Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, i protagonisti del giallo: capi di Stato, banchieri, gangster e alti prelati
Il doppio sequestro e i personaggi a vario titolo coinvolti, da Wojtyla ad Agca, Marcinkus e De Pedis, fino a papa Francesco. Un protagonista delle trattative: «Pertini stava per firmare la grazia, la famiglia si oppose»
Giunti al 40° Natale senza Emanuela, la famiglia Orlandi, diventata suo malgrado una delle più famose d’Italia, ripone ora le sue residue speranze di verità e giustizia nell’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta proposta nei giorni scorsi da alcuni deputati e senatori di opposizione. Analogo il sentimento di Antonietta Gregori, la sorella di Mirella, l’altra quindicenne sparita nel 1983 e diventata “gemella”, pur senza averla mai conosciuta, della “ragazza con la fascetta”. Due inchieste lunghissime (la prima 1983-1997, la seconda 2008-2015), una dozzina di sospettati mai arrivati in giudizio, decine di piste percorse invano, omertà e depistaggi reiterati, decine di migliaia di atti stipati negli armadi blindati dalla Procura dopo l’ultima archiviazione. Il giallo Orlandi-Gregori si caratterizza per i grandi numeri, ma anche per le connessioni a vicende cruciali del secolo scorso, sul finire della Guerra Fredda, chiamando in causa a vario titolo personaggi finiti nei libri di storia. Ecco quindi la galleria affollata da uomini di Chiesa, esponenti politici, giudici, gangster, 007 e banchieri che, ognuno per la propria parte, contribuiscono a gettare squarci di luce sull’affaire Orlandi-Gregori.
Karol Wojtyla, il primo appello
Prima l’attentato in piazza San Pietro, poi il ricatto di natura politico-terroristica ai suoi danni. È il Papa polacco, il 3 luglio 1983, solo 11 giorni dopo la scomparsa, a ufficializzare il giallo di Emanuela Orlandi, dando alla vicenda una dimensione planetaria e alla pubblica opinione la sensazione che sia successo qualcosa di molto grave dentro le sacre mura. Giovanni Paolo II lancia il suo appello alla fine della preghiera dell’Angelus, con toni accorati. Frasi lungamente meditate, cesellate: “Desidero esprimere la viva partecipazione con cui sono vicino alla famiglia Orlandi, la quale è nell’afflizione per la figlia Emanuela di quindici anni, che da mercoledì 22 giugno non ha fatto ritorno a casa. Condivido le ansie e l’angosciosa trepidazione dei genitori, non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso”. Tanta partecipazione per un fatto di cronaca (ogni anno in Italia scompaiono migliaia di adolescenti) dimostra che qualche ricatto sottotraccia era già partito? Il fatto che la vittima fosse una concittadina del Papa rappresenta un indizio sicuramente centrale. Il giorno della scomparsa, 22 giugno 1983, Papa Wojtyla era in Polonia con la seconda carica della Santa Sede, il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, per un viaggio trionfale, con prolungati bagni di folla, volto a sostenere la battaglia anticomunista del sindacato cattolico Solidarnosc. La concomitanza tra il rapimento e la missione all’estero di Giovanni Paolo II è stata oggetto di congetture, in cerca del movente: Emanuela fu presa per ricattare il Vaticano e ottenere la restituzione dei soldi per la causa polacca versati allo Ior di monsignor Marcinkus?
