere nell’atto di recitare una tragedia invece che presenziare ad un processo di pena capitale. La scena teatrale non manca, Castel Capuano e Piazza Mercato sono solo due tra le più citate scenografie davanti alle quali i sanguinosi atti di governo si consumano. E una narrazione fatta di processi giudiziari che si svolgono a cavallo tra il XVIII e XIX secolo nella Napoli borbonica, e i cui protagonisti sono vittime e colpevoli, non tanto di ciò di cui vengono accusati, quanto della giustizia che processa se stessa. La giustizia qui mirabilmente dipinta è quella delle leggi soggette a interpretazione, dettata dall’arbitrio dei giudici, di una legalità fatta di concetti precettistici che sono incompatibili con la ben diversa realtà dei tribunali e del patibolo. Se i fantasmi che popolano quegli scenari di ferocia potessero parlare, reclamerebbero il coraggio difensivo mancato, l’azione individuale di uomini che hanno azzerato ogni credibilità nella giustizia, che li hanno infilati nella veste dell’infamia e mandati a morire.

L’autore, con estrema abilità, riesce a condurre il lettore nei meandri della giurisdizione, mostrandone il lato umano, crudele e privo di quella logica incisa nei libri, che raramente è presente nelle aule dei tribunali.

Giuseppe Garofalo nel 1963 al processo del medico Aurelio Tafuri. A sinistra -mentre accende una sigaretta l’avvocato Giuseppe Marrocco; poi Alfonso Martucci ( 32 anni) Garofalo  e il prof. Enrico Altavilla tutti del collegio a difesa di Tafuri – 

(Foto Archivio personale del giornalista Terlizzi con diritti acquistati dallo studio fotografico Carbone di Napoli) –