Finalmente un giudice a Berlino*
di Vincenzo D’Anna
L’arresto di Matteo Messina Danaro segna un altro duro colpo contro la mafia. Non si tratta qui di aver acciuffato la “primula rossa” di Cosa Nostra, di aver posto termine alla trentennale latitanza di un pericoloso criminale, forse l’ultimo dei grandi capi della cupola. Si tratta invece di una vittoria che travalica il fatto contingente (seppur encomiabile e clamoroso), stabilendo, senza equivoci e illazioni di sorta, che la società civile, quella cioè che crede nella rettitudine delle istituzioni, ha affermato la supremazia dei valori civili e democratici su cui si fonda lo Stato. Per molti, troppi anni, la trasparenza degli intendimenti del potere e delle strutture repubblicane sono stati messi in dubbio prima dai magistrati inquirenti, poi da certa stampa e da taluni ambiti politici ai quali conveniva speculare su quel presupposto per trarne vantaggi. Tanto per accreditare determinati magistrati come eroi che operano in ambienti in cui tradimenti, collusioni ed inconfessati favori venivano resi dal potere costituito alle organizzazioni malavitose. “La mafia è a Roma, radicata nelle istituzioni, nei corpi di polizia, nei responsabili politici e loro addentellati” si sbottava in tante interviste e nelle stesse aule parlamentari. Parole profferite da chi aveva fatto del giustizialismo e delle trame occulte tra Stato e Mafia, il proprio punto di forza, senza però mai riuscire a provarlo. La stessa procura di Palermo ospitava toghe che, più che inseguire e scovare i malavitosi, inanellavano teoremi per poter giungere a colpire determinati politici e partiti. Non è un caso che, confutate in sede dibattimentale quelle presunte verità, alcuni di quegli stessi giudici si trovarono poi a valicare il Rubicone trasferendosi nel campo della politica e quindi in quella parte che ideologicamente li aveva sempre orientati: la sinistra. Anche in questa veste costoro continuarono l’opera di denigrazione, propalando, con grande sussiego e supponenza, i ragionamenti basati sui sospetti di “coperture” tra apparati pubblici e malavita organizzata. Immarcescibili convincimenti, i loro, pur di avvalorare le proprie congetture ancorché queste non fossero mai state effettivamente riscontrate. Tali “personaggi” ricoprivano i ruoli di quelli che, senza macchia e senza paura, osavano sfidare chiunque ben protetti dalle guarentigie dell’irresponsabilità, osannati ed accompagnati, per un decennio, da schiere di reggicoda che agivano nel nome di Falcone e Borsellino, ancorché questi due, loro sì, eroi, fossero stati avversati in vita politicamente, in combinato disposto con le correnti, in sede di Consiglio Superiore della Magistratura. A cominciare dal lagnoso e monotono ex democristiano in salsa gesuitica Leoluca Orlando Cascio, sindaco di Palermo eletto col 75% dei voti. Ovviamente senza alcun concorso di clientele e malviventi. Poi ci furono i Caselli, con le sentenze suggestive che in premessa confutavano gli esiti stessi a cui queste erano pervenute(!!) fino a trasformare la prescrizione per decorrenza dei termini, frutto della loro lentezza e della fumosità di accuse mai provate, in vere e proprie sentenze di condanne per l’imputato cha aveva beneficiato del diritto previsto dalla legge. Andreotti, Mannino, Berlusconi, Mancino, Napolitano, i generali dei carabinieri-Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, furono solo una parte di un lungo elenco di imputati eccellenti poi scagionati dopo anni di calvario. Tutto ruotava attorno alla gestione dei pentiti e dei benefici loro concessi, in termini di utilità per dei mafiosi certificati. Come dimenticare il famoso “papello” tra Stato e mafia sfornato da quel gran taroccatore di documenti che fu Massimo Ciancimino? E che dire dei fratelli Graviano che non aprirono bocca in aula innanzi a centinaia di giornalisti di tutto il mondo avvisati di presenziare per assistere a clamorose rivelazioni? In quegli anni poco o nulla è stato fatto per catturare Messina Danaro e c’è da credere che anche stavolta sapranno tirare fuori teorie di uno scambio di favori tra mafiosi e forze dell’ordine, se non, addirittura, un gentile regalo al governo Meloni. Stavolta però ai vertici della procura di Palermo c’è un giovane e brillante procuratore, Maurizio De Lucia. Un giudice tenace e sereno. Un investigatore che ha rinunciato da sempre alle luci della ribalta, alla notorietà ed al codazzo dei soliti politici plaudenti. C’è da credere insomma, che l’aria sia cambiata, che si lavori e che si parli finalmente per atti giudiziari senza analisi sociologiche e politologiche strabiche “solo” per colpire quelli che, per posizione avversa, sono da considerare apoditticamente collusi. Forse è venuto il momento del cambio generazionale tra i togati, laddove non si avverte più il bisogno di leggi ad uso e consumo dei Torquemada di turno, come il concorso esterno non tipizzato e l’uso dei pentiti, posti nell’assoluta e discrezionale disponibilità dei pm. Forse, chissà, abbiamo realmente trovato un giudice a Berlino!!
*già parlamentare
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