Alì Agca, più furbo che pazzo
È il fantasma che aleggia sul sequestro di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori da quasi quarant’anni. La connessione tra l’attentato contro Giovanni Paolo II portato a termine il 13 maggio 1981 dal terrorista turco Alì Agca e le successive scomparse delle ragazze (22 giugno e 7 maggio 1983) fu ritenuta scontata dagli inquirenti della prima inchiesta (1983-1997) in quanto, fin dall’inizio, i rapitori, dopo aver dato prova di aver avuto contatto con gli ostaggi, chiesero lo “scambio” tra le quindicenni e il turco. In seguito Agca, condannato all’ergastolo già nel luglio 1981, si è prodotto in una serie infinita di esternazioni, giravolte e colpi di scena che ne hanno minato la credibilità: sul caso Orlandi, l’attentatore del Papa ha prodotto 107 versioni diverse, qualcuno si è preso la briga di contarle una a una. Ma va anche detto che tale atteggiamento ondivago e all’apparenza delirante potrebbe in realtà essere stato il frutto di una raffinata strategia: fingersi pazzo per tranquillizzare i soggetti (mai scoperti) che lo aiutarono ad arrivare in Piazza San Pietro. Che l’azione contro Wojtyla non sia stata un gesto solitario, d’altra parte, fu ritenuto certo dal giudice Severino Santiapichi che, dopo aver condannato in primo grado Agca all’ergastolo, sollecitò l’apertura immediata di una seconda inchiesta (quella poi istruita da Ilario Martella) per individuare i mandanti dell’attentato. La finta pazzia, insomma, come “polizza sulla vita” per il turco, che in tal modo (apparendo inaffidabile) ha evitato il rischio di essere eliminato fisicamente, per evitare che parlasse sul serio. Oggi Agca vive in Turchia con la moglie italiana e si fa talvolta vivo con nuove esternazioni (qui la lettera anticipata di recente da Ferruccio Pinotti sul Corriere)
Agostino Casaroli, il “dialogante” con l’Est
Il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli è stato spesso chiamato in causa nella vicenda di Emanuela Orlandi, perché i sequestratori scelsero lui come interlocutore delle telefonate in Vaticano. In un brandello di conversazione registrata, si sente una suora che con tono concitato passa la telefonata all’alto prelato (era il luglio 1984) e lui inizia a parlare con un misterioso personaggio, prima che la linea cada. In quanto fautore di una linea più morbida verso il mondo dell’Est (la cosiddetta Ostpolitik), Agostino Casaroli, stando al memoriale depositato in Procura nel 2013 da Marco Accetti, sarebbe stato il punto di riferimento del cosiddetto “ganglio”, un gruppo di potere coperto composto da laici ed ecclesiastici sospettato di aver allontanato di casa sia la Orlandi sia la Gregori, per indurre Agca a ritrattare le accuse alla Bulgaria in cambio di una sollecita uscita dal carcere.
Monsignor Celata, il braccio destro
Stretto collaboratore del cardinale Casaroli, monsignor Celata fu direttore del San Giuseppe De Merode, in piazza di Spagna, scuola esclusiva frequentata negli anni delle medie da Marco Accetti, il fotografo romano che nel 2013 si è autoaccusato del sequestro di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Secondo lo stesso Accetti, il nome dato a uno dei telefonisti della prima ora a casa Orlandi, “Pierluigi“, appunto, fu scelto dei rapitori proprio per far capire alla controparte che si faceva riferimento a monsignor Celata, non per condotte specifiche ma per la sua appartenenza alla fazione vaticana avversa alla linea fortemente anticomunista di Giovanni Paolo II. Un modo per “firmare” l’azione, insomma.
Domenico Sica, magistrato super esperto
Magistrato esperto in terrorismo, già Alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica detto “Mimmo” assunse la direzione delle indagini sul caso Orlandi nel pieno della torrida estate 1983, quando l’intreccio di comunicati sulla scomparsa delle due ragazze (da agosto i rapitori cominciarono a citare nei comunicati anche Mirella Gregori) diventò inestricabile. I soggetti che in qualche modo diedero prova di essere stati perlomeno in contatto con chi aveva il possesso delle quindicenni furono nell’ordine: tal “Pierluigi”, tale “Mario”, il cosiddetto “Amerikano”, il Fronte Turkesh e il misterioso “postino” che (proveniente forse da Roma) inviò quattro lettere da Boston. Domenico Sica gestì la delicatissima fase d’indagini del settembre-ottobre 1983 che, sotto l’incalzare delle richieste di “scambio” tra l’attentatore e le ragazze, coinvolse anche il presidente Sandro Pertini, tirato in ballo come titolare del potere di grazia.
L’Amerikano, il mister X
È il personaggio del mistero nel doppio giallo Gregori-Orlandi. Principale telefonista, interlocutore del cardinale Casaroli attraverso il codice riservato 158 (poi spiegato da Marco Accetti coma anagramma di 5-81, mese e anno dell’attentato al Papa), il cosiddetto “Amerikano” ha fatto letteralmente impazzire generazioni di investigatori, oltreché volare la fantasia di osservatori, giornalisti, criminologi, giallisti. Chi era l’uomo dall’inflessione anglosassone (reale o mimata), che si fece vivo per la prima volta il 5 luglio 1983, ponendo sul tavolo la richiesta di “scambio” tra Emanuela e Agca? Secondo un dossier firmato Sisde, il mister X altro non era che monsignor Marcinkus. Tanti hanno anche ipotizzato che potesse trattarsi di uno straniero dell’area mediorientale, con una buona conoscenza dell’inglese. In tempi recenti la voce di Marco Accetti è parsa corrispondere, anche a detta dei due periti fonici sentiti dalla docu-serie “Vatican girl” di Netflix.
Gennaro Egidio, l’avvocato tuttofare
Avvocato di fama, vicino ai servizi segreti, già difensore del marito della baronessa Rothschild scomparsa in circostanze misteriose nel 1980, Gennaro Egidio è stato una figura centrale della prima inchiesta Orlandi-Gregori (1983-1997). Il noto legale fu di fatto imposto alla famiglia Orlandi da esponenti del Sisde, che nei primi giorni si presentarono a casa di Emanuela per collaborare alle indagini; successivamente, non appena i rapitori aggiunsero Mirella nelle richieste, Egidio assunse la difesa dei Gregori. Gli Orlandi non pagarono mai la parcella, i Gregori sì, sobbarcandosi oneri enormi, fatto che ha provocato grande dispiacere, in tempi recenti, alla sorella Maria Antonietta, che non lo sapeva. Egidio monopolizzò il rapporto tra le famiglie, i giornali e gli inquirenti. La sua voce è agli atti in molte delle telefonate dell’ “Amerikano”, con il quale arrivò a instaurare un rapporto di quasi confidenza.
Giulio Gangi, lo 007 “stoppato” dai capi
Fu il primo agente segreto, giovanissimo 007 del Sisde, a entrare in casa di Emanuela un paio di giorni dopo la scomparsa: Giulio Gangi, morto il 2 novembre 2022 in fondo a una vita duramente segnata dalla sua partecipazione all’inchiesta Orlandi, fu l’investigatore che maggiormente lavorò sulla pista della Avon, nata dall’ultima telefonata a casa della ragazza, il 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di aver ricevuto una proposta di lavoro da un rappresentante della nota ditta di cosmetici, che si pensò fosse arrivato a bordo della Bmw verde notata da un poliziotto e un vigile urbano. Gangi si mise sulle tracce del fantomatico “adescatore” della Avon (ruolo però di copertura) e perlustrò tutte le officine di Roma, arrivando a individuare una vettura di quella marca con un vetro rotto, come se una persona all’interno avesse tentato disperatamente di aprire lo sportello e fuggire. Da questo indizio lo 007 arrivò a un residence in zona Aurelia, dove figurava tra gli ospiti una giovane donna bellissima, che lui tentò di interrogare in relazione al sequestro Orlandi ma ricevette un diniego sdegnato. Tornato in ufficio, Gangi fu duramente redarguito dal suo capo. «Doveva essere l’amante di qualche pezzo grosso», raccontò in seguito. Altra vicenda controversa, il suo annuncio alla famiglia Orlandi, nel settembre 1983, che la ragazza «sarà liberata entro una quindicina di giorni». Doveva averlo sentito dire al Sisde. Era la dimostrazione che una trattativa era effettivamente in corso? Gangi finirà per essere esiliato dai servizi d’intelligence e in tempi recenti, prima della morte causata da problemi cardiaci, aveva proposto all’autore di questo articolo di «svolgere un sopralluogo» nella pineta di Castel Fusano sulla morte di Josè Garramon, uno dei gialli collegati (il 12enne uruguayano fu travolto e ucciso dal furgone guidato da Marco Accetti, superteste e reo confesso del caso Orlandi, nel dicembre 1983).
Monsignor Marcinkus, “il gorilla”
L’arcivescovo statunitense, stretto collaboratore di Papa Giovanni Paolo II, all’epoca capo della banca vaticana (Ior), si trovò al centro della bufera provocata dal crack dell’Ambrosiano. Fisico imponente, ex guardia del corpo dei pontefici (per questo soprannominato “Il gorilla”), uomo dai modi spicci, fama di donnaiolo, Paul Casimir Marcinkus è stato persino indicato come possibile telefonista del caso Orlandi, il cosiddetto “Amerikano”. Fu un rapporto del Sisde dei primi anni Novanta a disegnare il profilo di un ecclesiastico, colto, conoscitore del latino e sottile analista dei meccanismi giuridici, da molti ritenuto corrispondente alla figura del presidente dello Ior. Emanuela Orlandi e i suoi parenti avevano con monsignor Marcinkus una certa familiarità, in quanto lo incontravano spesso sotto casa o nei giardini vaticani. «Una persona gentile», ha detto in passato Pietro Orlandi, che proprio allo Ior fu assunto da papa Wojtyla, in segno di attenzione e come forma di “ risarcimento“ nei confronti della famiglia Orlandi, dopo la scomparsa di Emanuela.
Enrico De Pedis, boss (anche troppo) benvoluto
Il capo della banda della Magliana Enrico de Pedis detto “Renatino” è entrato nella vicenda Orlandi molto tempo dopo la sua dipartita (fu assassinato vicino Campo de’ fiori il 2 febbraio 1990), in seguito a due fatti. Il primo fu la scoperta dell’ “indegna sepoltura“ a lui riservata, vale a dire il trattamento di favore post mortem di tumularlo all’interno della basilica di Sant’Apollinare, nel centro di Roma, curiosamente confinante con la scuola di musica nella quale si recò Emanuela il giorno in cui sparì. «Se volete risolvere il caso Orlandi, andato a vedere chi è sepolto a Santa Apollinare e il favore fatto al cardinal Poletti», fu la dichiarazione di un malavitoso della banda della Magliana, rilasciata nel 2005. In seguito l’ex amante di “Renatino”, Sabrina Minardi, mise a verbale nell’ambito dell’inchiesta riaperta nel 2008 di aver partecipato al sequestro di Emanuela, accompagnando (su ordine del boss) la ragazza dalla cima del Gianicolo al benzinaio in fondo alla “strada delle mille curve”.
Sabrina Minardi, la donna del boss
Giovanissima moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano, poi amante del boss della banda della Magliana “Renatino“ De Pedis, Sabrina Minardi, in fondo a un percorso travagliato di vita (prostituzione, droga) nel 2008 è uscita allo scoperto raccontando la sua verità sul sequestro Orlandi. Secondo la sua versione, in parte credibile e in parte vanificata da incongruenze, De Pedis qualche tempo dopo la scomparsa le chiese di portare Emanuela dal bar in cima al Gianicolo al benzinaio in fondo alla “strada delle mille curve“, per consegnarla a un monsignore, da lei descritto in tonaca, “con i bottoncini davanti”, e con un cappello a falde larghe sulla testa. La stessa Minardi, più volte posta a verbale nell’inchiesta Capaldo, ha indicato un appartamento in zona Monteverde (via Pignatelli) come covo dove sarebbe stata nascosta la ragazza. Quanto al movente, ha affermato di aver sentito dire che il ricatto innescato dal rapimento Orlandi era finalizzato a recuperare i soldi versati dalla malavita in Vaticano.
Arcadio Spinozzi, la Lazio, i codici
Il giocatore della Lazio Arcadio Spinozzi, compagno di squadra dei più famosi Manfredonia, D’Amico e Giordano, fu coinvolto inopinatamente nella vicenda Orlandi in seguito a un comunicato dei rapitori inviato all’Ansa il 17 ottobre 1983. «Perché non interrogare giocatore calcistico di Lazio Spinozzi? È stato lui a darci Emanuela e a fornirci primo rifugio». Cosa c’entrava il calciatore? Nulla, naturalmente. Spinozzi nel leggere il suo nome associato al giallo di cui parlava tutta Italia, il giocatore si arrabbiò moltissimo. Il messaggio dei rapitori di Emanuela e Mirella, in realtà, era quasi certamente una sorta di “firma”: il richiamo a un misterioso “Aliz” colpevole di aver ucciso Emanuela (“Suo corpo forse non lo trovate più, è Aliz è stato orrendo”) andrebbe letto con un riferimento alla parola “Lazio” (anagramma quasi completo), squadra all’epoca di Spinozzi ma anche di Bruno Giordano, ex marito di Sabrina Minardi, in seguito amante di “Renatino” De Pedis, capo della banda della Magliana implicata nell’operazione-Orlandi, appunto.
Ugo Poletti e “l’indegna sepoltura”
L’alta personalità ecclesiastica, all’epoca cardinale vicario, è stata chiamata in causa nell’intrigo Orlandi-Gregori per una decisione molto controversa e fonte di polemiche: fu il cardinale Ugo Poletti, nel 1990, a concedere il nullaosta alla tumulazione di Enrico De Pedis nella cripta di Santa Apollinare. Nel 2012, in seguito alle accese polemiche sull’ “indegna sepoltura” (il fratello Pietro Orlandi organizzò una manifestazione con un enorme striscione: «Nessuno Stato né tantomeno la Chiesa possono giustificare la criminalità»), il Vaticano diede l’assenso alla traslazione della salma. La moglie Carla Di Giovanni decise di procedere alla cremazione, anche per non trovarsi in futuro in situazioni di analoga tensione.
Sandro Pertini e la trattativa saltata
L’allora presidente della Repubblica, convinto fautore della linea della fermezza nel sequestro Moro, fu coinvolto nel caso Orlandi in quanto titolare del potere di grazia, che si ipotizzò di concedere ad Ali Agca per consentire il rientro delle quindicenni. Secondo recenti rivelazioni, Sandro Pertini, per quanto in linea teorica contrario, fu sul punto di firmare il provvedimento di clemenza a favore dell’attentatore nell’autunno 1983, negli stessi giorni in cui, in un’intervista all’Ansa (pubblicata il 20 ottobre), lanciò un appello per la liberazione degli ostaggi. «Era già stata convocata la conferenza stampa per dare l’annuncio che la situazione si era sbloccata – racconta al Corriere uno dei protagonisti del negoziato, oggi in pensione – ma all’improvviso accadde che la famiglia Orlandi si oppose alla concessione della grazia al turco. Prima volevano la certezza di avere indietro Emanuela, dicevano che un criminale del genere non poteva essere accontentato. Dal loro punto di vista, si poteva capire. Ma va tenuto presente che, con riferimento ad Agca, la vera vittima che aveva titolo a pronunciarsi era il Santo Padre, non loro. Si creò un intreccio inestricabile. E a quel punto saltò tutto. Ricordo contatti frenetici, di prima mattina, con l’avvocato, costretto ad annullare in fretta e furia la convocazione dei giornalisti alla Stampa estera». Ma se la grazia fosse stata concessa, le ragazze sarebbero state liberate? Visto con il senno del poi, un tentativo ulteriore fu fatto pochi mesi dopo, nel dicembre 1983, da Giovanni Paolo II, che perdonò e andò a trovare in carcere Agca: gesto interpretato da molti come segnale di dialogo (purtroppo vano, o tardivo) anche verso i sequestratori di Emanuela e Mirella.
Ilario Martella e la pista “rossa”
Giudice istruttore della pista “rossa” dell’attentato contro Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981, Ilario Martella è stato anche titolare delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori dall’85 al 1990. La sua convinzione è che le ragazze siano state allontanate da casa da un gruppo criminale spregiudicato e abilissimo, per ottenere da Agca la ritrattazione delle accuse di complicità nell’attentato da lui lanciate contro la Bulgaria (ed estensivamente Mosca) a partire dal 1982. Il giudice Martella è tuttora convinto della solidità del suo impianto accusatorio contro i tre funzionari bulgari, presunti mandanti e complici del Lupo grigio, nonostante il processo si sia concluso (nel 1986) con un nulla di fatto: gli imputati furono tutti assolti, seppure per insufficienza di prove.
Giancarlo Capaldo, l’inchiesta-bis
Giancarlo Capaldo ha diretto l’inchiesta Orlandi-Gregori aperta nel 2008 (e archiviata nel 2015) nel ruolo di procuratore aggiunto di Roma. Si è trattato della fase in cui la magistratura indagò sul ruolo avuto dalla banda della Magliana e, a partire dal 2013, sulle dichiarazioni autoaccusatorie di Marco Accetti, che nel 2013 ha consegnato il flauto riconosciuto dei familiari e consegnato in procura un voluminoso dossier. Sei i presunti responsabili dell’operazione Orlandi-Gregori iscritti da Capaldo sul registro degli indagati: Sabrina Minardi, ex amante di De Pedis, Sergio Virtù, ex autista del boss, due esponenti minori della banda della Magliana, lo stesso Marco Accetti e don Pietro Vergari, il rettore della basilica di Sant’Apollinare, amico di “Renatino” De Pedis, dopo averlo conosciuto in carcere, al tempo in cui era cappellano a Regina Coeli.
Marco Accetti, l’uomo del flauto
Fotografo romano, classe 1955, figlio di un costruttore massone, in gioventù vicino ad ambienti di estrema destra, per un periodo contiguo al Partito radicale, nonché ex studente del San Giuseppe De Merode (l’istituto diretto da monsignor Celata, uomo di fiducia del cardinale Casaroli), Marco Accetti nel 2013 ha fatto irruzione nel caso Orlandi con un gesto clamoroso: fu lui a consegnare (prima a un giornalista Rai, Fiore De Rienzo, e poi in Procura) il flauto traverso con tanto di custodia che venne immediatamente riconosciuto dalla famiglia Orlandi come quello di Emanuela. Accetti si è autoaccusato del rapimento di Emanuela e Mirella pochi giorni dopo le dimissioni di Papa Ratzinger, tempistica a suo dire non casuale, essendo stato appena eletto, con Francesco, “un pontefice non curiale”, più disponibile a rompere con il passato. L’uomo del flauto (la cui voce corrisponde a quella di almeno un paio di telefonisti) ha riferito di aver fatto parte di un gruppo (il cosiddetto “ganglio”) formato da laici, prelati dissidenti ed esponenti dei servizi segreti, che nei primi anni ‘80 si adoperò per favorire il dialogo con l’Est, contro la politica fortemente anti-comunista di Giovanni Paolo II, per contrastare la malagestione dello Ior e per obiettivi minori, come alcune nomine e ritocchi al codice ecclesiastico. In questa chiave, l’allontanamento da casa di Emanuela e di Mirella Gregori sarebbe servito a indurre Alì Agca, attraverso la richiesta di scambio fatta dai sequestratori, a ritrattare le accuse a Est, nella speranza di uscire di galera, con il risultato quindi di “salvare” il Cremlino. Un piano complesso che trova più di un riscontro fattuale: i precedenti pedinamenti di cittadine vaticane, le nazionalità italiana e vaticana delle ragazze prese in ostaggio, corrispondenti agli Stati coinvolti nel complotto sui quali svolgere pressioni, l’effettiva ritrattazione di Agca all’indomani della scomparsa di Emanuela, il 28 giugno nel cortile della Questura di Roma).
Giuseppe Pignatone, stop e archiviazione
Capo della procura di Roma nella fase finale della seconda inchiesta Orlandi (2008-2015), Giuseppe Pignatone non ha mai creduto agli elementi d’indagine raccolti dal suo vice, Giancarlo Capaldo, con particolare riferimento alla partecipazione della banda della Magliana e, in subordine, al ruolo di adescatore-telefonista del reo confesso Marco Accetti. Un dissenso che ha dato vita a uno scontro senza precedenti ai vertici di Piazzale Clodio: nell’aprile 2012, dopo che erano filtrate “indiscrezioni dei pm” sul fatto che «la verità su Emanuela Orlandi si trova in Vaticano», Pignatone avocò a sé il fascicolo. E nel giro di tre anni, dopo aver derubricato a manifestazioni di “narcisismo e mitomania” le dichiarazioni di Accetti, presentò al gip la richiesta di archiviazione, significativamente firmata dalla pm Simona Maisto e da una collega che mai si era occupata del caso, Ilaria Calò, e non dal principale “motore” delle indagini, Capaldo. Pignatone, andato nel frattempo in pensione, il 3 ottobre 2019 è stato nominato presidente del Tribunale Vaticano da Papa Francesco, carica che ricopre tuttora.
Pippo Calò e i soldi sporchi
Esponente di spicco della criminalità organizzata, noto come il “cassiere della mafia” a Roma, Pippo Calò è stato più volte tirato in ballo nella vicenda Orlandi nell’ambito della pista “follow the money”. Uno dei moventi ritenuto più plausibile per spiegare il rapimento della ragazza (nonché di Mirella Gregori) è infatti il tentativo della “mala” di recuperare i soldi versati in Vaticano, attraverso lo Ior di monsignor Marcinkus, per finanziare la causa polacca (Solidarnosc). Il nome di copertura di Calò nei primi anni ‘80 era Mario Aglialoro. Marco Accetti, nell’autoaccusarsi del sequestro, nel 2013 ha dichiarato che il primo telefonista a casa Orlandi fu chiamato “Mario” proprio per mandare segnali in codice alla controparte sulla natura criminale dell’azione e sul movente sotteso.
Papa Francesco, “Emanuela sta in cielo”
“Emanuela sta in cielo”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco, secondo quanto riferito dal fratello della ragazzina scomparsa, in un brevissimo faccia a faccia con i familiari avvenuto pochi giorni dopo la sua elezione, davanti alla chiesetta di Santa Marta, all’interno della Santa Sede. Era la primavera 2013. Il nuovo papa argentino era stato citato nel memoriale presentato nello stesso periodo in Procura da Marco Accetti, secondo il quale la sua decisione di uscire allo scoperto e auto denunciarsi era stata favorita proprio dall’avvento di un pontefice “non curiale” come Bergoglio. Negli anni successivi la famiglia Orlandi si è appellata numerose volte a papa Francesco. Dopo vani tentativi di incontrare personalmente il pontefice, di recente i toni si sono inaspriti. «Mia sorella – ha detto Pietro Orlandi alla presentazione della proposta di commissione parlamentare d’inchiesta di Pd, M5S e Azione – è l’unica cittadina vaticana rapita, eppure nessuno ha mosso un dito. Le anomalie sono tante, i servizi segreti coinvolti di tanti paesi, ma nessuno ha mai approfondito. Spero che la commissione abbia la forza per scavare. Emanuela è stata usata come oggetto di un ricatto che dura da 40 anni, altrimenti il Vaticano non avrebbe accettato di essere macchiato da allora da questi sospetti. Papa Francesco, Ratzinger e il cardinale Avril sanno la verità, ci sono messaggi WhatsApp recenti che lo fanno pensare. Lo Stato italiano è sempre stato succube di quello Vaticano».
Pietro Orlandi, battaglia infinita
Il fratello maggiore di Emanuela, classe 1959, pensionato dello Ior (fu assunto pochi mesi dopo il sequestro grazie all’impegno diretto di papa Giovanni Paolo II), padre di sei figli, sposato con Patrizia, non ha mai smesso di battersi per conoscere la verità sulla fine di sua sorella. Specialmente a partire dal 2010, Pietro Orlandi ha dato vita a una serie ininterrotta di iniziative (fiaccolate, marce, raccolte di firme in Rete, petizioni al capo dello Stato italiano e al segretario di Stato vaticano, se non direttamente ai pontefici) per ottenere l’accesso ai dossier a suo avviso ancora custoditi in Vaticano e una piena assunzione di responsabilità sulle “bugie, omertà e reticenze” che hanno caratterizzato la vicenda.